Ho comprato per caso, a Londra, un corposo libro sulla vita di Marco Pantani. Io, come saprete, sono un grande appassionato di ciclismo; ricordo perfettamente la sorpresa, l’esaltazione, la gioia per quelle due tappe di montagna del Giro 1994, in cui, da perfetto sconosciuto al secondo anno di professionismo, Pantani fece fuori tutti i rivali con una impresa incredibile. Ricordo anche la tristezza quando finì di autodistruggersi, nel febbraio di dieci anni dopo.
Il libro è molto interessante, molto ben scritto, pieno di dati e di prove come solo un libro di un giornalista inglese potrebbe essere; nulla di più distante dalla pletora di agiografie che sono uscite in Italia negli ultimi anni, spesso col solo scopo di far soldi. E’, comunque, un libro straziante e devastante al tempo stesso, perché è impietoso, e non nasconde nulla, finendo per fare a pezzi il mito di Pantani e con lui tutto il ciclismo. Per questo, sono abbastanza sicuro che non sarà tradotto in italiano.
Difatti, seguendo l’ordine cronologico degli eventi, la prima metà del libro racconta la crescita di Pantani: l’infanzia, l’adolescenza, i primi successi, l’esaltazione, la costruzione del mito. E poi, la seconda metà lo distrugge, esaminando cifra per cifra tutti i dati medici dei suoi processi, e poi descrivendo nel dettaglio e senza pudore (ma con pietà ) i suoi ultimi due anni da cocainomane allo stadio terminale – le liti, i colpi di testa, le macchine e le camere sfasciate, le cattive compagnie, le richieste di aiuto e il rifiuto dell’aiuto stesso, come un tossico qualunque.
La tesi del libro è chiara e inconfutabile: Pantani è un fenomeno chimico, il cui uso sistematico dell’eritropoietina (EPO) per pompare le proprie prestazioni risale perlomeno alle sue prime vittorie da professionista nel 1994, se non alla carriera da dilettante.
Questo, peraltro, lo sapevamo o lo sospettavamo già : in questi anni, è emerso chiaramente che – grazie al fatto che fino al 2001 non si poteva distinguere l’uso di EPO artificiale, ma solo sospendere chi si ritrovava con l’ematocrito sopra il 50% – praticamente qualsiasi ciclista degli anni ’90 faceva abbondante uso di EPO; del resto, non sarebbe altrimenti fisicamente possibile percorrere le strade in bicicletta a quelle velocità , nemmeno a quelle dei gregari.
L’EPO, per chi non è pratico, è una sostanza che è presente naturalmente nel corpo, e che regola la produzione dei globuli rossi nel sangue; i globuli rossi sono quelli che trasportano l’ossigeno ai muscoli, e quindi rendono possibile lo sforzo fisico di resistenza senza accumulare acido lattico. Più globuli rossi ci sono nel sangue, più prolungato è lo sforzo che un atleta può fare. Quando negli anni ’80 l’industria farmaceutica riuscì a produrre EPO di sintesi, lo scopo era curare gli anemici; eppure, pare che a fine anni ’90 l’EPO fosse il terzo farmaco più venduto d’Italia.
L’ematocrito è la percentuale di globuli rossi nel sangue; ha un valore che, a seconda della persona, sta tra il 40 e il 50 per cento, variando abbastanza poco nel tempo. Più l’ematocrito sale, più il sangue diventa denso, quasi un gel; esso può portare più ossigeno, ma diventa più pesante, sovraccaricando il cuore, e creando seri rischi di infarto.
I ciclisti cominciarono a fare iniezioni di EPO, arrivando artificialmente anche al 60 per cento, per incrementare le prestazioni fino al 7-10 per cento, che su una gara di cinque ore vuol dire venti-trenta minuti in meno: distacchi impossibili da colmare, anche col talento. Non c’è limite ai rischi che un essere umano può prendersi pur di vincere, diventare famoso, guadagnare bene; o anche, ai rischi che un manager e un dottore possono far prendere a un ventenne con la terza media pur di vincere e guadagnare bene alle sue spalle. Certo, ci sono alcune controindicazioni; ad esempio, i ciclisti dormono di notte con un apparecchio che li sveglia se il battito cardiaco scende sotto una certa soglia, perchè a quel punto l’infarto sarebbe molto probabile; in tal caso, si alzano e – magari dopo sette ore di gara di giorno – fanno un’oretta di cyclette, non perchè si divertano, ma semplicemente per sciogliere il sangue e non morire.
Non potendo individuare l’EPO artificiale, i controlli si limitavano a sospendere i ciclisti con l’ematocrito troppo alto, ossia soggetti a rischio di infarto; per questo, i ciclisti – che spesso sapevano in anticipo dei controlli, e comunque avevano alcuni minuti di preavviso – si limitavano a diluirsi il sangue con una soluzione fisiologica subito prima del controllo, in modo da risultare momentaneamente sotto la soglia.
Nel caso di Pantani, sono raccontati un paio di episodi agghiaccianti: come quando, dopo il terribile incidente alla Milano-Torino del 1995 giù per le rampe di corso Chieri, al CTO gli trovarono un ematocrito del 60%, che però crollò nei giorni successivi, fino a scendere al 20% e ad indirizzarlo verso una probabile morte per anemia; ciò è spiegabile col fatto che, di fronte a massicce iniezioni di EPO artificiale, la produzione naturale di EPO si blocca, e se si interrompono le iniezioni ci mette comunque un paio di settimane a riprendere; per cui non si dovrebbe smettere di colpo, ma gradualmente. Pare, anche se non è provato, che Pantani si sia salvato dalla morte solo perché qualcuno si infilò nella sua camera di ospedale e ricominciò a bombarlo di EPO di nascosto.
Quando poi nel 1999, alla fine di un Giro già vinto, lo beccarono, lui parlò di complotti; si portò avanti per sempre l’idea di essere una vittima, e la trasmise alle legioni dei suoi fan. Certamente non pensava di farsi beccare; certamente il modo da cannibale in cui vinceva, senza lasciare niente a nessuno, non piaceva al resto del gruppo; certamente, molti furono contenti quando lasciò la corsa. Insomma, che Pantani fosse effettivamente ben sopra il limite è certo, ma c’è comunque la possibilità che il complotto – non per incastrarlo artificiosamente, ma per farlo beccare – ci sia davvero stato, anche se ci sono altrettante possibilità che sia stato tutto solo un caso, che Pantani ha interpretato in modo vittimistico.
Per esempio, una delle tesi suggerite dal libro è che, come risulta dalle cronache, i medici deputati al prelievo di sangue si siano presentati oltre un’ora dopo quella prevista; in questo caso, anche se ci si è diluiti il sangue, l’organismo ha già cominciato a smaltire l’acqua in eccesso, e l’ematocrito è già risalito un po’. Oppure, si dice che il medico della squadra fosse sparito dopo una notte brava, e non fosse lì a fare la flebo di soluzione quando sarebbe servita. E’ ragionevole pensare che comunque il 53% rilevato dal controllo, pur sufficiente a sospenderlo, fosse decisamente meno di quanto Pantani avesse nel sangue fino alla sera prima.
Il problema, però, è che stando alla ricostruzione del libro Pantani aveva una personalità che conosco fin troppo bene: nell’adolescenza, preso tra una madre iperprotettiva e un padre poco presente, isolato a scuola per il suo buffo aspetto, aveva trovato nella solitudine del ciclismo la sua strada vincente, abbracciandola in modo ossessivo. Nella ricostruzione, Pantani appare come il più grande nerd che il ciclismo abbia mai avuto, sempre solo, sempre chiuso nel suo mondo interiore, concentrato sulla necessità di vincere sempre e comunque per compensare la mancanza di autostima, e incapace di costruire relazioni profonde con gli amici e a maggior ragione con le donne. Lo psicologo che lo visitò all’inizio della fine diagnosticò seri disturbi di personalità , di tipo narcisistico, dipendente, paranoico e ossessivo.
Non stupisce quindi che, da buon narcisista e quindi egocentrico, abbia preso la squalifica di Campiglio come un complotto ai propri danni, così come gli incidenti e le cadute e gli altri episodi di sfortuna che costellarono la sua carriera. Non stupisce nemmeno che, pochi giorni dopo quella squalifica, abbia cominciato con la cocaina, e ne sia diventato progressivamente schiavo, aiutato dal fatto di avere soldi infiniti e un sacco di persone accomodanti attorno. Purtroppo, non si può da questo concludere che Pantani sia stato distrutto dal mondo del ciclismo; ha sicuramente pagato più di altri una pratica che facevano tutti, ma il modo autodistruttivo in cui ha reagito è stata una conseguenza della sua personalità , non certo un destino ineluttabile.
In più, la cosa è stata peggiorata da quanti hanno insistito per continuare a farlo correre, anche quando chiaramente non era più competitivo, fino a pochi mesi prima della morte; le persone attorno a lui, sostenendo che farlo correre era un modo per tenerlo lontano dalla droga, hanno continuato a guadagnare, ma lui, mangiando la polvere degli altri, ha perso l’armatura che teneva in piedi la sua autostima; e senza autostima si muore per autodistruzione.
Qual è la morale di questa storia? Chiunque guardi il ciclismo sa perfettamente che tutti gli atleti moderni, chi più chi meno, sono dopati come e più dei cavalli, certamente in questo sport, probabilmente in tutti gli altri (è normale che un calciatore di ventidue anni, di una squadra minore che è diventata incredibilmente vincente in due anni, muoia di un “imprevedibile” infarto?). Finora, però, ero riuscito a confinare questo pensiero in un angolo del cervello, a considerarlo un male da combattere, ma che non offuscava la bellezza incredibile di questo sport. In fondo, se tutti si dopano, alla fine sono tutti alla pari, no? Anche quelli tra i fan di Pantani che riconoscono il suo doping hanno sempre ragionato così: Pantani era un fenomeno, un ciclista campione che si sottoponeva a “normali” pratiche di doping. Se il doping non fosse esistito, avrebbe vinto non di cinque minuti, ma di mezz’ora.
Purtroppo, il libro fa notare (con tanto di puntatore ad articolo scientifico di supporto) una verità triste ma ovvia: che in uno sport in cui sono tutti dopati non vince chi è geneticamente e mentalmente più portato per quello sport, ma chi geneticamente e mentalmente reagisce meglio alle terapie di doping. In altre parole, Pantani forse non era un ciclista campione che si sottoponeva a un normale doping, ma un ciclista normale che si sottoponeva a doping da campioni, probabilmente in modo ossessivo, esagerato e rischiosissimo come le sue famose discese.
Questo dubbio, purtroppo, non lo risolveremo mai: Pantani era veramente un campione o no? La sua storia da giovane è comunque piena di dimostrazioni di talento eccezionale; la bici era il suo destino. Certamente il suo bisogno di vincere a qualsiasi costo non era arrogante e cattivo, ma disperato ed essenziale. Certamente, la storia di Pantani è una storia molto triste, di una persona che ha avuto dalla vita premi eccezionali, senza mai essere felice; e li ha pagati a carissimo prezzo.
Forse possiamo concludere che Pantani è campione nel rappresentare quanto è marcio lo sport moderno, in cui gli sportivi sono le prime vittime, circensi pagati per farci divertire a qualsiasi costo, anche a quello della loro vita. Le immagini straordinarie delle imprese di Pantani restano nei miei occhi, ma come quelle di un fantasma; nonostante la fatica immane che sono comunque costate, non erano reali, ma soltanto show-business. Come Pantani, esistono dieci, venti, forse più, ciclisti morti d’infarto o di droga negli ultimi anni, a meno di quarant’anni di età , senza nemmeno l’onore delle telecamere. Il modo giusto di onorarli sarebbe quello di spezzare l’omertà , e di smettere finalmente di doparsi, tutti.
Peccato che gli ex colleghi di Pantani, dopati come lui, siano i nuovi dirigenti del ciclismo attuale.