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Archivio per la categoria 'Culturaculturacul'


giovedì 6 Dicembre 2007, 22:23

Hairspray

Interrompo la sequenza di post sulla Cina (ma non ho ancora finito) per segnalare che sull’aereo ho visto Hairspray, edizione cinematografica uscita di recente di un musical di grande successo a Broadway. La storia è ambientata nell’America del 1962, dove una studentessa di liceo partecipa a uno show televisivo cercando di promuovere l’integrazione dei neri.

In pratica, fin dal primo secondo appare in scena una perfetta sconosciuta: tal Nikki Blonsky, diciottenne gelataia di Long Island, un metro e quarantasette per un’ottantina di chili. La presenza scenica certo non le manca; tuttavia la ragazza balla e canta alla grande, e nonostante le mettano a fianco nell’ordine:
1) John Travolta e perdipiù vestito da donna;
2) Christopher Walken;
3) Michelle Pfeiffer, che canta davvero bene;
4) Queen Latifah, che notoriamente ha una voce eccezionale;
5) Zac Efron, cioè il protagonista di High School Musical, idolo delle ragazzine;
6) James Marsden, aka Ciclope di X-Men;
7) e persino una “amica del cuore” alta un metro e ottanta, bionda e supergnocca nella persona di Amanda Bynes,
il film è completamente rapito dalla sua performance, tanto è vero che verso due terzi la devono portare fuori scena di peso per riuscire a far vedere un po’ anche il resto del cast, peraltro con esiti deludenti (il lunghissimo, inutile duetto tra Travolta e Walken è nettamente il momento peggiore del film).

In più, la colonna sonora è davvero bella, raccogliendo – oltre al classico rock’n’roll – un po’ tutto lo stile Motown, dagli esordi fino ai Jackson Five (e tra l’altro il ragazzino nero, Elijah Kelley, è veramente molto bravo); e i numeri sono ben coreografati. Insomma, vale la pena di vederlo, almeno se non siete tra quelli che sono intolleranti ai musical.

[tags]hairspray, musical[/tags]

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mercoledì 21 Novembre 2007, 17:37

Pubblicità colte

Sentito ieri su Radio Flash, in una pubblicità di libri di ibs.it: “Approfitta dello sconto del 20% su tutte le novità 2007!”.

Che detto così – senza far caso al numero dell’anno – sembra che ti stiano facendo un bello sconto sui libri che usciranno per Natale, e invece stanno semplicemente cercando di liberarsi dei fondi di magazzino dell’annata.

E poi il circuito di Radio Popolare passa per essere alternativo…

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mercoledì 7 Novembre 2007, 09:25

Cinema Sky

È da un po’ di tempo che sto pensando di disdire l’abbonamento al pacchetto cinema di Sky, perché non c’è mai nulla di interessante da vedere.

Ieri, però, Murdoch si è superato, e mi ha mandato in prima serata questo leggendario film di Steven Seagal, intitolato Shadow Man. Racconta l’originale storia di un agente della CIA a cui viene rapita la figlia da un gruppo di cattivoni – due anni prima di Die Hard 4!

Ovviamente l’ho guardato con un occhio solo, mentre lavoravo, ma è stato sufficiente: immaginate la scena di una supergnocca che si spoglia nella penombra di una camera da letto, e viene prontamente abbracciata da uno Steven Seagal sessantenne, con la faccia piena di rughe e ingrassato di quaranta chili. Credo che lui non riesca nemmeno a baciarla, da quanta panza si frappone davanti a lui: difatti lo inquadrano solo da dietro.

In più, per abbassare il già basso budget dare un tocco di esotico, il grosso del film si svolge a Bucarest, dove però ci sono solo americani e russi (al tempo delle riprese i romeni erano già tutti emigrati in Italia). Naturalmente, sulla base del principio che per gli americani i romeni non sono esseri umani e la tortura sugli stranieri è legale, Seagal provvede a smazzulare tutti i cattivi del film con violenza brutale, sparandogli, mitragliandoli, infilandogli le dita negli occhi e pure nel naso; sempre a patto che il copione preveda che i cattivi aspettino quel tanto che serve al protagonista per smuovere la propria panza.

Insomma – mentre Sky raddoppia mandando subito dopo Predator 2 – io sono giunto a una conclusione: giunti a una certa età, gli attori di film d’azione dovrebbero essere costretti ad andare in pensione. Lo farei per il loro bene. Però intanto disdico l’abbonamento.

[tags]seagal, sky, cinema[/tags]

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lunedì 22 Ottobre 2007, 09:04

Trisfatta

Dev’essere duro essere inglesi stamattina.

Voglio dire: all’inizio della settimana siete dati per favoritissimi per qualificarvi per gli Europei di calcio, vincere il mondiale di rugby e pure quello di Formula 1.

Si comincia col calcio; mercoledì c’è Russia-Inghilterra: basta un pareggino contro una delle squadre russe più scarse degli ultimi cinquant’anni, e a un quarto d’ora dalla fine l’Inghilterra sta addirittura vincendo 1-0. Poi succede l’incredibile: l’arbitro si inventa un rigore per i russi, che pochi minuti dopo fanno anche il secondo gol. Inglesi sotto shock, russi in festa: gli basterà battere Israele e Andorra per andare agli Europei al posto dell’Inghilterra, che sarebbe eliminata per la prima volta in 24 anni. E i tifosi si prendono pure mazzate dai locali.

Disappointing, penserete voi, ma chi se ne frega del calcio: state per vincere il mondiale di rugby! E invece, arriva la gran serata e nuova delusione: la squadra va in bambola e, in una delle più brutte partite della storia del rugby, a festeggiare sono i sudafricani.

Bad luck! però adesso c’è almeno la consolazione del mondiale di Formula 1: quello non si può proprio perdere, è un tiro a porta vuota. Ci vogliono una invasione aliena o una rivoluzione bolivariana per far sì che Lewis Hamilton, con la squadra e la federazione internazionale impegnate a spingerlo da dietro, arrivi due posizioni dietro ad Alonso o cinque dietro a Ricchionen. Hamilton ci prova intensamente mettendo un paio di gomme vietato nelle prove, ma è talmente raccomandato che i commissari fanno finta di non vedere. Eppure, dopo una stagione perfetta, accade l’impensabile: Lewis si incarta alla prima curva, e poi dopo qualche giro gli si pianta la centralina, probabilmente impallata dal virus Tortellino, sviluppato appositamente per l’occasione in una non meglio precisata cittadina del sud Europa. Lo vedete piangere mentre, alla deriva a trenta all’ora per le curve del circuito di Interlagos, aspetta che Windows Vista finisca il reboot. Alla fine la federazione cerca ogni appiglio per squalificare qualcuno e fargli vincere il mondiale lo stesso, ma il circuito è presidiato dalle bande armate delle periferie di Sao Paulo, ingaggiate dalla Ferrari tramite Felipe Massa. E così, dopo russi e sudafricani, pure gli sconclusionati italiani vi possono fare il gesto dell’ombrello.

Dev’essere proprio dura essere inglesi stamattina. E’ per questo che sto perquisendo il mio cellulare, per inviare un apposito SMS a tutti i numeri che iniziano per +44!

[tags]inghilterra, rubgy, formula 1, hamilton, raikkonen, mondiale, sfigati, godo come un riccio[/tags]

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mercoledì 17 Ottobre 2007, 14:47

Scienza e razzismo

Ha fatto scalpore tra i benpensanti l’intervista con cui il vecchio dottor Watson – quello di Watson & Crick, gli scopritori del DNA, premi Nobel nel 1962 – ha dichiarato che, secondo i suoi studi, i neri sono meno intelligenti dei bianchi.

Naturalmente, detta così è troppo generica; bisogna definire cosa si intende per “intelligenza”, e comunque è noto che buona parte di ciò che noi consideriamo tale deriva dall’educazione e non dal proprio patrimonio genetico; e sull’accesso all’educazione i neri, ovunque vivano, sono mediamente svantaggiati.

Credo comunque che uno scienziato di tal livello questo lo sappia, e suppongo quindi che abbia in qualche modo individuato una definizione di intelligenza di tipo esclusivamente genetico; bene, non mi stupirebbe affatto scoprire che i neri sono effettivamente meno intelligenti dei bianchi. Dal punto di vista strettamente matematico, per gruppi di persone di una certa dimensione, è molto difficile che la media di un qualsiasi indicatore all’interno di un sottogruppo coincida esattamente con la media su tutto l’insieme; succede se il parametro con cui si è selezionato il sottogruppo è completamente scorrelato da quello che si sta misurando, e invece nel mondo reale tout se tient. Darei quindi un 50% di chance ai neri di essere meno intelligenti dei bianchi, e un 50% di essere più intelligenti; per sapere quale delle due, bisogna fare misurazioni statistiche su larga scala, sempre ammesso di poterle depurare dell’effetto dell’educazione dei singoli.

Poi, per carità, magari Watson è veramente un vecchio stronzo e i suoi esperimenti non hanno alcun fondamento. La notizia interessante, però, non è la sua affermazione, ma la reazione: è che anche al giorno d’oggi, proprio da quegli strati sociali “laici” che si vantano di aver superato il buio del passato, ci siano teorie scientifiche respinte con sdegno per motivi morali. In un certo senso, la fiducia nel fatto che tutti gli uomini siano uguali almeno in potenza è una moderna religione laica, che va contro le differenze evidenti che ci sono tra tutti noi. Di fronte a questa religione illuminista, agli scienziati è richiesto di cedere il passo, come già a Giordano Bruno.

Eppure, tutte le inquisizioni di Santa Romana Chiesa non servirono a far sì che la Terra si mettesse a ruotare attorno al Sole; e così, spesso l’avere una visione ideologica degli esseri umani diventa un ostacolo al risolvere i loro problemi concreti.

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mercoledì 10 Ottobre 2007, 18:28

I will not illegally download this movie

Lunedì sera siamo andati a vedere il film dei Simpson, al cine Massaua, già teatro nella mia infanzia e ora multisala con annesso ristorante messico-tarro.

Siamo entrati all’orario annunciato, e abbiamo dovuto sorbirci dieci-dodici minuti di pubblicità; alla fine è iniziato il film, che poi altro non è che un episodio dei Simpson gonfiato fino a un’ora e un quarto di lunghezza (divertente comunque). Nella sigla iniziale, la scritta che Bart scrive sulla lavagna è appunto “I WILL NOT ILLEGALLY DOWNLOAD THIS MOVIE”.

O almeno così pareva di capire, perchè cinque minuti dopo l’inizio le immagini erano già sfocate, fino a diventare praticamente inguardabili, tanto da far male agli occhi. C’è voluto un quarto d’ora, e uno spettatore incazzato che è uscito a svegliare il proiezionista, perché se ne accorgessero e lo rimettessero a fuoco. Dieci minuti dopo, hanno troncato una battuta a metà per chiamare l’intervallo in anticipo e sistemare meglio il problema.

Giunti alla precoce fine del film, dopo poco più di un’ora, cominciamo a sorbirci i titoli di coda: difatti, su di essi sono sovrapposte varie scenette che invitano ad aspettare in sala, perché c’è un pezzo di film dopo la fine dei titoli. Peccato che dopo il primo minuto dei titoli, in sala vengano accese le luci, rendendo lo schermo quasi invisibile e spingendo la gente ad andarsene.

Noi, e un paio di manipoli di coraggiosi, resistiamo. Aspettiamo quasi dieci minuti di titoli insopportabilmente prolissi, per vedere cosa c’è alla fine del film.

E, quando i titoli finiscono, pare che cominci un dialogo; ma la proiezione viene conclusa bruscamente. Guardiamo l’inserviente in sala, che alza le spalle e fa, “Eh, ce l’hanno mandato così…”.

Morale: d’ora in poi smetterò di vedere i film al cinema. Li si può vedere molto meglio scaricandoli illegalmente.

P.S. 1: Comunque, probabilmente non c’era più niente da vedere: difatti la prima parola di Maggie – detta durante i titoli – che in italiano è “continua”, nell’originale è “sequel”: non si riferisce quindi ai titoli stessi.

P.S. 2: Il filone più carino del film (purtroppo molto marginale e presto esaurito) è decisamente quello del maiale adottato da Homer e denominato Spider Pig, o in italiano Spider Pork, per motivi di rima che scoprirete guardando la gag qui sotto e che è già leggenda:

Ora, potevamo noi italiani non distinguerci? Non dimostrare che la mamma dei cretini è sempre incinta? No, vero? E quindi ecco la nostra risposta, in diretta da Sorrento (NA), con tanto di entusiastici commenti dei visitatori. Qualcuno chiami la protezione animali.

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giovedì 4 Ottobre 2007, 23:44

Teatro?

Oggi giornata piena, soprattutto perch̩ finalmente sono riuscito a ridare indietro la Meriva e riavere la mia macchina Рper qualche minuto, risalitoci dentro, mi ̬ sembrato (con grandissima soddisfazione) di guidare un go kart.

Comunque segnalo di essere tornato dopo un paio d’anni al Teatro della Caduta, e di avere assistito (gratuitamente e nell’intimità della più piccola sala teatrale cittadina, meno di cinquanta posti e pure pigiatissimi) a un bello spettacolo di cabaret semi-amatoriale; semi perchè le tre ragazze, una delle quali è la sorella della ex storica del cantante del mio gruppo dei tempi che furono, sono già nel giro del sottobosco di Zelig.

In effetti, anche se ottanta minuti di umorismo demenziale senza pause sono duri da reggere, ci sono state varie battute piuttosto degne, ovviamente una più stupida dell’altra. Comunque vale sempre la pena di fare un salto a vedere che c’è, in quello che è tutto meno che un teatro come ce lo si immagina normalmente; è più un happening e insieme un continuo salto mortale senza rete. L’ingresso in genere è gratuito, anche se vi verrà chiesta una donazione libera a fine spettacolo; però, vista la capienza, è decisamente consigliabile prenotare.

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martedì 11 Settembre 2007, 11:51

Pedalare

Alle volte mi rendo conto di come la nostra cultura abbia delle immagini e dei modi di dire che la rendono unica, descrivendo un’idea in un lampo e meglio di mille parole; e che non sono facilmente traducibili.

Ad esempio, come potevo spiegare un semplicissimo concetto al mio collega giapponese di ALAC, se non scrivendogli “You wanted the bicycle, now pedal”?

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martedì 4 Settembre 2007, 16:20

Conferenze spagnole

Anche oggi, alla fine, ho i miei cinque minuti di Internet cafe’ per dispensare pillole di saggezza.

Quella di oggi e’ che non bisogna far organizzare le conferenze agli spagnoli, specie se letterati. Non solo litigheranno continuamente con qualsiasi computer, rinunciando poi a mostrare le slide, peraltro orride e piene di testo; non solo si rifiuteranno pervicacemente di parlare in inglese, facendo infuriare la truppa tedesca che costituisce il nerbo dei partecipanti; non solo si lanceranno in eloquentissimi indirizzi di saluto a presenti, organizzatori, autorita’ e cittadinanza tutta, che porteranno via venti dei trenta minuti loro allocati, per poi sforare di altri quaranta.

Ma il secondo giorno, nel pomeriggio, costringeranno tutti a inerpicarsi su per la collina ripida, per tenere la sessione in un meraviglioso edificio-museo cinquecentesco, dove le seggiole sono scomode, non ci sono tavolini, non c’e’ interpretazione, non si puo’ avere il caffe’ al coffee break (coffeeless break?), e si deve subire un indirizzo di saluto del tipo sopra descritto da parte del direttore del museo; e si giustificheranno dicendo che si’, si rendono conto che in questo modo la mezza giornata di conferenza andra’ sostanzialmente sprecata, pero’ il museo era tanto bello e volevano assolutamente spacciarsi con te portandotici dentro.

(Comunque anche noi dovremmo tacere, che un dotto professore nordico a pranzo ci ha raccontato di come resto’ allibito quando, a una conferenza internazionale di linguistica da lui presieduta, professori del Nord Italia e professori del Sud Italia si presero a male parole davanti a tutti, in mezzo alla sala, al grido di “razzisti!” e “comunisti!”, sulla questione “il lombardo, il veneto e il piemontese sono lingue o dialetti?”. Non temete, comunque, lui concordava con me che sono lingue!)

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venerdì 31 Agosto 2007, 12:20

Pantani

Ho comprato per caso, a Londra, un corposo libro sulla vita di Marco Pantani. Io, come saprete, sono un grande appassionato di ciclismo; ricordo perfettamente la sorpresa, l’esaltazione, la gioia per quelle due tappe di montagna del Giro 1994, in cui, da perfetto sconosciuto al secondo anno di professionismo, Pantani fece fuori tutti i rivali con una impresa incredibile. Ricordo anche la tristezza quando finì di autodistruggersi, nel febbraio di dieci anni dopo.

Il libro è molto interessante, molto ben scritto, pieno di dati e di prove come solo un libro di un giornalista inglese potrebbe essere; nulla di più distante dalla pletora di agiografie che sono uscite in Italia negli ultimi anni, spesso col solo scopo di far soldi. E’, comunque, un libro straziante e devastante al tempo stesso, perché è impietoso, e non nasconde nulla, finendo per fare a pezzi il mito di Pantani e con lui tutto il ciclismo. Per questo, sono abbastanza sicuro che non sarà tradotto in italiano.

Difatti, seguendo l’ordine cronologico degli eventi, la prima metà del libro racconta la crescita di Pantani: l’infanzia, l’adolescenza, i primi successi, l’esaltazione, la costruzione del mito. E poi, la seconda metà lo distrugge, esaminando cifra per cifra tutti i dati medici dei suoi processi, e poi descrivendo nel dettaglio e senza pudore (ma con pietà) i suoi ultimi due anni da cocainomane allo stadio terminale – le liti, i colpi di testa, le macchine e le camere sfasciate, le cattive compagnie, le richieste di aiuto e il rifiuto dell’aiuto stesso, come un tossico qualunque.

La tesi del libro è chiara e inconfutabile: Pantani è un fenomeno chimico, il cui uso sistematico dell’eritropoietina (EPO) per pompare le proprie prestazioni risale perlomeno alle sue prime vittorie da professionista nel 1994, se non alla carriera da dilettante.

Questo, peraltro, lo sapevamo o lo sospettavamo già: in questi anni, è emerso chiaramente che – grazie al fatto che fino al 2001 non si poteva distinguere l’uso di EPO artificiale, ma solo sospendere chi si ritrovava con l’ematocrito sopra il 50% – praticamente qualsiasi ciclista degli anni ’90 faceva abbondante uso di EPO; del resto, non sarebbe altrimenti fisicamente possibile percorrere le strade in bicicletta a quelle velocità, nemmeno a quelle dei gregari.

L’EPO, per chi non è pratico, è una sostanza che è presente naturalmente nel corpo, e che regola la produzione dei globuli rossi nel sangue; i globuli rossi sono quelli che trasportano l’ossigeno ai muscoli, e quindi rendono possibile lo sforzo fisico di resistenza senza accumulare acido lattico. Più globuli rossi ci sono nel sangue, più prolungato è lo sforzo che un atleta può fare. Quando negli anni ’80 l’industria farmaceutica riuscì a produrre EPO di sintesi, lo scopo era curare gli anemici; eppure, pare che a fine anni ’90 l’EPO fosse il terzo farmaco più venduto d’Italia.

L’ematocrito è la percentuale di globuli rossi nel sangue; ha un valore che, a seconda della persona, sta tra il 40 e il 50 per cento, variando abbastanza poco nel tempo. Più l’ematocrito sale, più il sangue diventa denso, quasi un gel; esso può portare più ossigeno, ma diventa più pesante, sovraccaricando il cuore, e creando seri rischi di infarto.

I ciclisti cominciarono a fare iniezioni di EPO, arrivando artificialmente anche al 60 per cento, per incrementare le prestazioni fino al 7-10 per cento, che su una gara di cinque ore vuol dire venti-trenta minuti in meno: distacchi impossibili da colmare, anche col talento. Non c’è limite ai rischi che un essere umano può prendersi pur di vincere, diventare famoso, guadagnare bene; o anche, ai rischi che un manager e un dottore possono far prendere a un ventenne con la terza media pur di vincere e guadagnare bene alle sue spalle. Certo, ci sono alcune controindicazioni; ad esempio, i ciclisti dormono di notte con un apparecchio che li sveglia se il battito cardiaco scende sotto una certa soglia, perchè a quel punto l’infarto sarebbe molto probabile; in tal caso, si alzano e – magari dopo sette ore di gara di giorno – fanno un’oretta di cyclette, non perchè si divertano, ma semplicemente per sciogliere il sangue e non morire.

Non potendo individuare l’EPO artificiale, i controlli si limitavano a sospendere i ciclisti con l’ematocrito troppo alto, ossia soggetti a rischio di infarto; per questo, i ciclisti – che spesso sapevano in anticipo dei controlli, e comunque avevano alcuni minuti di preavviso – si limitavano a diluirsi il sangue con una soluzione fisiologica subito prima del controllo, in modo da risultare momentaneamente sotto la soglia.

Nel caso di Pantani, sono raccontati un paio di episodi agghiaccianti: come quando, dopo il terribile incidente alla Milano-Torino del 1995 giù per le rampe di corso Chieri, al CTO gli trovarono un ematocrito del 60%, che però crollò nei giorni successivi, fino a scendere al 20% e ad indirizzarlo verso una probabile morte per anemia; ciò è spiegabile col fatto che, di fronte a massicce iniezioni di EPO artificiale, la produzione naturale di EPO si blocca, e se si interrompono le iniezioni ci mette comunque un paio di settimane a riprendere; per cui non si dovrebbe smettere di colpo, ma gradualmente. Pare, anche se non è provato, che Pantani si sia salvato dalla morte solo perché qualcuno si infilò nella sua camera di ospedale e ricominciò a bombarlo di EPO di nascosto.

Quando poi nel 1999, alla fine di un Giro già vinto, lo beccarono, lui parlò di complotti; si portò avanti per sempre l’idea di essere una vittima, e la trasmise alle legioni dei suoi fan. Certamente non pensava di farsi beccare; certamente il modo da cannibale in cui vinceva, senza lasciare niente a nessuno, non piaceva al resto del gruppo; certamente, molti furono contenti quando lasciò la corsa. Insomma, che Pantani fosse effettivamente ben sopra il limite è certo, ma c’è comunque la possibilità che il complotto – non per incastrarlo artificiosamente, ma per farlo beccare – ci sia davvero stato, anche se ci sono altrettante possibilità che sia stato tutto solo un caso, che Pantani ha interpretato in modo vittimistico.

Per esempio, una delle tesi suggerite dal libro è che, come risulta dalle cronache, i medici deputati al prelievo di sangue si siano presentati oltre un’ora dopo quella prevista; in questo caso, anche se ci si è diluiti il sangue, l’organismo ha già cominciato a smaltire l’acqua in eccesso, e l’ematocrito è già risalito un po’. Oppure, si dice che il medico della squadra fosse sparito dopo una notte brava, e non fosse lì a fare la flebo di soluzione quando sarebbe servita. E’ ragionevole pensare che comunque il 53% rilevato dal controllo, pur sufficiente a sospenderlo, fosse decisamente meno di quanto Pantani avesse nel sangue fino alla sera prima.

Il problema, però, è che stando alla ricostruzione del libro Pantani aveva una personalità che conosco fin troppo bene: nell’adolescenza, preso tra una madre iperprotettiva e un padre poco presente, isolato a scuola per il suo buffo aspetto, aveva trovato nella solitudine del ciclismo la sua strada vincente, abbracciandola in modo ossessivo. Nella ricostruzione, Pantani appare come il più grande nerd che il ciclismo abbia mai avuto, sempre solo, sempre chiuso nel suo mondo interiore, concentrato sulla necessità di vincere sempre e comunque per compensare la mancanza di autostima, e incapace di costruire relazioni profonde con gli amici e a maggior ragione con le donne. Lo psicologo che lo visitò all’inizio della fine diagnosticò seri disturbi di personalità, di tipo narcisistico, dipendente, paranoico e ossessivo.

Non stupisce quindi che, da buon narcisista e quindi egocentrico, abbia preso la squalifica di Campiglio come un complotto ai propri danni, così come gli incidenti e le cadute e gli altri episodi di sfortuna che costellarono la sua carriera. Non stupisce nemmeno che, pochi giorni dopo quella squalifica, abbia cominciato con la cocaina, e ne sia diventato progressivamente schiavo, aiutato dal fatto di avere soldi infiniti e un sacco di persone accomodanti attorno. Purtroppo, non si può da questo concludere che Pantani sia stato distrutto dal mondo del ciclismo; ha sicuramente pagato più di altri una pratica che facevano tutti, ma il modo autodistruttivo in cui ha reagito è stata una conseguenza della sua personalità, non certo un destino ineluttabile.

In più, la cosa è stata peggiorata da quanti hanno insistito per continuare a farlo correre, anche quando chiaramente non era più competitivo, fino a pochi mesi prima della morte; le persone attorno a lui, sostenendo che farlo correre era un modo per tenerlo lontano dalla droga, hanno continuato a guadagnare, ma lui, mangiando la polvere degli altri, ha perso l’armatura che teneva in piedi la sua autostima; e senza autostima si muore per autodistruzione.

Qual è la morale di questa storia? Chiunque guardi il ciclismo sa perfettamente che tutti gli atleti moderni, chi più chi meno, sono dopati come e più dei cavalli, certamente in questo sport, probabilmente in tutti gli altri (è normale che un calciatore di ventidue anni, di una squadra minore che è diventata incredibilmente vincente in due anni, muoia di un “imprevedibile” infarto?). Finora, però, ero riuscito a confinare questo pensiero in un angolo del cervello, a considerarlo un male da combattere, ma che non offuscava la bellezza incredibile di questo sport. In fondo, se tutti si dopano, alla fine sono tutti alla pari, no? Anche quelli tra i fan di Pantani che riconoscono il suo doping hanno sempre ragionato così: Pantani era un fenomeno, un ciclista campione che si sottoponeva a “normali” pratiche di doping. Se il doping non fosse esistito, avrebbe vinto non di cinque minuti, ma di mezz’ora.

Purtroppo, il libro fa notare (con tanto di puntatore ad articolo scientifico di supporto) una verità triste ma ovvia: che in uno sport in cui sono tutti dopati non vince chi è geneticamente e mentalmente più portato per quello sport, ma chi geneticamente e mentalmente reagisce meglio alle terapie di doping. In altre parole, Pantani forse non era un ciclista campione che si sottoponeva a un normale doping, ma un ciclista normale che si sottoponeva a doping da campioni, probabilmente in modo ossessivo, esagerato e rischiosissimo come le sue famose discese.

Questo dubbio, purtroppo, non lo risolveremo mai: Pantani era veramente un campione o no? La sua storia da giovane è comunque piena di dimostrazioni di talento eccezionale; la bici era il suo destino. Certamente il suo bisogno di vincere a qualsiasi costo non era arrogante e cattivo, ma disperato ed essenziale. Certamente, la storia di Pantani è una storia molto triste, di una persona che ha avuto dalla vita premi eccezionali, senza mai essere felice; e li ha pagati a carissimo prezzo.

Forse possiamo concludere che Pantani è campione nel rappresentare quanto è marcio lo sport moderno, in cui gli sportivi sono le prime vittime, circensi pagati per farci divertire a qualsiasi costo, anche a quello della loro vita. Le immagini straordinarie delle imprese di Pantani restano nei miei occhi, ma come quelle di un fantasma; nonostante la fatica immane che sono comunque costate, non erano reali, ma soltanto show-business. Come Pantani, esistono dieci, venti, forse più, ciclisti morti d’infarto o di droga negli ultimi anni, a meno di quarant’anni di età, senza nemmeno l’onore delle telecamere. Il modo giusto di onorarli sarebbe quello di spezzare l’omertà, e di smettere finalmente di doparsi, tutti.

Peccato che gli ex colleghi di Pantani, dopati come lui, siano i nuovi dirigenti del ciclismo attuale.

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