Parlando di zingari
Stamattina tornavo in treno a Torino sul solito regionale da Milano, carico di tutte le masserizie per il viaggio da Roma – zaino, borsa del computer e giaccone bagnato. Dopo Chivasso, a un certo punto passa per il vagone una zingara; si ferma davanti alle persone sedute e comincia a chiedere l’elemosina. Davanti a me si ferma un attimo in più, io rispondo di no, lei insiste, alla fine se ne va.
Dopo tre o quattro minuti ne arriva un altro; ha in mano un foglio piuttosto lercio, dentro una busta di plastica trasparente, sul quale c’è la foto di un bambino e un testo abbastanza lungo che racconta di varie sofferenze e chiede una donazione. Arrivato vicino al mio sedile, si ferma e si sporge (io sono seduto vicino al finestrino) e comincia a insistere che vuole un euro. Lo dice una volta, lo dice due, spinge questo foglio proprio sotto al mio naso, chinandosi in avanti. Io dico di no una volta gentilmente, la seconda lo ripeto, alla terza capisco che qualcosa sta andando orribilmente storto, perché una insistenza così non si spiega. Alzo la voce e lo zingaro infine se ne va.
Prima ancora che possa controllare, la coppia di ragazzi marocchini seduta dall’altro lato del corridoio mi dice subito di controllare la borsa. Infatti lo zaino, posato sul sedile accanto a me, è aperto – e io sono sicuro di averlo chiuso. Loro parlottano in arabo, presumo dello stupido italiano che non sa neanche guardarsi le sue cose; per fortuna però devo essermi incazzato in tempo, perché non manca niente (del resto nello zaino non c’era niente di valore, se non il borsello con la macchina fotografica che però è piuttosto pesante e ingombrante).
Il trucco di mostrare un foglio tenuto sulla mano, mentre sotto si armeggia nelle borse con l’altra, è vecchio come il mondo (ma vale la pena di ribadirlo); questo caso però dev’essere particolarmente raffinato, visto che probabilmente al primo passaggio viene aperta la borsa, in modo che al secondo passaggio si possa frugare più facilmente.
Ora, come catalogare questo evento, che morale trarne? Io non lo so: agire per induzione, generalizzare in base a un episodio singolo, è un istinto umano ma porta a conclusioni del tutto irrazionali. Certo, basta aprire i giornali – anche quelli non di destra – per trovare casistiche molto più ampie; solo nelle ultime due settimane, solo a Torino, i rom sono finiti tra le notizie per un caso di morte accidentale durante furto di rame; per la contemporanea raccolta di firme contro i miasmi tossici che escono dal campo nomadi di strada dell’Aeroporto, quando i cavi rubati vengono bruciati per eliminare la plastica e recuperare il rame; e per l’arresto di una banda di rom dedita al racket del parcheggio. Un mese fa aveva fatto scalpore il caso del muro interno al campo per separare zingari bosniaci da zingari serbi.
Ma questo accade perché statisticamente i rom hanno tassi di criminalità e di turbolenza sociale superiori alla media, o perché i giornali sono interessati solo alle cattive notizie? E se hanno tassi di criminalità superiore, è colpa loro che hanno una cultura in cui certi comportamenti per noi inaccettabili sono normali, o colpa nostra che li emarginiamo?
Le istituzioni scelgono la via della tolleranza e li giustificano: per esempio, il nuovo vescovo Nosiglia ha esplicitamente citato i rom tra i suoi “figli prediletti”. Il Comune investe soldi nei campi, paga i danni e le bollette, promuove il volontariato e l’assistenza, mantiene un ufficio di undici persone solo per loro, che pubblica peraltro un rapporto molto interessante. Eppure, nonostante le conclusioni dello stesso rapporto rivendichino “il ruolo d’eccellenza che il Comune di Torino ha saputo conquistarsi nell’ambito delle iniziative e delle politiche rivolte ai Rom ed ai Sinti”, i risultati in termini di integrazione e di soddisfazione dei torinesi non sembrano esaltanti.
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