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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


venerdì 6 Ottobre 2023, 23:30

La notte ha due facce

Non vorrei mettermi a scrivere davvero, perché queste giornate sono splendide ma massacranti, con un ritmo adeguato alla società giapponese. Oggi, per dire, ho guidato per quasi sei ore, tre al mattino e tre alla sera.

La prima metà era poco prevista e un po’ improvvisata: invece di prendere la statale comunque tortuosa che porta da Iya alla valle e poi all’autostrada per Kochi, ho preso la strada del passo Kyobashira, una specie di mulattiera che ogni tanto, incredibile per qui, aveva persino dei tratti con le buche.

In pratica, abbiamo percorso trentacinque chilometri in un mondo magico, fatto soltanto di boschi e di montagne – e di cantieri, perché comunque qui anche sulle strade più sperdute rifanno continuamente ponti e carreggiate – però a 20-25 orari massimo, perché la strada è a una sola corsia, con qualche raro punto di incrocio, ed è larga poco più di una macchina, ed è senza guard rail, perché questa è una società selettiva e se sbagli muori e va bene così.

Sulla discesa poi abbiamo incrociato i primi borghi agricoli di mezza montagna, e siamo rimasti fermi in attesa di un cantiere, e poi in coda dietro camion e camioncini vari, e anche se loro accostano appena possibile quando vedono dietro un veicolo più veloce, ci abbiamo messo tutta la mattina per arrivare a Kochi; e ci siamo fermati solo a metà foresta, per ripiantare il fiore che ci ha regalato il padrone di casa e non lasciarlo morire così, e al passo, 1100 metri di altezza, per fotografare la fila infinita di montagne rotonde che si perdono nella nebbia, e il cartello “attenti agli orsi”.

Dalle cinque alle otto, dopo le visite in città, altre tre ore o quasi: da Kochi a Matsuyama non per l’autostrada, perché in autostrada stanco così mi addormento e mi ammazzo, ma per la ben più breve ma più tortuosa statale 33. La prima ora è stata terribile, avremo fatto sì e no trenta chilometri in mezzo al traffico della periferia: perché qui ogni angolo piano è coperto di case, e fuori dalle autostrade si viaggia tutti a velocità inconcepibilmente lente (pure in autostrada, eh: il limite spesso è di 80, ma nei tratti più pericolosi diventa 50) anche se poi tutti sforano abbastanza, e vorrei vedere. Però, fin che sei in zona abitata sei incolonnato nel traffico, dietro a dozzine di kei car dalla targa gialla con il motore di un Ape Piaggio e il nonnino alla guida, e le strade sono tutte irreggimentate, con corsie separate per qualunque cosa, semafori infiniti per dare tempo a tutti, e ovviamente nessun parcheggio, che qui in strada non si può parcheggiare.

A un certo punto, però, di botto finiscono le case e si entra tra i monti e si passa dal giorno alla notte (anche perché è tramontato). Improvvisamente non c’è più nessuno, e si corre a velocità folli, 60, 70, talvolta (nelle gallerie della statale) anche 80, pazzesco. Nel buio si intravvede una diga e poi un immenso lago artificiale, e si segue la valle fino a scollinare, attraversando paesini sempre più spopolati, al punto che puoi fare una sosta pipì davanti a un gruppetto di case, tanto sono tutte abbandonate con l’erba sopra le finestre. Si corre e infine si sbuca verso la piana di Matsuyama, dall’altro lato dell’isola, dalla costa oceanica a quella interna, e dall’alto dei tornanti si vedono le luci della pianura di nuovo piena di case fino all’orlo, e infine si arriva in una città piuttosto grande, con un affollato quartiere di night club e tutte le scene tipiche, tipo il quarantenne impiegato in vestito nero e camicia bianca in giro con la ventenne scosciata coi tacchi alti, combinati chissà come e a che prezzo.

Tutto questo è per dire che il Giappone è una moneta con due facce, e gli occidentali in genere ne conoscono soltanto una: quella superiore, quella delle città luminose e tecnologiche, delle strade impossibilmente affollate, dei microappartamenti pigiati. Dall’altro lato, però, c’è il resto: come e più dell’Italia fatto di mari e di monti, di zone abitate da pochi umani, molti animali e moltissimi misteri, perché rimaste arcaiche e ben più selvagge delle nostre. In mezzo, c’è un buco rotondo che le collega e le risucchia, e fa passare l’aria e gli spiriti dall’una all’altra.

Ed è così che immerso nel bagno bollente delle dieci e mezza, al tredicesimo piano del mio albergo, la testa all’aria aperta e il corpo sotto l’acqua, fissavo il pezzo di cielo che dava su di me e pensavo che ci sarebbe ancora molto da dire, ma ora ho veramente sonno; buona notte.

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mercoledì 6 Settembre 2023, 17:01

Una serata altrove

Insomma, finisco di lavorare e sono le sette e mezza di sera, che è come dire le nove, e qui l’ora di cena è agli sgoccioli; e non ho tanta fame ma qualcosa mangerei, certo però non il cibo dell’albergo. Così, dopo rapida ricognizione, esco a valutare un paio di posti qui in giro, nel villaggetto di case basse che sta dall’altra parte dello stradone, quella verso l’interno, quella opposta a questa fila infinita di albergoni da spiaggia di tutte le catene del mondo, nessuna esclusa.

Attraverso la strada – è la parte più pericolosa – e seguo il marciapiede, e poi mi infilo in un vicolo sul retro e finisco nell’altra via, una ex stradina di campagna circondata da case basse in cui la gente sopra abita e sotto fa cose, anche se la popolazione principale è dei motorini. E anche guardando non capisci cosa facciano, però la zona è turistica, quindi la metà sono bar e posti da cibo, ma sono tutti deserti.

Alla fine arrivo a quello che mi interessava, ed è deserto; l’ora è tarda, è buio, e non è stagione, e insomma non c’è nessuno tranne loro, la famiglia. Qui tutto è a conduzione familiare, quindi lo è anche questo caffè ristorante, con un menu stampato bene in tre lingue, vietnamita inglese e coreano. Sono una mezza dozzina o più, di cui la mamma è il capo, e un ragazzo ventenne che parla l’inglese molto bene, e una sorella più giovane, e poi qualche parente, e un’infilata di bambini imprecisati. Sono seduti in strada attorno a un tavolo di plastica, e chiacchierano per far passare la serata, come si faceva d’estate anche da noi una volta.

Così, il ragazzo mi fa sedere nel salone che dà sul fuori, ed è deserto; c’è anche un certo tentativo di arredamento, che gli stranieri se no si spaventano, e c’è un bancone da bar, con sopra improbabili ma vere bottiglie di Jack Daniel’s e sciroppi Monin, e pile di calici con sopra la polvere di almeno un paio di generazioni. Il ragazzo mi porge il menu, poi prende due ventilatori grossi come un frigorifero, e me li spara addosso dai due lati, schiacciandomi nella tormenta come un panino.

Io guardo il menu, questo è un caffè, ci sono pochi piatti ma saranno buoni, e prendo un mi quang, che è tipo il pho ma con meno brodo e tiepido, adatto all’estate. Gli chiedo se devo prendere altro, ma mi dice che una cosa basta, che qui le porzioni sono grandi (è così ovunque). Prendo anche una birra, ovviamente la birra vietnamita originale, la Larue, che però ha praticamente lo stesso logo della Tiger, la birra singaporthai che qui passa per un nettare; e gli dico due parole, che vengo dall’Italia, che vado via tra poco.

Così aspetto la mia ciotola, e giochicchio col cellulare, e arriva un bambino: avrà cinque o sei anni. Mi si ferma a fianco e mi fissa, e insomma non è che non siano mai passati occidentali da qui, ma dev’essere comunque uno stupore; e io guardo lui, e quegli occhi asiatici che a noi sembrano sempre strabici, e quello stupore che non sappiamo più di avere dentro. Non c’è gran modo di comunicare, e poi lui va via subito, e arriva il mio piatto.

Ovviamente è ottimo, come tutto il cibo qui, e ha questi spaghetti bianchi e piatti che si gonfiano nel brodo, e delle fettine di manzo, e di contorno un’insalata e la salsa di pesce fortissima che qui si mette su tutto. Me lo mangio tranquillo, anche se il bambino riappare, ma poi si mette a giocare con un’altra bambina, e corrono di qua e di là per la sala e giustamente nessuno ci fa caso, perché questa in fondo è casa loro, e so che dietro c’è la cucina e sopra le camere e la loro vita intera scorre qui, in una strada di periferia di Da Nang, sotto la montagna dell’acqua e dietro uno stradone di turisti che corrono anche loro, ma senza sapere bene dove andare.

I bambini invece vanno avanti e indietro, e alla fine spalancano le porte di legno lucido che danno sul retro, e io mi giro pensando di vedere la cucina, ma in realtà vedo la nonna, cioè, il butsudan della nonna, con una fotografia in bianco e nero di una vecchina vecchissima che non c’è più da tempo e una candela tra le offerte di cibo, e un pugno di riso per non dimenticare. Ma è un frammento di vita altrui che si apre, ed è un bel vedere, certo a chef Barbieri non piacerebbe, e sulla nonna metterebbe un topper, ma siamo qui per fare cena e ringraziare, e per una sera saper di vita vera; e brucerei senz’altro il cellulare, e le recensioni su Google dei locali, e tutti gli aspiranti Masterchef in ogni pizzeria d’Italia, per poter andare fuori anche da noi com’era prima, semplicemente da qualcuno che ti offre le cose di casa perché tu possa essere sazio, e continuare contento la tua vita.

Alla fine prendo il conto, che fa centotremila, e arrotondo a centoventi; sono comunque cinque euro scarsi. Saluto, e non ci rivedremo, però grazie; grazie anche al karaoke cinese stonato della casa poco più avanti, e alla gente su un patio aperto che guarda la televisione, e al buio appena illuminato dei lampioni, in un posto in cui fa caldo, sempre.

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sabato 2 Settembre 2023, 13:33

Un vero Vietnam

E insomma, se non mi è venuto un collasso oggi… Era una giornata libera e volevo andare a vedere le parti più lontane di Da Nang, così ho preso un Grab fino alla gigantesca statua della Buddha femmina sulla collina sul mare (Grab è l’Uber del sud-est asiatico e funziona benissimo, in un paese quasi privo di trasporti pubblici come questo non ha alternative).

Sulla strada, però, ho visto un grosso tempio di Buddha, la spiaggia, il porto galleggiante dei pescatori e un sacco di panorami, e così ho guardato la mappa, ho visto che erano quattro chilometri in discesa e salutata la statua mi son detto: andiamo a vederli facendo una passeggiata, così risparmio anche sul ritorno. Solo che invece di partire dall’albergo alle otto ero partito alle undici, e il cielo era coperto, quindi non avevo nemmeno preso l’ombrello; e quando ho iniziato la passeggiata era l’una e mezza e non c’era più una nuvola, c’erano 35 gradi, umidità al 200 per cento e sole a picco.

Mi sono ritrovato così su una statalona a curve a mezza costa sul mare che, avevo visto, non aveva marciapiede ma aveva un’ampia corsia-banchina tracciata sul lato; ho capito solo dopo che per loro è una corsia riservata per le centinaia di motorini e moto che viaggiano ovunque e comunque con 2-3-4 persone sopra, Napoli style. Quindi ho fatto delle belle foto ai panorami ma ho rischiato la vita a ogni curva cieca, e quando sono finalmente arrivato all’inizio della città e del marciapiede ho ringraziato qualunque santo preghino qui, ma ero già sciolto.

E sì, è vero che persino in mezzo al nulla, ogni qualche centinaio di metri, c’è un tizio steso sotto una palma che vende bibite: in queste condizioni, dev’essere una specie di presidio sanitario pubblico. Però, avrei dovuto spendere quei 20-30 centesimi di euro, solo per la mia debolezza nel soffrire il caldo, e quindi non me lo sono permesso. Ho invece tirato avanti con una marcia automotivata di tipo militare e ho avuto successo, però ho capito molte cose, e anzi ora mi sorprende che gli americani abbiano resistito per un decennio.

Comunque, alla fine sono arrivato alla passeggiata sul mare, e sedendomi ogni tanto (quando mi girava troppo la testa) ho fatto le foto alla spiaggia e ai navigli dei pescatori (tantissimi, sembrava un’isola greca tipo Fistfakòs) e infine sono arrivato lì, al tempio di Buddha (qui son tutti templi di Buddha, a parte la cattedrale francese). Come vedete, ero abbastanza cotto e accecato dal sole da non riuscire nemmeno a fare la foto dritta; poi sono entrato e il testo non l’ho visto, perché era totalmente deserto (chi cacchio va al tempio alle due del pomeriggio col sole a picco?) ma guardato da un cane randagio.

Ora, chi mi conosce meglio sa che intimamente ho un’identità di volpe, e notoriamente tra volpi e cani è come tra italiani e francesi, si è parenti ma non ci si sopporta. Infatti il cane si è messo a ringhiare, e siccome la rete è piena di storie di turisti che a Da Nang sono stati morsi da cani randagi, io mi sono limitato al cortile, che tanto era pieno di draghi (qui adorano i draghi ancora più che in Cina).

Me lo son visto per bene, poi ho chiamato il Grab per ritornare. Ho rischiato la vita in molti modi, ma effettivamente ho risparmiato: quattro euro invece di sei euro e cinquanta.

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sabato 17 Giugno 2023, 09:41

L’invasione

Dunque l’avevo già capito sul volo, che c’era qualcosa di strano: da Washington Dulles a Francoforte su un’inguardabile carretta Lufthansa, un 747-8 con le ginocchia nei denti che neanche Ryanair, i piedi a zigo zago tra sostegni dei sedili e scatole dell’entertainment, il touchscreen che non funziona e soprattutto una marea di bambini di ogni età, di cui quattro – quattro! – sotto l’anno, a darsi i turni a rompere le orecchie. Già dopo un’ora dal decollo, lo steward si è scusato in questo modo: “a causa dell’elevato numero di ragazzini, abbiamo finito la Sprite”.

La situazione è degenerata del tutto a dieci minuti dall’atterraggio: nonostante l’obbligo di stare seduti con le cinture allacciate, vedo passare accanto a me nel corridoio un ragazzone americano di quelli pompatissimi, con magliettina tecnica, culo scolpito e bicipiti da sollevatore di pesi. Il volo era tranquillissimo, eppure lui fa altri tre passi in avanti, si gira verso un lato e buargh, vomita anche l’anima come neanche i bambini di cui sopra. Il passeggero a fianco, anche lui americano, interviene prontamente: si alza, lo abbranca e cerca di scaraventarlo via al grido di “can you just go somewhere else”.

Bene, come dicevo, avrei dovuto capire, e invece no. Arrivo a Francoforte, faccio tutto il corridoio degli Z, e al fondo trovo una nuova freccia: B a sinistra, A a destra. È strano, perché subito a sinistra c’è il controllo passaporti che porta proprio nel cuore degli A; ma io sono un cittadino onesto e devo andare alla lounge degli A, quindi seguo la freccia. Mi fanno fare tutto l’altro corridoio degli Z, e in fondo comincio a vedere una strana folla. Alla fine del corridoio, scopro un nuovo controllo passaporti con quattro sportelli in tutto, e nessuna porta automatica, e una coda di gente per almeno un’ora, tutti col loro passaporto blu; non se ne vede la fine.

Penso che ok, mi son fatto fregare, ma vale la pena di tornare indietro. Ripercorro tutto il corridoio e arrivo alla scala mobile in discesa verso il vecchio controllo passaporti: trovo l’ingresso sbarrato col nastro e una signora che manda via la gente verso il nuovo passaggio, anche se sotto c’è comunque gente in fila. Faccio il finto tonto: vado a Torino, B13, per B dice di qui. La signora mi guarda male, poi però nota una cosa: in mano ho il passaporto, ed è bordeaux. Amico! Mi apre il nastro e mi dice testualmente: “you are lucky, European passport”.

Sotto, stessa scena: ondate di americani in fila, disperati per la connessione da prendere; io mi metto in fondo alla lunga coda, ma noto più avanti il cartello “passaporti europei” verso un passaggio vuoto. Esibisco il passaporto bordeaux, mi aprono il nastro e mi fanno passare accanto a tutta la fila, fino alle mie solite e adorate porte automatiche per passaporti bordeaux, completamente deserte; e in un minuto sono di là.

È che in sostanza, su un volo di trecento persone, ero l’unico europeo o quasi. Non so se Lufthansa abbia deciso di regalare biglietti a tutta l’America, ma il volo era pieno a tappo, e ce n’erano altri, e qui adesso c’è una marea di americani in vacanza che vagola per l’aeroporto cercando di capire dove andare e chiedendo a tutti, perché gli americani sono abituati a fermare l’addetto di turno e a chiedere, non a seguire i cartelli in silenzio.

Ora sono nella lounge, e anche qui sono tutti americani: li riconosci perché abbrancano le inservienti tedesco-magrebine e pretendono che gli venga immediatamente approntato un tavolo per fare colazione, chiedendolo in americano stretto a una signora immigrata che a malapena capisce il tedesco. Li riconosci perché è ora di colazione e hanno una sola parola in testa, “cappuccino” (qualcuno anche “latte” o “venti”, sono quelli degli Starbucks), e però si fanno il cappuccino e poi ci mettono non uno, non due, ma quattro cubetti di ghiaccio, giuro l’ho appena visto fare or ora a una signora, mentre il marito chiedeva dove fosse la bottiglia del Jack Daniel’s.

E così, mi mangio uova e salsicce su un tavolino e resisto all’invasione, però, ragazzi, prepariamoci: da qui a settembre, in ogni angolo di ogni città e di ogni paese italiano, ci sarà la folla dei nuovi vacanzieri; una sostituzione etnica del tempo libero da Roma a Venezia. È il mondo del post-lavoro, e porta soldi; e questo mette a sedere qualunque discussione.

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giovedì 8 Dicembre 2022, 13:57

Nippominchia e Giappone reale

Parliamo di Giappone? Condivido questa foto per farvi un piccolo discorso.

La foto viene dal post su Facebook di uno dei tanti italiani che vivono in Giappone o lavorano col Giappone da anni, e che quasi sempre si incazzano per il modo in cui da noi si parla di quella realtà. Perché? Perché l’Italia è piena di “nippominchia”, ossia di persone che conoscono il Giappone solo per aver letto i manga e guardato gli anime, o perché vanno a mangiare il sushi tutte le settimane (dai cinesi), senza esserci mai stati; tra queste ci sono anche molti giornalisti, e quindi è tale anche la descrizione che ne esce generalmente sui media. Si tratta di persone che adorano il Giappone acriticamente, che lo vedono come una terra promessa dove tutto è pulito, sicuro, efficiente e beneducato, dove le persone si vogliono bene e collaborano tutte insieme e dove si vive in pace e in armonia con la natura secondo tradizioni spirituali millenarie.

La realtà, naturalmente, non è proprio così. Vivere in Giappone da giapponesi è, per i nostri standard di dolce vita, terrificante. Già da ragazzo, la scuola ti impegna dal mattino al tardo pomeriggio, e la sera fai i compiti; quando lavori, facilmente finisci a essere un ingranaggio di un’azienda medio-grande e a uscire dall’ufficio a sera inoltrata, non di rado anche nel fine settimana. La cultura collettivista non ha soltanto vantaggi; l’individualità, la creatività non trovano posto, perché conformarsi è la norma e “il chiodo che sporge va preso a martellate”.

Esprimere e realizzare se stessi è difficile, e non parliamo di sentimenti: il Giappone è uno dei Paesi in cui l’età del primo bacio o del primo rapporto è più alta, spesso ben oltre la maggiore età; e i tassi di suicidio sono oltre il triplo dell’Italia. In più, viverci da italiani è anche peggio; nel momento in cui non sei più turista ma residente, ci si aspetta che tu ti conformi esattamente a tutte le loro usanze, linguistiche, burocratiche e comportamentali; altrimenti sarai sempre trattato come un diverso, se non proprio con razzismo.

Per questo, la sola parola “manga” è sufficiente a fare incazzare quasi tutti gli italiani in Giappone. Non solo: fa incazzare anche molti giapponesi che si sentono stereotipati, e a cui dà fastidio, girando all’estero, essere visti come gli abitanti di una terra popolata esclusivamente da onde energetiche, samurai, spiriti e arti marziali, esattamente come a noi dà fastidio sentirci dire “sole pasta pizza mafia”; e che sanno che il mondo fantastico dei manga ha un lato oscuro e inquietante, quello di essere la valvola mentale di sfogo per una realtà spesso pesante e insopportabile.

Sempre per questo, anche le immagini condivise ossessivamente sui social dello spogliatoio pulito della nazionale giapponese hanno indispettito molti; come Antonio, l’autore del post, che risponde con la foto di uno dei tanti impiegati che escono tardi dall’ufficio, vanno a ubriacarsi coi colleghi (una delle poche forme di socialità previste) e poi svengono e passano la notte distesi sul pavimento della metropolitana.

Si tratta di stereotipi, nell’uno e nell’altro senso; come tutti i luoghi comuni, hanno la realtà dentro ma non dobbiamo restarne prigionieri. Il Giappone è assolutamente un posto da visitare, e ha una cultura che oggi è senz’altro più interessante e più in linea coi tempi di quella anglosassone. Bisogna soltanto evitare di confondere la realtà con la fantasia; bisogna distinguere sempre tra il Giappone magico e fantastico proposto dalla sua industria mediatica e tecnologica e il Giappone reale, che è, come è la vita, molto più complesso e pieno di chiaroscuri.

Una volta capito quello, godiamoci pure i manga, e i video musicali cantati da ologrammi, e il sushi anche a colazione se volete; ma con consapevolezza.

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domenica 27 Novembre 2022, 13:56

Bergamo herpes

Suvvia, sappiamo tutti che l’aeroporto di Bergamo è il fondo del barile del trasporto aereo, e probabilmente anche del genere umano. Non c’è dunque stupore in questo piccolo racconto, ma solo rassegnazione e morte esteriore, alleviata dalla capacità di isolarsi dal mondo e ripetersi all’infinito le prime otto battute della passacaglia di Bach che mi gira da giorni nel cervello. Alla fine, comunque, quest’imbarco – a cui sono stato costretto dalla sostanziale inutilità dell’aeroporto di Turin-Mailboxes – è anche uno spettacolo interessante; ci sarebbe materiale per scrivere dei libri, se non fosse che ne verrebbero libri divertenti sì, ma sotto sotto disperanti. Ogni passo è uno spettacolo di spaesata incompetenza a vivere; avrei già dovuto capirlo dalla porta sul marciapiede sbarrata con la scritta “ACCESS DENIED”, manco l’aeroporto fosse un sito web.

La coda per consegnare il bagaglio in stiva è meravigliosa; non è lunga, ma è comunque troppo complicata per coppie e gruppetti d’età tra i trenta e i cinquanta, che invariabilmente sventolano la busta di un’agenzia di viaggi di Vergate sul Membro, davanti alla moschea di Sucate. Ora, io non sapevo nemmeno che le agenzie di viaggi esistessero ancora; non ne uso una da vent’anni, e se ne capisco il senso per un gruppo organizzato o per un’azienda che non vuole gestirsi i viaggi da sola, non capisco perché qualcuno possa andare da un’agenzia di viaggi a farsi comprare il volo Ryanair per [non indicherò la città, che poi mi danno del razzista; diciamo Reykjavik]. Infatti, son quelli che si mettono in coda senza essersi prima stampati l’etichetta del bagaglio; e poi arrivano lì, e invariabilmente, due volte su tre, non hanno comprato il bagaglio in stiva, o ne hanno comprato uno troppo piccolo; dieci chili, ma loro ne hanno quindici. Il meglio è stata una signora elegante che prima si è arrabbiata (“sono solo cinque chili in più”), poi ha aperto la valigia e per lo sbalordimento dell’addetta ne ha estratto il portatile, che avendo una batteria al litio è vietatissimo in stiva; poi ha interrotto la coda per pesare il portatile sul nastro del bagaglio, un chilo e due; poi ha detto “questo me lo porto a mano, il resto va bene”. Erano solo più quattordici chili, del resto; e l’hanno giustamente respinta a calci nel sedere. Ma mi è successo persino di vedere poi ai controlli di sicurezza una coppia di signore velate rimandate indietro; si erano presentate lì direttamente con valigioni immensi, ignorando il concetto di bagaglio in stiva.

Ma poi, passati i controlli, si arriva ai gate con vista sulle montagne; e lì la gente è la stessa, ma lo scenario cambia. Lì, c’è da spendere; quindi è tutto luccicoso, e la gente risponde allo stimolo e esegue, aprendo lo struscio avanti e indietro. Coppie sui trenta, talvolta con passeggino al seguito, osservano un’infilata di bar pretenziosi tutti peraltro della stessa grande holding alimentare, ma agghindati con loghi e colori per sembrare diversi. Tutto è gourmet: panini gourmet, pizzette gourmet, persino “Serge, il cannoncino gourmet riempito al momento”, una roba tanto assurda che la manderei in Ucraina. Tutto è anche biecamente pensato per fregarti, come la bottiglietta da mezzo litro di Coca Cola che in realtà è da 450 ml, come vedete in foto. Poi la gente s’avvicina, e visti i prezzi ordina solo una rustichella e un bicchier d’acqua, e li paga con le monetine, come nell’Ottocento. Ma è giusto così: Bergamo herpes è l’apoteosi del neoproletariato tecno-soggiogato, ebete a guardare il cellulare tranne brevi pause per riprodursi a danno del pianeta, ma che darebbe un braccio per la nuova mutanda di Intimissimi.

Fa bene, fa bene girare il mondo; chiarisce le idee. Chiarisce che il mondo è sovrappopolato, ma selettivamente; e collegando tutte le discussioni sul reddito universale e sulla gente non impiegabile, mostra che si tratta di un trend sì, ma di un trend che svilisce l’umanità. Non tutti, certo, ma una parte di questi qui attorno un reddito e un lavoro ce l’hanno, ma residuali; precari ed eliminabili con successo a favore del più stupido sistema automatico, che probabilmente gli sarebbe anche artisticamente, esteticamente e moralmente superiore. Quindi, non proporrò soluzioni finali; non sarebbe empatico e la Chiesa s’adonterebbe. Eppure, m’è chiaro ormai che più che reddito di cittadinanza, andrebbe chiamato reddito di inutilità; senza alcun giudizio morale allegato, s’intende, ma solo per oggettiva osservazione della realtà delle cose. È brutto a dirsi, ma ci sono persone che non sono in grado di vivere nel 2022, e non sappiamo che farne, e sono tante; e gli unici che se ne fanno qualcosa sono quelli che gli danno due lire per renderli schiavi, e poi se ne riprendono tre facendogliele spendere in minchiate, e indebitandoli a vita.

Ma ora, perdonate l’eresia; sono sicuro che pochi capiranno, e gli altri risponderanno a insulti. Io, comunque, vi auguro buona domenica; sperando d’essere almeno in grado di salire su un volo Ryanair con successo.

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martedì 4 Ottobre 2022, 13:29

È stato un viaggio lungo

È notte, sono a Doha, in un brutto aeroporto pieno di gente, nella grande ondata di incrocio tra arrivi e partenze. Aspetto di riprendere il viaggio per tornare a casa, almeno per qualche giorno, poi si riparte.

È stato un viaggio lungo, complicato, di cui ho raccontato poco, perché alla fine si parla solo di cibo e curiosità, e le cose più intime o più serie vanno altrove, in un posto meno caciarone e meno invidioso, probabilmente solo perché semivuoto, e nel vuoto o quasi cadono, così che possa sentirne per bene l’eco in me stesso. Eppure mancano ancora due ore al ripartire, e avrei da scrivere, da rileggere, da leggere, da fare, ma nel non luogo e non tempo per eccellenza, una notte di poltrone d’aeroporto in un posto tappa da qualche parte sul mappamondo, si diventa anche non persone; emerge il non essere sull’essere, fino a togliere la voglia di qualunque cosa.

È stato un viaggio lungo, che in fondo dura dal secondo giorno di quest’anno, e non accenna più a finire, né ad andare da alcuna parte; è anche questo, come molte cose di quest’anno, un drago che vola e s’attorciglia e torna avanti e indietro puntando la mia testa, e non si capisce se mi vuole infine prendere in groppa e farmi volare almeno un tanto e un po’, o se mi vuole soltanto bruciare i capelli e qualcosa del resto.

È stato un viaggio lungo e ancora lo sarà, perché in fondo lo so: domani, dopodomani, tra una settimana, tra un mese, tra un anno, prima o poi arriverò a casa, ma come già altre volte in passato potrebbe non essere più una casa che conosco. È la trasformazione dell’identità e della coscienza che ci ricrea la vita, attraverso lo specchio del sé e in quest’era tecnologica anche attraverso lo specchio della rete, delle immagini, dell’ovunque e del tutto è possibile che lampeggia sotto il nostro naso se lo si guarda, anche se i più si guardano i piedi e fanno bene, per non perdere mai l’equilibrio: perché guardandosi intorno si scoprono mille opportunità alternative che si potrebbero vivere, ma provare ad afferrarne anche solo una è la strada per sbattere contro il muro invisibile del proprio umano limite, senza alcuna certezza di poterlo varcare.

E quindi, buona serata e buona notte: ci rivedremo domani in Italia, nella brughiera, nella città di sempre, nel solito allegro pantano di luce e di buio, ma come sempre, ogni giorno e ogni minuto, un po’ diversi da prima, un po’ più inquieti, un po’ più consunti e un po’ più stanchi delle stelle.

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domenica 31 Luglio 2022, 18:44

Italia è

Ieri a Filadelfia, nella pausa pranzo della conferenza, ho cercato di visitare il piccolo museo dedicato a Mario Lanza, tenore americano di South Philly figlio di italiani, che ebbe un successo pazzesco nel cinema americano e italiano degli anni ’50 e poi morì giovane a Roma prima di poter intraprendere una vera carriera lirica. E’ gestito da volontari e aperto solo il sabato dalle 13 alle 16; e io alle 13 ero lì, ma non si è presentato nessuno.

Dopo un quarto d’ora di attesa, finalmente arriva qualcuno: è un signore anziano con una camicia scura. “Did anyone show up yet?”, mi chiede, e io rispondo di no; mi spiega che il tizio deve arrivare fin da New York City. Così ci fermiamo un po’, e mi chiede se sono del quartiere; ovviamente no. “Where are you from?”, mi chiede, e io rispondo “Italy”.

Lì, improvvisamente tutto cambia, a partire dalla lingua. “Di chei partei di Itaulia?”, mi chiede lui. “Torino”, dico io. “Ah!”, dice lui, “Mio padrei di Asti”. Poi ci pensa un attimo, e aggiunge: “Non propriou di Asti, di paesino vicino, si chiama Toncou, you know?” Così gli spiego che abbiamo casa a dieci chilometri da lì. Lui mi spiega che è il nuovo parroco della chiesa di fronte, da una settimana, e che era venuto per prendere contatto: pare che Mario Lanza cantasse regolarmente l’Ave Maria nella sua chiesa.

Alla fine ci salutiamo; lui deve tornare in chiesa e io devo tornare alla conferenza. Non ho visto il museo, ma ho capito una cosa; che l’Italia è davvero qualcosa di molto più grande di ciò che pensiamo noi italiani.

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venerdì 24 Giugno 2022, 22:48

Flusso d’agnello

Ho scoperto l’anno scorso la trattoria Bukaleta di Losnati, il tempio dell’agnello di Cherso, e come risultato quest’anno l’unica isola che visitiamo è Cherso, e io ho preso alloggio esattamente nella casa a fianco del ristorante, affinché io possa bearmi del profumo di agnellini in cottura sin dalle nove di mattina. Amo gli animali come Pacciani amava i giovani, nel modo cioè, da ogni punto di vista, più umano e assassino possibile; tranne i gattini, ovviamente, che per qualche motivo la nostra società considera animali non sacrificabili, a differenza degli agnelli. Ma a parte le questioni di scienza e coscienza, il fatto è che stasera è san Giovanni, che è il patrono anche di questo villaggio; e il ristorante era particolarmente pieno. E’ un ristorante villico, in mezzo alla campagna; uno di quei posti pieni di tavolate sotto il portico, circondati dal nulla, dal vento, dal buio e da un cimitero pieno di nonni di emigrati, che combatte l’oscurità che l’assedia con la carnazza e la musica; e che alla fine, quando paghi il conto, t’offre di cuore il diciotto isolabella. Non tutti capiscono un luogo del genere, e ho assistito così alla trita e tragicomica scena della sciura italiana in ciabatte che si presenta al ristorante alle otto e venti vantando una prenotazione per le otto e trenta, e all’obiezione del ristoratore che dovrà attendere il tavolo per dieci minuti risponde aggressivamente con la frase magica “MA IO HO I BAMBINI”. C’è uno strato di società convinto che avere dei figli rappresenti un titolo di precedenza, specialmente nell’accesso ai luoghi pubblici; ciò indipendentemente dal fatto che la suddetta frase venga solitamente accolta con sane pernacchie. Alla fine, l’uso o non uso del pratico goldone è una scelta personale; va detto però che, in tempi di carestia, cavallette e prossima apocalisse, quella di appesantire il mondo con ulteriori bocche da sfamare pare un tantino irresponsabile, anche se capisco che, come diceva mio nonno, i figli sono come le scorregge, vanno bene solo se sono tuoi. Ma dove vuole finire questo flusso di coscienza? Mah, non lo so: non sappiamo dove finisce l’universo né dove finisce il declino del Movimento 5 Stelle, vogliamo sapere dove finisce il mio pensiero? No; e quindi, concentriamoci sul fatto che l’agnello era meraviglioso in ogni sua forma; come sugo degli gnocchi e dei fusi, alla griglia, al forno, impanato e fritto; e ne ho mangiato persino il fegato e il cuore. Non è forse normale che i vecchi mangino il cuore dei più giovani? Succede spesso, suvvia. Infine, per la ricorrenza, siamo stati allietati anche da una band che ha riproposto i grandi successi della musica jugoslava; e da un circolo di mammutones sardi o qualcosa del genere, pronti a ballare con le signore d’ogni provenienza. Ma perché vi scrivo tutto questo? Beh, essenzialmente perché a me piace scrivere; e il fatto che invece a nessuno interessi leggere ciò che scrivo, codroipo, per una sera non è problema mio.

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domenica 3 Aprile 2022, 18:13

Forza pippa

È sera. Dopo ventidue ore di viaggio e due ore e mezza di coda all’immigrazione, arrivo all’albergo di Washington scelto da ICANN, un boutique hotel con ambizioni di lusso a metà tra Foggy Bottom e Georgetown, popolato da gente in impeccabili vestiti blu e cravatta regimental.

Arrivo al check-in completamente rincoglionito. L’addetto prende il passaporto e mi fa: “Italy? Which city?”

“Turin.”

“Ah, Torino!”

Oddio, penso. Fa’ che non succeda, fa’ che non succeda, fa’ che non succeda.

Succede.

“Forza Juve!”

Ma vaffanculo, va’.

“Here, look here!”

Invece di darmi la benedetta chiave e mandarmi a dormire, il tizio interrompe il check-in, prende il suo cellulare, armeggia, e mi fa vedere.

C’è una foto di lui abbracciato con Del Pippa.

“Do you recognize the guy?”

“Yes, of course.”

“Are you sure? Do you know his name?”

Io so che se gli dico “Del Pippa” non capirà, per cui ho pietà di lui e rispondo per bene.

“He is my childhood idol”, continua lui. “I travelled to Los Angeles on purpose to meet him.”

“Mecojoni”, sospiro io. Lui non capisce, però gli viene un sospetto.

“But are you for Juventus or for Torino?”

Sorrido. “Torino, of course. You know, I’m actually from Turin. Juve is more of a national team.”

“Ah! Sorry for you!”

Non fosse che io sono il cliente e lui l’impiegato, probabilmente mi darebbe anche del “loser”.

Ma io sono una persona gentile. Gli dico anzi che ho incontrato anch’io Del Pippa, vent’anni fa. (Adriano lo portò un giorno in ufficio a Vitaminic per fargli fare una compilation.) E poi dai, oggettivamente è un bravo ragazzo e un gran giocatore: fuori dal tifo, massima stima.

Ma per me sono le tre del mattino e voglio solo andare a letto: next time, “forza Juve” tell it to your mother.

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