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Archivio per la categoria 'Life&Universe'


venerdì 18 Luglio 2008, 07:11

Dormire dentro

Ieri sono andato a Roma in giornata; come spesso accade, per ottenere la migliore combinazione di orari e prezzi, ho fatto l’andata in aereo – uscita di casa ore 6:20, volo Blu-Express a 70 euro, arrivo in centro a Roma alle 10:50 – e il ritorno in treno – partenza da Termini ore 15:05, Eurostar a 60 euro, arrivo previsto a casa alle 21:10, arrivo effettivo alle 21:45 (grazie Trenitalia, e grazie anche per i dieci minuti di attesa nel tossico tunnel in discesa che porta alla stazione di Milano Porta Mai Pulita Da Quando Ci Passò Garibaldi).

Ho passato praticamente tutto il viaggio di ritorno a guardare il paesaggio dal finestrino, in parte lavorando al computer o ascoltando musica, ma senza mai perdere di vista l’esterno; è uno dei motivi per cui adoro il treno. Ho potuto così ancora una volta constatare come l’Italia sia davvero bellissima, tutta, dall’inizio alla fine. A patto naturalmente di addormentarsi per mezz’oretta mentre si attraversa Milano: ma quanto staranno bestemmiando gli abitanti della casa verdina a cui stanno costruendo a mezzo metro dal balcone un mega-cavalcavia ferroviario per l’ormai inutilissimo collegamento diretto Centrale-Malpensa?

Comunque, il resto è meraviglioso: si comincia con un pomeriggio dorato sui prati e sui campi della direttissima per Firenze, che si snodano tra le colline fino a giungere alla zona di piccoli calanchi che segna l’ingresso nella valle dell’Arno. Poi si vede Firenze, e di lì le montagne in cui la ferrovia si inserisce senza tanti complimenti, con tutta la supponenza dell’epoca fascista, fino al tragico tunnel sotto l’Appennino (cento morti sul lavoro tra incidenti e silicosi, ma un’opera che per l’epoca era fantascientifica). Poi c’è la pianura padana, un susseguirsi di campi che profumano d’estate e di aria immobile, fino a un fantastico tramonto dal ponte sul Po. Poi, dopo la mezz’oretta di dormita, ci si sveglia in mezzo ai boschi della riva del Ticino e di lì alle risaie, e infine alla corona delle Alpi.

Ebbene, con tutto questo popò di meraviglia, io ero l’unico di tutto il vagone che guardava fuori. Il signore davanti a me leggeva un romanzo giallo di Franco Cardini (per la serie “anche gli insigni storici vanno in cerca di celebrità”). I due al mio lato leggevano Il Sole 24 Ore e Inmoto (sì, esiste una roba che si chiama così, e non ha lo spazio in mezzo al nome). La signora dall’altra parte ha telefoninato per tre quarti del tempo, e nel resto si è guardata le unghie; il ragazzo di fronte ha passato tutto il tempo a giocare col cellulare.

Non sono ben sicuro di cosa sia andato perso; se la capacità di meravigliarsi, il senso del bello, la comunione con la natura, oppure la voglia di vivere e di conseguenza la possibilità di accorgersi della vita che scorre fuori dal treno. C’è però qualcosa di molto sbagliato in tutto questo.

[tags]treno, paesaggio, italia, natura, vita[/tags]

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martedì 15 Luglio 2008, 15:43

La campagna in città

Alle volte sei lì con te stesso e le tue domande senza risposta, tipo “Ma perché io che lavoro con i cellulari e co-possiedo una azienda di applicativi mobili vado in giro con un Nokia del 2002, mentre gente che non arriva a fine mese e non sa distinguere un browser dal solitario di Windows fa la fila di notte per comprarsi un iPhone a 100 euro al mese?”.

Alle volte invece benedici le tue scelte, tipo oggi che ero in giro in bici, sono entrato da Fnac e ho visto almeno cinquanta euro di cose da comprare, tra cui l’intera discografia dei Jethro Tull in offerta a cinque euro a CD: ok, avendoli tutti in plurime copie MP3 è puro feticismo, ma ne vale la pena; allo stesso prezzo ci sono anche i Dire Straits e a poco di più i Led Zeppelin, che a me non sono mai piaciuti più di tanto ma è un’ora che ho in testa il riff di Good Times Bad Times e non se ne vuole andare. E poi per soli ventisette euro e rotti si può comprare il mattone antologico di Cuore; ma in bici, senza zaino, non ci stava, e quindi ho risparmiato i soldi fino alla prossima visita.

Tutto questo era per introdurre il racconto di un bel giro in bici fatto domenica pomeriggio. Se non usate il mezzo, probabilmente penserete che fare un giro da diporto nel raggio di dieci chilometri da piazza Rivoli sia impossibile, trattandosi di zona pesantemente urbanizzata; ma ciò è decisamente falso. Basta un quarto d’ora di pedalata per trovarsi in mezzo all’agricoltura; io mi sono infatti diretto verso Collegno, superando il Campo Volo e il Parco Ian Gillan per infilarmi nella mossa pianura che sta tra la Dora, Collegno e Rivoli.

Ad esempio, dal cavalcavia della tangenziale che marca la fine di Collegno c’è un panorama magnifico sul Musiné, con i campi di grano in mezzo e l’antica cattedrale laica – bella quasi come le giustamente decantate OGR di via Boggio Borsellino – del Cotonificio Valle Susa. Poi si risale leggermente verso Alpignano, si piega dentro il paese e si arriva al cimitero che aggetta sul fiume (sia Collegno che Alpignano hanno il cimitero che aggetta sul fiume, sulla sponda sud, alla fine della salita che risale dal ponte del paese: si saranno messi d’accordo?).

E’ un percorso che conosco bene perché lo facevo già quando abitavo a Rivoli; e vi giuro che non sembra affatto di stare in città. Del resto, il nome Alpignano vuol dire “villaggio delle Alpi”, uno dei tanti toponimi celto-longobardi che finiscono in -gnano sparsi per tutta la bassa Europa, da Perpignano – il cui senso non ho trovato perché mi sono perso in un sito in catalano che protestava contro l’uso del termine “alpinismo” in quanto razzista verso i Pirenei – fino a Lampugnano, che vuol dire “villaggio delle macchine puzzolenti che cercano parcheggio per prendere la metro”. E quindi, sotto le Alpi si sta, con una bell’ariëtta che vien giù dalle montagne e che ogni tanto diviene un certo tifone tra i raggi della ruota.

Proprio dal cimitero d’Alpignano si può imboccare una scorciatoia, senza dover discendere fino al ponte vecchio e poi risalire una versione in sedicesimo del muro di Grammont. Basta prendere a destra e un piccolo passaggio ciclopedonale conduce al ponte del tubo, ovvero una passerella sulla Dora costruita sopra un grosso tubo di qualche acquedotto che doveva proprio attraversare il fiume. Si emerge così nelle frange orientali di Alpignano, e si può presto girare a destra verso Pianezza.

E’ lì che ho scoperto un nuovo, bellissimo percorso ciclabile costruito da pochi anni sulla riva settentrionale della Dora. Esso attraversa tutto il comune di Pianezza, da confine a confine, collegando due dei maggiori landmark del suo territorio: a ovest, la salitina dove durante l’esame di guida ho fatto una partenza col freno a mano che stanno ancora applaudendo adesso; a est, il campo di calcetto con vista tangenziale dove più volte io e l’ex staff di Vitaminic abbiamo dato spettacolo.

In pratica, dall’angolo di Alpignano si diparte una strada ciclabile larga, ben segnalata e piena di ghiaietto minimo, molto ben battuto; si percorrono due tornanti in discesa e ci si trova poi a seguire il fiume, stretti tra le sue acque e quelle di un canale di servizio che rappresenta un’opera idraulica notevole, scavata nella parete della gola, e che risale addirittura al Settecento, quando fu costruito per alimentare il filatoio che stava nella golena.

Si sbuca quindi al porto di Pianezza, proprio sotto l’antico gioiello della Pieve di San Pietro. Si attraversa una zona di antiche fabbriche e di una spettacolare casa di ballatoio costruita proprio a pelo d’acqua, dove – era domenica pomeriggio – tutti gli abitanti dei vari piani si son messi a guardarmi dai balconi; poi, dove la golena si chiude, riparte la strada ciclabile.

Questo è il punto di una delle mie grandi avventure: giunsi qui, in bici, a metà degli anni ’90, e scoprii sul fiume un’antica, instabile passerella di ferro arrugginito. L’incoscienza mi prese, e così decisi di farmela tutta, bici alla mano, sperando che il ferro non si piegasse d’improvviso scaraventandomi svariati metri più sotto in mezzo alla Dora. Non si piegò, e così io potei percorrere con successo la strada in completo abbandono che collegava l’altro lato con Bruere, passando vicino al già citato cotonificio, fino a sbattere contro un cancello chiuso, però dalla parte interna. Dovetti trovare un canonico buco nella rete per uscire, e solo allora potrei leggere qualche decina di cartelli di pericolo messi nel verso opposto; ma fu un’avventura memorabile.

Bene, ora al posto della vecchia passerella ce n’è una nuova, che racconta come quella vecchia (foto: sì era proprio lei) risalisse al 1917, in sostituzione di altre precedenti, e fosse in completo abbandono dal dopoguerra; serviva alle contadine di Bruere che venivano a lavorare nelle fabbriche di Pianezza, e, visto che l’orario di lavoro era lungo e le contadine uscivano a notte inoltrata, fu teatro di svariati stupri, rapine e ammazzamenti.

La nuova passerella è ancora chiusa in attesa della “messa in sicurezza” della strada dall’altro lato che io feci dieci anni fa (ah, che pavidi); spero che la aprano presto, perché è un bel percorso. Ho quindi proseguito sulla sponda nord, dove seguendo le abbondanti indicazioni si infila un buco sotto la tangenziale e si sbuca al ponte di Collegno.

E qui vengono le note dolenti: non mi sono accontentato, e ho tentato il bis. Già, perché anche a Collegno hanno deciso che dovevano avere un parco agricolo della Dora, con i suoi bravi percorsi ciclabili; il parco inizia davanti al cimitero, per la strada del canile da cui proviene il mio gatto. Lì c’è l’unica mappa del parco, che mostra chiaramente un percorso per arrivare a Torino, zona campo rom della Pellerina.

Di lì in poi, sono solo percorsi sterrati, fangosi, tenuti malissimo, senza una freccia che sia una, pieni di inutili cartelli modello sussidiario di quinta elementare (“scheda: che cos’è un fiume”) ma senza alcuna indicazione sulle direzioni da prendere. In pratica, il percorso per Torino finiva nella selva oscura; non volendo tornare indietro per chilometri, ho preso l’ulteriore nuova passerella sulla Dora che dovrebbe portare, a scelta, in frazione Castorama o in frazione Burger King; anche lì, zero frecce e un sacco di tracce agricole che finiscono nel nulla. Ho pedalato avanti e indietro nel fango per un’ora, auspicando malattie fulminanti per tutta l’amministrazione comunale di Collegno; alla fine l’unico modo per uscire è stato tagliare attraverso il cortile di una cascina e poi per un prato, navigando tra l’erba incolta, fino a impattare il guard-rail della statale 24.

Poi, il ritorno per via Pianezza e la Pellerina, dove un gruppo di russi ubriachissimi aveva portato un SUV fin nel cuore del parco e lo usava per sparare musica orrida a volume pazzesco, circondato a debita distanza da decine di italiani che dicevano “lo facessimo noi, i vigili ci sequestrerebbero anche le mutande”. Arrivo a casa stanchissimo, ma contento: dovreste farle più spesso, queste cose.

[tags]torino, collegno, alpignano, pianezza, bici, dora, parco, sindaco-collegno-caghetta-fulminante[/tags]

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mercoledì 25 Giugno 2008, 08:53

Reminiscenze ancora, di Parigi

Succede ogni tanto nella vita: una serata inattesa che ricorderai a lungo, per la strana combinazione di fattori. In questo caso, è successo che dovessi una serata fuori a Izumi; pensavamo di andare insieme al party del punto Bretagna (.bzh per la precisione), ma poi avremmo incontrato i nostri colleghi dell’At Large e il cibo mi sarebbe andato di traverso.

Per questo lui ha estratto la sua guida giapponese – come ogni giapponese, in qualsiasi parte del mondo ha una guida del posto in giapponese, che gli dice cosa è sano fare per un giapponese – e ha scodellato il ristorante giapponese Yen, a San Germano ai Prati, che poi è within walking distance da dove siamo noi, a Monparnaso.

La passeggiata d’andata è stata molto professionale, un circondare il grosso birillone della torre nera che sovrasta la stazione, e poi una lunga discesa per negozi sulla via di Renne. Arrivati davanti alla chiesa di san Germano, abbiamo subito individuato il nostro posto, in una via laterale; temevamo non ci fosse posto, e invece era deserto. Peccato che ci fosse un piccolo problema: nell’intero quartiere mancava la luce!

Ci siamo così assisi lo stesso, dopo una lunga discussione relativa ai dettagli della conferenza di ICANN e alla mia incombente visita in Giappone. Non c’erano però chance di avere del cibo, e così, mediante una contrattazione trilingue – lui in giapponese, io in francese, e tra noi in inglese – ci siamo accontentati di una bottiglia di bianco.

Dopo un’ora di chiacchiericcio, eravamo già quasi parenti; complice il bianco secco secco e molto buono. Stavamo, è vero, chiedendoci che fare, giacché di elettrico non v’era nulla, e di conseguenza non c’era cibo in vista. Dopo oltre un’ora, alle otto e un quarto, il boato: l’intero quartiere in piedi ad applaudire l’azienda elettrica, che improvvisamente ristora l’energia in tutte le locande.

La cena è stata ottima, provando un po’ di tutto: melanzane fritte e insalsate, pezzetti di pollo in esplosione di pastella, ben tre pezzi in due di pesce arrostito in maniera egregia, e poi il piatto principale, la soba: che sarebbero spaghetti freddi da intinger nella soia, naturalmente dopo averla riempita di wasabi e di un’altra erbetta il cui nome già mi sfugge, ma che era molto buona. E non dimenticate che dopo averlo finito dovete farvi portare l’acqua della pasta, e mescolarla al fondo della soia: e trincare tutto ciò che ne deriva. Altro che ramen, che – come mi disse Izumi – è roba depravata da cinesi.

Ci siamo anche baccagliati un francese e un belga al tavolo a fianco, e insomma la serata è scorsa via memorabile, soprattutto per la sua improbabilità: quand’altro vi capita un tete a tete con un giapponese in un ristorante privo di elettricità, ma con una seconda bottiglia di bianco fruttato e inimitabile? Non capita, e quindi cosa importa dei dettagli, tipo il conto da centotré euro a testa, questi – ahimé – che già ho pagato io. Si vive una volta sola, e una volta sola nella vita si congiungono gli astri e ti regalano quella combinazione in particolare: non è forse meglio gioirne, e lasciar stare le questioni terrene di denaro?

Segue anche il ritorno pedestre da San Germano ai Prati, completamente e totalmente ubriachi, evitando le macchine sfreccianti per grazia divina, o perché illuminati dal buon bacio degli dèi. Ci scappa persino il taiwanese che ci offre il caffé, ma rifiutiamo: e che diavolo, mica ci ubriacammo per niente. C’è indubbiamente fraternità nell’alcool, o meglio nella velocità del rendersi ebbri, tra il sottoscritto e i giapponesi; anche se quello che a fine cena versava il vino nell’acqua e l’acqua sul tavolo era lui, badate bene! Ma a ben vedere sotto quell’acqua c’era un bicchiere immaginario: quello della fratellanza inusitata.

Saluti, mentre emetto un dolce e sublime odor di soia! Viva le serate a caso, preordinate.

[tags]italia, francia, giappone, ristorante, soba, parigi, san germano ai prati, fratellanza, casi della vita, serate da ricordare, ubriachezza immodesta, cioè veramente ho pagato un conto da centotré euro e sto qui solo lievemente turbato?[/tags]

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giovedì 19 Giugno 2008, 12:26

Altro cemento

Ieri, girando per il quartiere, sono ripassato dopo anni in via Pacchiotti, davanti a un vecchio campo da calcio – niente più che un prato con due porte in mezzo alle case – dove andavo ogni tanto a giocare il sabato negli anni dell’università. E così ho scoperto che il campo non esiste più: nel frattempo, ci è spuntato sopra un cantiere per la costruzione di un enorme edificio rivestito in tonalità di grigio, lungo un centinaio di metri e alto tre piani, che però sembra semiabbandonato tra le lamiere che delimitano i lavori.

Il cartello, con l’immancabile logo “Torino on the move”, spiega che si tratta di una costruzione iniziata nel 2006 e con fine lavori nel febbraio 2008 (e qui già qualcosa non torna), per un costo di due milioni trecentomila euro e rotti; lo scopo è la realizzazione di una “palestra per la ginnastica artistica”.

Ora, sono sicuro che a Torino ci sia estremo bisogno di palestre per la ginnastica artistica; evidentemente queste palestre devono avere qualcosa di specifico per cui quelle normali non vanno bene, visto che il nuovo edificio è esattamente di fronte a una scuola media che dispone già della sua brava palestra agibile tutti i pomeriggi. In compenso, quello era l’unico prato verde (sterrato davanti alle porte) di un quartiere urbano che, per carità, è vicino a numerosi parchi, ma è comunque interamente costruito.

Sono quindi un po’ dubbioso sul senso logico, per un Comune che dichiara di essere in bolletta e di dover tagliare le manifestazioni culturali e persino l’assistenza sociale, di spendere oltre due milioni di euro per costruire una nuova palestra, in una zona piena di scuole anni ’70 con le relative palestre, oltre a due complessi comunali con piscina coperta e campi sportivi e tutta una serie di altre infrastrutture; viste le tante altre storie di cui abbiamo già parlato, dagli stadi all’Arena Rock, il nostro Comune dimostra sempre un inspiegabile desiderio di spargere cemento, che spero non vada spiegato con le relazioni amicali e financo parentali intercorrenti tra i leader politici locali e alcuni grandi aziende edili.

Stavolta, però, non è tanto questione di indignarsi, che il limite di indignazione l’abbiamo superato da tempo; è più che altro la sorpresa nel rendersi conto di come pezzi interi di città che tu hai vissuto per anni, e che tendi quindi a dare per scontati, possano sparire nel nulla da un momento all’altro.

[tags]torino, ginnastica artistica, palestre, edilizia, città[/tags]

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mercoledì 18 Giugno 2008, 09:52

Cicli e ricicli

Ieri pomeriggio sono andato in ufficio; una volta ci andavo tutti i giorni, poi ho cominciato a diversificare le mie attività e a lavorare da casa, e ora ci capito un paio di volte al mese. Causa piogge, era parecchio tempo che non ci andavo in bici; in questi giorni però ho deciso di ignorare il problema, e quindi ieri ero in giro per la città in bicicletta nonostante il rischio dell’acqua.

Sono arrivato in ufficio verso le 14, tutto bene; ho fatto la mia riunione; circa alle 17,30 ho reinforcato il mezzo per tornare indietro, proprio mentre iniziavano a cadere timide ma insistenti gocce di pioggia. Mi era già capitato un paio di anni fa di prendermi la pioggia su questo percorso; non era stato poi così male, ma preferivo non ripetere l’esperimento. Così ho preso le vie a tutta velocità, cercando di fare il percorso più diretto e rapido per arrivare a casa, anzi visualizzandomelo in anticipo per farlo sembrare più corto.

E’ stato solo quando sono arrivato su corso Cincinnato all’altezza di via Pianezza, praticamente alla Pellerina, che ho realizzato: sì, ma quale casa? Ecco, forte di anni di abitudine, avevo preso in automatico il percorso che portava alla casa vecchia, e che per la casa nuova costituisce un significativo allungamento.

E così, divertito sotto la pioggia dai cicli della vita, ho dovuto riparare; ma non tutto vien per nuocere, perché la situazione mi ha regalato un attraversamento diagonale della Pellerina, verde, bagnata e deserta a parte qualche residuo jogger e qualche cane, fino all’ardita struttura elicoidale che supera le pendici di corso Monte Grappa. Proprio in cima al primo GPM, il ponte ad arco sulla Dora, mi sono fermato un attimo: da lì, messere, si domina la valle.

Il fiume non è più al livello di guardia, ma è lo stesso enormemente alto, solo un metro sotto il bordo delle pareti di pietra, quasi a invadere il declivio dell’erba. Sotto il cielo grigio, in mezzo al verde lucido dei prati e a quello più scuro degli alberi, un enorme flusso forzato di acqua altrettanto grigia sforza lo stretto letto del fiume per arrivare a valle. Sembra effettivamente che debba prima o poi rompere le costrizioni, e strabordare per tutto lo spazio visibile, fino a sommergere le terre. Non succederà, ma è lo stesso uno spettacolo magnifico.

[tags]torino, pioggia, pellerina, dora, abitudini[/tags]

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lunedì 16 Giugno 2008, 11:47

I figli dell’Ecopass

Stamattina mi sono svegliato in montagna, in un clima scozzese: ero immerso nelle nuvole, e dalla finestra si vedevano solo il praticello bagnato e una specie di fluffone grigio che si sfilacciava sopra la staccionata, ma che nascondeva persino il piazzale sottostante. Cerco sempre di restare in montagna una notte in più, e di tornare giù il lunedì mattina; ci vuole poco più di un’ora, ma la sensazione è molto diversa.

Fa sempre impressione però trovarsi in un posto bellissimo, un insieme di piccoli condomini nel mezzo del nulla a milleseicento metri d’altezza, in cui io sono in sostanza l’unico torinese: il resto delle case, come ovunque in val d’Aosta, è posseduto all’80% dalle varie sottospecie lombardo-arricchite (il che spiega i prezzi medi dei negozi, simili a quelli di piazza Duomo).

Pertanto, non solo la maggior parte delle auto parcheggiate sono SUV e nessuna ha più di due anni di vita, ma esse sono utilizzate anche per percorrere i cento metri che separano la porta di casa dal bar, o le quattro curve che portano ai bidoni dell’immondizia.

A proposito, stamattina, quando sono andato a buttare la mia, dopo aver diligentemente buttato le bottiglie e la carta negli appositi contenitori ho aperto il bidone dell’indifferenziato; era vuoto, tranne un solingo foglio di istruzioni Ikea buttato singolarmente nel bidone. Ora, se tu hai in mano un pezzo di carta che vuoi buttare, e davanti a te ci sono un bidone verde per l’indifferenziato, uno arancione per il vetro, uno marrone per la plastica e uno giallo per la carta, mi spieghi come ti può venire in mente di buttarlo nell’indifferenziato? Posso ancora capire la devastante fatica di differenziare in casa, ma lì?

Alla fine sono fortunato: tendo ad andare in montagna in settimana, ricavandomi due giorni senza appuntamenti, quando devo scrivere o programmare qualcosa di complicato; in quei casi, sono completamente solo in mezzo alla montagna e non mi ritrovo in mezzo a questi comportamenti. Tuttavia, il motivo per cui così tanta gente senta l’esigenza di comprarsi una casa in mezzo alla natura e poi di usarla in questo modo onestamente mi sfugge.

[tags]val d’aosta, montagna, villeggianti, lombardi, arricchiti[/tags]

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venerdì 13 Giugno 2008, 14:16

Raptus cosciente

Sono una persona che ha imparato, con molta fatica, a non avere rimpianti, accettando il fatto che quando si compie una azione è perché in quel momento la si ritiene opportuna, e giudicare con il senno di poi non ha alcun senso. Sono anche una persona abituata a difendere con ogni mezzo le proprie opinioni, sin da quando lo si faceva per gioco su Usenet oltre dieci anni fa, arrivando ora a farlo anche su questioni serie.

Però oggi sono rimasto un po’ spiazzato, riesaminando a mente fredda una cosa che ho fatto settimane fa, che ha fatto arrabbiare varie persone, e che con il senno di poi non ha alcun senso. E non è solo questione di reazioni: anche riconsiderando la cosa solo per ciò che riguarda se stessi, saltano fuori solo lati negativi – in termini pratici, in termini etici, in termini interpersonali – e insomma, non riesco proprio a capire cosa avessi per la testa nel momento in cui l’ho fatta.

Sicuramente in quel momento doveva esistere qualche ragione per comportarsi così; anche solo le palle girate o una momentanea frustrazione di qualche tipo. Sicuramente non mi ero accorto delle pur ovvie interpretazioni che altri avrebbero dato a quello che stavo facendo. Ma anche così, è come se questa azione non mi appartenesse; se davvero (anche se so che non è così) fosse il frutto di dieci minuti di improvviso rapimento del mio corpo e del mio cervello da parte di qualcun altro.

Alla fine, uno si assume le proprie responsabilità; non difende l’indifendibile, ma si scusa per quanto possibile, e accetta le conseguenze. Resta però questa sensazione inquietante di come sia estremamente facile, nella vita, combinare guai anche pesanti in modo del tutto inconsapevole.

[tags]azioni, volontà, conseguenze, scuse[/tags]

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martedì 10 Giugno 2008, 15:43

Dove finisce la verità

Si discute giustamente, nei commenti al post dell’altro giorno, di come la stampa distorca spietatamente la realtà; i giornalisti non solo sono esseri umani, non solo sono sempre più spremuti e pagati per la quantità invece che per la qualità, ma per definizione devono parlare di cose che non conoscono; è ovvio che il risultato lasci spesso a desiderare.

Eppure, che dire di un altro fattore, ossia di come la realtà stessa sia difficile da definire? Oggi nella cronaca di Torino si trova un esempio perfetto: la stessa storia vista da tre punti diversi. Leggete prima il racconto principale, quello di un ragazzo di 19 anni che perde un occhio in un diverbio con un vecchietto, che, con precisione da ninja, gli pianta l’ombrello nell’occhio attraverso uno spiraglio nel finestrino dell’auto; quindi, a causa della sopravvenuta disabilità, il ragazzo viene prontamente licenziato. Poi leggete il racconto del datore di lavoro, che spiega come le cose stiano diversamente, e che un ragazzo cieco da un occhio, a guidare muletti in una officina meccanica, non possa far altro che danni a sé e agli altri operai. Infine potete leggere il racconto del vecchietto, un ottantenne che nemmeno ha ancora ben capito cosa sia successo, o come il classico rancore verso i giovinastri alla guida abbia potuto trasformarlo in un pregiudicato.

Quale di questi racconti è vero? Lo sono tutti e tre; montati insieme, costituiscono indubbiamente la verità, ma non aiutano affatto a chiarirla. Nessuno dei tre vorrebbe aver fatto quello che ha fatto, eppure nessuno dei tre ha veramente voluto fare del male, e nessuno dei tre può dirsi il vero responsabile dell’accaduto. Potremmo quindi concludere che si tratta in fin dei conti di una manifestazione del caos; o, se preferite, di una combinazione diabolica.

[tags]giornalismo, cronaca, torino, incidente, combinazioni, verità[/tags]

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sabato 31 Maggio 2008, 16:44

Dove vanno a morire i PC

Ci sono molti vantaggi nell’avere un’eccellente memoria: le interrogazioni del liceo e gli esami universitari vengono facili, si possono fare telefonate anche senza la rubrica del cellulare ed è possibile smascherare i vecchi politici corrotti quando si ripresentano come nuovi. Ciò nonostante, ci sono anche degli svantaggi; ad esempio, è sufficiente aprire un sacco di vecchie audiocassette, rimaste in fondo a un ripostiglio per decenni, perchè ad ognuna di esse si riassoci immediatamente un momento della propria infanzia o della propria adolescenza; e non sempre è una sensazione piacevole.

Comunque, i nuovi affittuari della mia vecchia mansarda hanno chiesto di liberare completamente ogni pertugio, e quindi ho dovuto fare un supplemento di trasloco. Sono saltate fuori anche alcune chicche, come un articolo di Repubblica in cui rilascio dichiarazioni sull’istituzione di questionari di valutazione della didattica al Politecnico, oppure i numeri della rivista Creative su cui avevo scritto oltre dieci anni fa, oppure i test con cui vari dei lettori di questo blog hanno vinto una borsa di studio per cazzeggiare al Poli@casa; e anche alcune audiocassette che probabilmente contengono le canzoni che da dieci anni prometto di mettere sul Web senza mai farlo (peccato che ora non abbia più un lettore di cassette in casa). Tuttavia, ho dovuto prendere decisioni drastiche.

E così, alla fine ho buttato via la maggior parte delle videocassette (ovviamente alcune non le avevo mai guardate); ho buttato via anche interi sacchi di verbali del Consiglio di Amministrazione del Politecnico, in cui ho militato per un paio d’anni a metà anni ’90. E’ interessante notare come siano cambiate queste cose in solo una decina d’anni: allora, ogni volta che c’era una riunione io ricevevo una comunicazione cartacea, a cui era allegato un primo plico di documenti. In riunione, poi, al posto di ognuno ci accoglieva una pila di carta alta mediamente qualche decina di centimetri; circa 2000 pagine per le riunioni semplici, di più per quelle complesse. Infatti, un CdA di una azienda da 200 miliardi (dell’epoca) di bilancio deve approvare parecchie cose; ogni singolo documento, anche se già premasticato dallo staff o da una commissione, deve comunque essere messo a disposizione di ogni consigliere. Naturalmente, essendo ingegneri, eravamo organizzatissimi, e così i documenti erano stampati su carta di colore diverso a seconda della riunione e/o dell’argomento; ciò nonostante, in due anni io avevo riempito due cassoni di verbali, che mi sono portato dietro fino a oggi, quando ho deciso che eventuali reati erano passati nel dimenticatoio e magari anche in prescrizione, e insomma potevo buttarli.

In più, mercoledì, sotto una pioggia torrenziale, ero già andato all’Ecocentro di via Arbe a smaltire i vecchi PC. C’è stato un periodo a cavallo del millennio in cui i PC avevano l’affidabilità di una Trabant, e avrò cambiato più schede madre io che partner Rocco Siffredi; anzi, il peggio erano gli hard disk, ne avevo sette o otto tutti fusi o comunque inutilizzabili. Se volete sapere che fine fanno computer, televisori e altri apparecchi elettronici quando finalmente ci si decide a buttarli, eccovi accontentati: quello in primo piano è il mio vecchio PS/2.

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[tags]pc, ecocentro, rifiuti, memoria[/tags]

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sabato 24 Maggio 2008, 12:26

Perfidia

Non c’è niente di più perfido di un bambino. Anzi sì: un vecchio. Ora in versione avanzata, con tanto di sensori acustici e telecamere a circuito chiuso!

[tags]immigrazione, schiavitù, anziani, perfidia[/tags]

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