Sky
Vittorio vb Bertola
Affacciato sul Web dal 1995

Mer 24 - 2:14
Ciao, essere umano non identificato!
Italiano English Piemonteis
home
home
home
chi sono
chi sono
guida al sito
guida al sito
novità nel sito
novità nel sito
licenza
licenza
contattami
contattami
blog
near a tree [it]
near a tree [it]
vecchi blog
vecchi blog
personale
documenti
documenti
foto
foto
video
video
musica
musica
attività
net governance
net governance
cons. comunale
cons. comunale
software
software
aiuto
howto
howto
guida a internet
guida a internet
usenet e faq
usenet e faq
il resto
il piemontese
il piemontese
conan
conan
mononoke hime
mononoke hime
software antico
software antico
lavoro
consulenze
consulenze
conferenze
conferenze
job placement
job placement
business angel
business angel
siti e software
siti e software
admin
login
login
your vb
your vb
registrazione
registrazione

Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


lunedì 30 Aprile 2007, 12:15

Hiatus

Sì, sono sparito: in questi giorni sono a Monaco di Baviera, da cui vi sto scrivendo. Certo che ridursi a guardare la CNN sperando di vedere i risultati delle partite di ieri… eppure sì, alla fine li hanno pure mandati. Era meglio se non li vedevo.

Comunque, almeno in questi giorni, Monaco è una truffa: sono sceso dalla stazione e attorno a me c’erano solo italiani. Anche alla stazione della metro c’erano frotte di italiani. E anche in piazza, alla birreria (Franziskaner l’originale), davanti ai negozi, nei caffè… persino nei locali istituti di ricerca scientifica. I tedeschi? Saranno tutti a fare il ponte in Italia…

Per il resto, sto raccogliendo fatti interessanti da postare al mio ritorno mercoledì sera. Nel frattempo, siete liberi di utilizzare questo post per forumizzare, tanto per due giorni e mezzo non avrò la minima idea di cosa stia succedendo sul mio sito…

divider
martedì 24 Aprile 2007, 01:04

Flux

Già sapevo mentre ci offrivano la cena, che sarebbe finita così; eravamo in un locale fighettissimo della parte più altolocata di Dublino, l’infilata di case vittoriane prospiciente St. Stephen’s Green, dove una cameriera francese anoressica dal peso massimo di venticinque chili ci serviva dinieghi a strati di sdegno successivo; e non solo non si può avere un calice di champagne sfuso, ma se ti chiedo la bistecca senza sauce Béarnaise e tu mi dici di sì e poi me la porti grondante albume imburrato, ecco, allora sei proprio conica come sembri; perchè, come disse il grande filosofo Jean-Paul Sartre, “Tu es encore plus con que tu n’en as l’air” – Sartre, La Mort dans l’âme, 1949, p. 170, per quanto nel caso si dovrebbe usare il femminile conne*.

Ciò detto, la fighettaggine del locale imponeva che non appena il tuo bicchiere di vino da trenta euro a bottiglia scendesse sotto la vaga metà, esso venisse riempito fino all’orlo; e ciò spiega il mio desiderio di compiere – in una piena, fresca notte – una mezz’oretta di passeggiata di ritorno, invece che prendere un taxi con tutti gli altri; gli altri essendo un simpatico indiano di Chennai, un simpatico cinese di Hong Kong, e un gruppo di simpatici americani di mezz’età, compreso un consigliere d’amministrazione di Afilias – che, in una vita precedente, ha fatto l’accordatore di racchette di Jimmy Connors e Pete Sampras – e un Vice President di GoDaddy.

E così, non volendo spaventare gli altri prendendo dritti per il lato remoto di St. Stephens Green – che poi magari si preoccupano che tu non sappia dove stai andando – ci si ritrova giù per Dawson Street e poi per Nassau, gridando tra sè e sé “I am FAIIRRRRRLLLY drunk”, pur non essendolo, visto che il resto della via è popolato di villici in giacca e cravatta più formali della tua, e alticci altrettanto o probabilmente di più.

E’ solo che dopo un po’ di passeggiata ci si ritrova davanti all’angolo d’un altro giardino e ci si dice, “Ma questa non sarà mica Merrion Square, che ho camminato dieci minuti e sono ancora qui?”, e in effetti lo era, e non finisce qui: per fortuna che pur in mezzo all’allegria dopo dieci metri mi son chiesto se non fosse già quello l’angolo giusto, e son tornato indietro, visto che effettivamente, nascosto dietro una casa assassina, c’era l’imbocco dell’unico passaggio verso Pearse Street e la relativa stazione della DART (che sarebbe il Dublin Area Rapid Transit ovvero la ferrovia suburbana; gli irrici, che hanno il senso della misura, l’hanno ufficialmente chiamata “freccetta” in onore dei suoi picchi di velocità attorno ai trentacinque orari). Se no, mi ripescavate domani a Dun Laoghaire.

Quindi, prendo giù per East Lombard, attraversando un quartiere di case popolarissime con tarri alle finestre, punteggiato da pub piantonati all’esterno da culi improponibili di bellezze locali rese lievissimamente sovrappeso da qualche ettolitro di Guinness per day. Alla fine, si sbuca sul fiume proprio di fronte all’ultimo ponte, quello pedonale, su cui improvvise, marcando la fine della terra di nessuno, si protrudono coppiette a ripetizione. Di lì, cinque minuti a fianco di una strana coda di auto sul lungofiume, e poi si arriva all’albergo giusto in tempo per incrociare nella hall un pullman targato GinoBramieri, con le relative bruttezze moleste ambosessi, ubriache nell’ascensore.

Certo che, a veder le inglesi, s’ipervaluta l’Irlanda.

* Nel caso proprio non aveste capito e voleste tutta l’etimologia spiattellata, il termine deriva dal latino cunnus, che nel lessico internazionale moderno è rimasto in uso al genitivo nell’ambito di una locuzione prevalentemente utilizzata per – ok, vado a dormire.

divider
lunedì 23 Aprile 2007, 15:51

Brevi dall’Irlanda

Oggi a Dublino è una giornata grigia, e piove. Sono in una palazzina sulla riva della Liffa, al settimo piano: si vede da una parte il porto, e dall’altra tutta la città. C’è talmente tanto vento che un quarto d’ora fa una delle pesanti sedie di alluminio che stanno sul balcone è stata spostata di mezzo metro: per fortuna che c’era la ringhiera…

Ieri, in compenso, è stata una bellissima giornata, con un sole che quasi non ci si credeva; mi hanno riportato a Powerscourt, dove il giardino non è niente di clamoroso ma è comunque piacevole. Ma il vero piacere è stata la passeggiata di Howth Summit (fatta per la quarta volta, ma per la prima volta ho preso il sentiero basso sulla scogliera); ho tirato su un 170 foto con cui mi piacerebbe fare una guida del turista. Ma, visto l’affollarsi di impegni, forse sarà in un’altra vita…

P.S. Perché, affinché, acciocché, imperciocché (questo è un riferimento per iniziati).

divider
mercoledì 21 Marzo 2007, 18:45

In volo?

Ecco, quando è suonata la sveglia alle sei meno cinque, le magliette erano ancora bagnate, così mi sono messo ad asciugarle col phon, e poi le ho messe in valigia bagnaticce cercando di isolarle tra gli asciugamani, e poi sono uscito in ritardo, e poi ho fatto guidare mia mamma che ha sfrecciato a novantacinque all’ora per tutta la tangenziale, e poi… insomma, sono arrivato al check-in Iberia e la signorina mi ha guardato male e mi ha detto: “Ma lei non dovrà mica andare a Madrid?!?”.

Insomma, avevano già chiuso il volo… però io ho fatto gli occhi dolci, e in fondo sono arrivato a -32 minuti dal decollo (il check-in chiude a -35), e insomma m’ha preso ‘sta valigia senza nemmeno pesarla (per fortuna, visto che fatico a sollevarla) e m’ha infilato sul volo, e io ho persino fatto la scena di tagliare (chiedendo) l’infinita coda dei metal detector, visto che avevano già fatto l’ultima chiamata.

E così, le mie magliette ora garriscono allegramente sul balcone di una bella casa di Lisbona, per completare l’asciugatura. Col vento che c’è, basteranno dieci minuti…

…e ho già anche sperimentato i caffè storici del posto!

Pasteis do Belem
divider
mercoledì 21 Marzo 2007, 09:38

In volo

Mentre leggete queste righe, io dovrei essere in volo per Lisbona via Madrid (oh, finalmente una coincidenza tutta dritta). Sto andando al meeting di ICANN, che comincerà solo sabato mattina – prima, mi godrò un paio di giorni a casa di amici.

Sperando che il tempo sia clemente e che le connessioni abbondino, mi piacerebbe fare qualche foto e metterla su in tempo quasi reale: dicono che Lisbona sia una gran bella città.

divider
giovedì 15 Febbraio 2007, 18:02

Video

In questi giorni ho messo su alcuni video su Youtube: mi ci sto abituando, e non è affatto complicato. Da quando poi ho capito che anche la mia macchina fotografica può fare dei video accettabili…

Comunque, il primo video è privato: come già dissi, cosa si può fare se ci si trova da turisti stranieri a Filadelfia e si hanno un paio d’ore libere? Si va a fare i gradini di Rocky; possibilmente, con una macchina fotografica in mano per riprendere l’impresa. Come si sente verso la fine del video, è più lunga di quello che sembra.

Invece, ho poi caricato alcuni video dell’IGF di Atene, che finalmente sono stati pubblicati; con abile taglia e cuci potete ascoltare il resoconto del workshop sulla Carta dei Diritti della Rete, l’annuncio della nascita della relativa coalizione, e soprattutto il mio intervento conclusivo sul futuro dell’IGF e su tutti i motivi nobili e ideali che ci spingono a lavorare su questi temi.

Devo dire che il Web 2.0, con i video che girano qua e là per i siti, comincia a piacermi…

divider
sabato 10 Febbraio 2007, 16:22

Sicurezza

Vi devo ancora raccontare quel che ci vuole per arrivare negli Stati Uniti, in termini di controlli.

A Parigi, i voli per gli Stati Uniti partono in un terminal apposito, costruito in fretta e furia fuori dai sei principali, in un angolo del piazzale; nominalmente è un pezzo del terminal 2E, ma in realtà è isolato dal resto dell’aeroporto e ci si arriva solo con una navetta. L’autobus ti scarica davanti a un ingresso, dove, per prima cosa, ti controllano biglietto e passaporto; quindi ti fanno uno screening di sicurezza, in cui, oltre a toglierti giacca e giaccone, cintura, orologio, e ad estrarre portatile e macchina fotografica dalle borse, ti fanno togliere anche le scarpe.

Si attraversa poi il terminal e si arriva al gate, dove, all’imbarco, c’è un ulteriore controllo di biglietto e passaporto; a quel punto, io sono stato “casualmente” selezionato per un ulteriore controllo, in cui mi hanno perquisito e scansionato con un metal detector a mano, mi hanno fatto riaprire minuziosamente tutte le borse, togliendo l’intero contenuto, e mi hanno fatto accendere la macchina fotografica per controllare che fosse vera.

In volo, ti vengono consegnati due moduli da riempire minuziosamente: uno, quello verde, è per il visto (o meglio, l’esenzione dal visto) ed è quello che contiene le famose domande come “sei mai stato nazista?” o “vieni negli USA per spacciare droga?”. Ti avvertono anche che, se barrerai anche solo un sì, potrebbe venirti negato l’ingresso nel paese. L’altro, quello azzurrino, è per la dogana, dove si devono dichiarare eventuali beni per importazione o grandi quantità di valuta.

Atterrati a Filadelfia, poi, per prima cosa si incontra un nuovo controllo passaporti, dove va consegnato il modulo verde; l’impiegato ti chiede perchè vuoi entrare negli USA (a quel punto, devo dire, cominci a chiedertelo anche tu), quanto resterai, dove starai e così via, oltre a richiederti di vedere il biglietto di ritorno (la stampa della ricevuta se elettronico: è bene non dimenticarsene una). Non capire le domande fa pessima impressione; comunque, non è previsto l’uso di altre lingue oltre all’inglese.

Dopodichè, anche nel caso in cui, come me, abbiate un volo in coincidenza e la valigia sia già registrata fino alla destinazione finale, dovete lo stesso recarvi al ricevimento bagagli e prelevarla; difatti, dovete passare con essa la dogana. Lì incontrate prima uno sbarramento iniziale in cui vi chiedono da dove venite; apprendendo che siete italiano, l’ufficiale comincia a dirvi: “Pruvulù? Muusarell?” Dopodichè, stupendovi che non capiate, comincerà a dubitare che siate italiani sul serio. Se riuscite a passare, dovrete fare una coda fino al punto in cui un dipendente delle dogane annoiato vi prenderà di mano l’altro modulo, vi chiederà se siete proprio sicuri di non avere in valigia delle mozzarelle non autorizzate (il contrabbando internazionale di latticini è un reato terribile) e vi lascerà andare.

A questo punto, trovate un banco del check-in, dove vi chiederanno nuovamente biglietto e passaporto, e poi vi ritireranno la valigia per la destinazione finale, facendovi il check-in per il prossimo volo interno (dall’Europa, non sapendo se la dogana vi lascerà davvero passare, non ve lo fanno).

Dovendo poi prendere un altro volo, dovete poi passare un ulteriore controllo di sicurezza: persone di ogni colore – è la fila riservata all’arrivo degli internazionali e per i cittadini non americani – in una fila infinita e pigiata tra barriere metalliche, in cui un paio di omoni bianchi con il manganello in mano si mettono a urlare alla folla a intervalli regolari, sempre solo in inglese: “State in fila! Non spingete! Tirate fuori gli oggetti metallici! Non usate il telefonino! Non fate fotografie! Estraete i computer dalla borsa! Preparatevi a togliervi le scarpe!”. Dopo venti minuti di coda in un clima da lager, potete finalmente togliervi di nuovo cintura, orologio e scarpe, nonchè giacca e giaccone, e infilare tutto nella macchina a raggi X.

Insomma, passa veramente la voglia di andare in un posto dove chiaramente hanno proprio voglia di accoglierti. Ma per completare il quadretto vi devo ancora raccontare il mio controllo di sicurezza all’aeroporto di New Haven, quello grande come una fermata dell’autobus.

Il mio passaporto, come tutti quelli italiani, ha una data di scadenza nel 2005, ma è stato prorogato al 2010 mediante una scritta in terza pagina (l’Italia voleva risparmiare sui nuovi passaporti). Pretendere che una signora americana – di quelle signore americane di provincia, paciose e sopra i 150 chili – lo capisca è eccessivo; ma lei (la signora del banco check-in numero 1, cioè l’unico) almeno l’ha chiesto, e io gliel’ho fatto vedere.

Dopodichè, passo al controllo di sicurezza (due metri più in là), porgo il passaporto, e la signora – stavolta magra e in tiro – si irrigidisce. Non mi dice niente, ma fa la cosa peggiore possibile: prende il nastro mobile, di quelli che si tirano da una palina all’altra per delimitare le corsie, e me lo passa davanti per bloccarmi il passaggio. Poi se ne va più dentro, per parlottare con un collega. Ok, io ho capito di cosa parlano; per cui, quando torna e finalmente mi dice “devo controllare una cosa con la compagnia aerea” (cioè la signora grassa due metri dietro di me), io rispondo “ma guardi che è stato prorog…”. Lei, senza fermarsi a sentire tutta la risposta, mi fulmina con gli occhi, come a dire “CHI TI HA AUTORIZZATO A PARLARE?”.

Insomma, fa i due metri, la signora grassa e gentile le fa vedere col ditone dov’è che è segnata la proroga, lei torna e mi fa passare (al metal detector, dove tolgo cintura, orologio e scarpe ecc.). Mentre passo, il collega con cui aveva parlottato, come se io non ci fossi, le fa il seguente discorso, testuale: “Certo che non ci fanno abbastanza formazione: perchè noi come facciamo a sapere se uno è un terrorista? Voglio dire, se uno arriva da quei posti tipo Siria, Libano, allora capiamo subito che probabilmente è un terrorista; ma ci dovrebbero dire quali sono gli altri paesi da cui vengono i terroristi, perchè se vedo questi passaporti stranieri, tipo Italia o Germania, io come faccio a sapere se sono paesi di terroristi o no?”.

Rabbrividiamo.

divider
martedì 6 Febbraio 2007, 23:47

Americani (2)

Vi devo ancora raccontare la seconda parte della saga dei telefonini: nel volo di ritorno da New Haven a Filadelfia, sale vicino a me un ragazzo nero, alto, con l’aria da studente. Chiacchieriamo un po’ durante il decollo, poi a un certo punto, arrivati a quota di crociera, mi fa: “Scusa, ma ora si possono accendere i dispositivi elettronici?”. Io rispondo che non ho sentito l’annuncio, e che sarebbe meglio chiedere alla hostess, visto che su quello scassone di aereo non so nemmeno se ci sia una qualche forma di isolamento. Lui, imperterrito, prende e tira fuori non, come pensavo, un lettore MP3 o un portatile, ma un bel telefonino nuovo; così con nonchalance, lo accende senza il minimo dubbio… lo guarda per un po’, e poi con l’aria scandalizzata fa: “Ehi, ma non c’è campo!”

Un’altra cosa che succede solo in America – ma succede dappertutto, in qualsiasi conferenza, persino nell’intellettualissima ed ambientalissima Università di Yale – è la gestione dei beveraggi. Difatti, è pratica comune quella di offrire ai partecipanti a una conferenza (specie se a pagamento, quindi praticamente tutte, visto che l’idea che l’università faccia cultura gratis per tutti non è di casa, e del resto quasi tutte le università sono private) la possibilità di rinfrescarsi, ossia di avere delle bevande fredde durante le pause. Naturalmente non si parla di acqua, per quanto a Yale abbiano pure l’acqua con il loro marchio; si parla ovviamente di Coca Cola, Coca Cola Light, Sprite, Sprite Light ed equivalenti meno noti (tipo la Dr. Pepper).

Ora, come si fa a tenere in fresco queste bevande? Semplice, si adotta invariabilmente il metodo seguente: si prende tanta acqua da riempire una bacinella grande come una mezza vasca da bagno – direi almeno cinquanta litri d’acqua – e la si fa congelare in cubetti di ghiaccio. Dopodichè, al mattino si mettono i cubetti nella bacinella, poi si aggiungono le lattine, e la si lascia lì in bella vista per tutto il giorno. A sera, la bacinella è diventata un oceano di acqua sporca con qualche residuo cubetto che galleggia, e le bevande sono ancora vagamente fresche. Energeticamente ineccepibile, no?

L’ultima americanata, però, riguarda proprio l’acqua. Difatti, dovete sapere che gli americani sono tonti e possono essere fregati in ogni modo possibile, purchè lo si faccia alla luce del sole. E così, sono il popolo più obeso e alimentarmente incosciente del mondo, ma, per evitare cause miliardarie, è obbligatorio indicare sugli alimenti il contenuto calorico e quello di vari elementi, in modo ossessivamente dettagliato.

Peccato che, complice anche l’ignoranza, questo valga per ogni alimento: compresa l’acqua. E così, su ogni bottiglietta d’acqua è segnalato che essa contiene zero calorie, zero grammi di sodio, zero grammi di proteine, zero grammi di carboidrati e zero grammi di grassi: ovvero, lo zero per cento della necessità giornaliera. Non l’avrei mai detto.

DSC06033_544.JPG
divider
sabato 3 Febbraio 2007, 17:09

A Nightmare on Elm Street

Salto per il momento il racconto di tutte le procedure di sicurezza che ho dovuto subire per entrare in America, e che meritano un discorso serio, per raccontarvi del mio primo approccio con un pianeta sconosciuto: la provincia del New England.

Mi ritrovo difatti in un’ala semidimenticata del megaaeroporto di Filadelfia, scaricato lì da una navetta svogliata della US Airways: è l’ala più vecchia e lontana, e viene usata per i voli locali, quelli dei pendolari. Il punto è che in America hanno un concetto di pendolare aereo che noi non abbiamo: e difatti, percorrendo i vari gate scopro voli in partenza per i buchi più minuscoli degli Stati Uniti orientali. Passi il volo per Knoxville, che è già abbastanza nota; passino anche quelli per Ithaca o per Syracuse, che a voi non diranno niente ma sono centri dell’intellighenzia bene che si è spostata nell’upstate New York per sfuggire alla vita vuota di Manhattan. Ma il volo per Massena? Quello per Newport News? Elmira? Altoona? Harrisburg/York? Utica? Hartford/Springfield? Ogdenville? Shenandoah Valley? Tutti questi posti non solo esistono veramente, ma dispongono di un aeroporto e di collegamenti diretti con Filadelfia (neanche New York).

Peccato che questi collegamenti siano più o meno dello stesso livello dei nostri treni interregionali. Già il gate scrostato con i tubi in evidenza e la moquette strappata mi avrebbe dovuto far intuire qualcosa; ma l’orrida verità si materializza quando salgo sull’aereo. Che si rivela essere un vecchissimo bimotore ad elica, risalente almeno agli anni Sessanta, più probabilmente ai Cinquanta: ha due sedili per lato e nove file, di cui l’ultima è contro una paratia e ha pure il sedile in mezzo, proprio come nei pullman. Ecco, questo aereo ha battuto il record dell’aereo più vecchio e scassato su cui abbia mai viaggiato, surclassando persino il temibile volo Aerolineas Argentinas da Buenos Aires a Montevideo che ho preso nel 2001 (ed era il periodo in cui Aerolineas era in fallimento). (Devo però dire che non sto contando il volo su Cessna che ho fatto in Nuova Zelanda, decollando da una striscia di terra battuta e atterrando in un prato zuppo d’acqua: quello è hors categorie.)

Comunque, il volo sembrava un po’ come quello nel finale di Ti presento i miei: difatti c’era la hostess di mezza età e tuttofare, che al gate chiama i passeggeri delle file posteriori (quattro) e poi, dopo avergli strappato le carte d’imbarco, annuncia al microfono con estrema professionalità che “ora imbarchiamo i passeggeri delle file anteriori” (altri sei). Abbiamo ballato come dei dannati, visto che fuori pioveva a dirotto ed era buio, ma soprattutto che l’aereo era uno sputacchio nel risucchio del vento. La suddetta hostess ha pure annunciato al microfono che “a causa delle turbolenze, vi preghiamo di tenere strette le bevande che vi saranno versate” (il verbo al passivo naturalmente copre la verità, cioè che a bordo c’era solo lei). Ma è la prima volta che vedo un aereo dove sui sedili, al posto di “Life vest under your seat”, c’è scritto “Use bottom cushion for flotation”.

La situazione è divenuta ancora più ridicola dopo l’atterraggio all'”aeroporto” di New Haven, che si è rivelato essere una specie di autogrill prefabbricato in mezzo a un piazzale. In pratica, si scende dall’aereo, si cammina per il piazzale, si svolta dietro una parete di cartongesso e lì c’è il recupero bagagli. Umano: non c’è un nastro trasportatore, c’è un omino che tira su a mano una serranda che dà sull’esterno, poi fa il giro, e attraverso la serranda prende i bagagli dal camioncino e li butta per terra davanti ai viaggiatori. Fuori, oltre al parcheggetto per le macchine dei pendolari, c’è lo stand dei taxi, con un taxi solo. Chiuso e vuoto. Vado in giro, chiedo all’unico impiegato dell’aeroporto (che fa check in, gate di ingresso, gate d’uscita e distribuzione bagagli) dove trovo un taxi, mi dice: ma hai visto dentro? Torno là, mi avvicino al taxi sotto il diluvio. Dentro, a ben guardare, ci sono avanzi di McDonald’s per tutti i sedili, e un nero che dorme sdraiato. Busso, lo sveglio, e mi butto dentro.

Il percorso per arrivare in città prevede l’attraversamento di una zona di ville: ecco, al buio e sotto la pioggia, sembra un film di Nightmare, con le casette di legno con le verande e i tetti a punta in cima alle collinette, circondate da alberi spettrali. Non a caso la strada principale di New Haven si chiama Elm Street.

divider
sabato 3 Febbraio 2007, 15:09

Americani

Il mio volo da Parigi a Filadelfia era occupato quasi esclusivamente da americani; d’altra parte, chi mai vorrebbe andare a Filadelfia da turista? E così, mi sono beccato un paio di americanate fantastiche.

La prima ̬ la ragazza Рn̬ alta n̬ grassa, semplicemente grossa Рche tornava con le amiche da una vacanza a Parigi (ne hanno chiacchierato per tutto il viaggio). Ora, supponi di essere americana, e di essere cresciuta nella prateria con le vacche oppure nella infinita periferia di una megalopoli tutta uguale. Per una volta nella vita, ti concedi una vacanza e vai a Parigi: ebbene, qual ̬ il monumento simbolo, quello che anche se ci stai pochi giorni non puoi mancare, quello di cui ti compri la maglietta e la sfoggi sul volo di ritorno? La torre Eiffel? Montmartre? Il Louvre? Notre Dame? No, ovviamente ̬ un altro: Eurodisney.

La seconda è il tizio che per tutto il santo viaggio, seduto davanti a me, ha lavorato sul portatile a powerpoint aziendali scaricandoli via Bluetooth dal palmare aziendale e parlando con il collega aziendale di nuovi fantastici piani aziendali, intervallati da esibizionismo tecnologico relativo al nuovo portatile aziendale e soprattutto al nuovo palmare aziendale, che sembrava fare di tutto di più. Stavamo già scendendo quando la hostess, pure dovendo insistere, è riuscita a ottenere che spegnesse tutto e si mettesse buono. Ebbene, manca non più di un minuto all’atterraggio, vediamo le case, l’altimetro segna cinquecento metri scarsi, stiamo anche un po’ ballando causa maltempo, e nel silenzio totale della cabina in tensione d’improvviso si sente fortissimo: “PIII-PIII!! PIII-PIII!!!”. Ottanta occhi guardano il malcapitato con il palmare in mano, mentre la hostess gli grida “MA NON L’AVEVA SPENTO?”. No: difatti, a cinquecento metri d’altezza, gli era appena arrivato il primo SMS aziendale per una urgentissima faccenda aziendale. Per poco non veniva (giustamente) linciato.

divider
 
Creative Commons License
Questo sito è (C) 1995-2024 di Vittorio Bertola - Informativa privacy e cookie
Alcuni diritti riservati secondo la licenza Creative Commons Attribuzione - Non Commerciale - Condividi allo stesso modo
Attribution Noncommercial Sharealike