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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


sabato 22 Agosto 2015, 09:37

Il sud della Francia in venti tappe

Da quando faccio politica ho praticamente smesso di pubblicare sul mio blog i miei racconti di viaggio: c’è sempre qualcuno che ha qualcosa da ridire sul luogo, sul mezzo, sul cibo, sul tempo, sostenendo che non sono compatibili col Movimento 5 Stelle. Ma siccome tra sei mesi è finita, quest’anno me ne frego: ecco quindi un viaggio nel Sud della Francia in venti tappe. Ho cercato di offendere in uguale maniera tutte le diverse nazionalità e i diversi posti visitati; spero che i francesi (tra cui annovero anche diversi parenti stretti) non si incazzino. Tanto, come racconta Paolo Conte, è dal 1948 che i francesi si incazzano.

Colle della Maddalena. Il valico di espatrio rapido preferito dai Briatore si raggiunge con una lunga strada misteriosamente ancora strozzata da diversi semafori a senso unico alternato con annessi venti minuti di coda (e poi si chiedono perché i turisti non vengono). Per arrivarci bisogna schivare un po’ di tutto, compreso il sindaco di Gaiola appostato con l’autovelox. Ma io ho fatto tutto il paese a 50 orari precisi, tiè.

Col d’Allos. A oltre 2200 metri di altezza, è uno dei valichi alpini più affascinanti da percorrere in auto, salendo da Barcellonetta su una stradina scavata col cucchiaino a metà di interi costoni verticali, e che i francesi hanno lasciato praticamente priva di guard-rail per “non turbare l’atmosfera naturale”, la quale include anche la selezione naturale su chi prende le curve troppo larghe. Il fascino si perde un po’ se esattamente in cima ti arriva un SMS di Casaleggio che dice “il tuo pezzo è sul blog” e tu ti chiedi “quale pezzo?!?”.

Gole del Verdon. Te le vendono come il Grand Canyon d’Europa ed effettivamente lo sono, grazie a un disegno alla Escher per cui un momento il fiume è lì accanto alla strada e pochi chilometri dopo ci sono 750 metri di dislivello verticale. La strada delle creste, anch’essa priva di guard-rail per non turbare l’atmosfera naturale, farà venire i brividi anche ai più scafati. Anche qui, il fascino si perde un po’ se dopo avere ignorato cinque chiamate da uno sconosciuto numero di Milano decidi di prendere la sesta, e ti ritrovi in diretta su Radio Popolare con un giornalista che ti chiede cose tipo “ma lei, da grillino razzista senza cuore, veramente vuole far arrestare uno straniero solo perché ha violato la legge?”.

Marsiglia. Ogni città si riconosce dal suo odore, e la principale città dell’Algeria si riconosce da un intenso puzzo di piscio: mi sa che devono sistemare le fognature. A parte questo piccolo inconveniente estivo, Marsiglia si trova in una collocazione splendida, con sole, mare, verde, spiagge, isolette rocciose e l’intera costa dei calanchi a dieci minuti di macchina dal centro. A questo punto, qualsiasi altra cosa diventa irrilevante: un posto per viverci e per mangiare un ottimo couscous.

La Ciotat. Se proprio non vi piace la città, potete sempre andare a stare in una delle cittadine lungo la costa marsigliese…

Arles. E’ la quarta volta che ci vado ma l’anfiteatro è sempre un bel vedere, anche se una volta non c’erano i cinesi che scavalcano le transenne per farsi la foto in bilico sugli archi a trenta metri d’altezza, con i francesi intorno che tifano apertamente gravità; e nemmeno le corse di tori (anche dette “farei una corrida ma qui in giro ci sono troppi animalisti”) tre volte a settimana. E’ una buona base per tutta la zona e ci sono un mucchio di tramonti sul Rodano e ristorantini carini, anche se nei luoghi turistici della Francia del sud non riuscirete mai a spendere meno di 20-25 euro a testa per un piatto e un dessert, a meno di non mangiare kebab, centro commerciale o il fantastico Mezzo di Pasta (amorì al pestò).

Camargue. Ma non quella più turistica, bensì quella naturalistica: piazzate il cruise control a 4×20+10 chilometri orari (in Francia ci sono autovelox ovunque, pure sulle strade secondarie) e passate la giornata girando per una straordinaria varietà di ecosistemi e paesaggi. Questa è la riserva naturale semiasciutta, che sarebbe stata piena di uccelli se non ci fossero stati 38 gradi all’ombra, ma poi ci sono le distese sabbiose, gli stagni pieni di fenicotteri che camminano, le saline, e infine la spiaggia di Piemosson, totalmente libera e priva di strutture ma piena di camper, tende, ombrelloni e bambini abbandonati sulla sabbia a perdita d’occhio.

Acque Morte. Invece di andare nel casino di Sante Marie del Mare, la Porto Cervo degli zingari in cui gli zingari sono ammessi solo fuori stagione e/o se coreograficamente in sella a un cavallo, potete andare ad Acque Morte che non è sul mare, ma è molto più bella; il giusto punto medio tra una cittadina medievale turistica svuotata dell’anima e un posto ancora vivo.

I Boh di Provenza. A una cosa sola serve questo posto, cioè alla scoperta della bauxite, senza la quale non esisterebbero le lattine di alluminio e i fogli di alluminio in cui avvolgere gli avanzi e tenerli in frigo fin che non marciscono. Invece loro insistono nel voler essere il villaggetto arroccato pieno di negozietti di souvenir e di gallerie d’arte, succursale del Principato di Monaco. Valli a capire, anzi: boh.

Glanum. Questa città romana sulle pendici delle Alpilles è una piacevole tappa: essendo una città romana in rovine, la densità di persone è piacevolmente scarsa, proprio come il pubblico di We-Used-To-Talk-About-History Channel. Le rovine non saranno quelle di Efeso, ma sono comunque interessanti; e proprio a fianco si può visitare il tranquillissimo chiostro ex manicomio che ospitò Van Gogh, e senza impazzire.

Nimes. Quando insieme al gigantesco anfiteatro vi proporranno di visitare anche una torre romana immersa nel verde da cui si gode uno splendido panorama, non fatevi fregare: la torre apparentemente è abbastanza vicina, ma si trova in cima a una collina persa in un dedalo di sentieri in mezzo a un parco. Visto l’anfiteatro e vista da fuori la Maison Carrèe, uno splendido tempio romano in mezzo al quale hanno piazzato un orrido filmato multimediale con luci e colori (una pratica che si espande per i monumenti francesi come un cancro), potete tranquillamente riprendere la macchina e andare altrove.

Ponte del Gard. Quando c’ero stato da ragazzo si poteva ancora percorrerlo in cima, al livello più alto; adesso è un’esperienza preclusa, se non a piccoli gruppi su prenotazione e con una guida che non ti lascia più provare il tuo coraggio sporgendoti da decine di metri di altezza e/o gridando dall’alto ai francesi battute sulla testa di Zidane. Il ponte però è bellissimo, un vero orgoglio dell’ingegneria italiana; e bisogna passarci sotto per accorgersi di quanto è immenso. Sta su da quasi duemila anni a ricordarci che un tempo, a Roma, non c’erano le cooperative rosse.

Carcassona. Visitare Carcassona d’estate è come visitare la metropolitana nelle ore di punta: un’esperienza da incubo. Dopo due ore di traffico in autostrada, venti minuti di coda per uscire al casello (solo due porte aperte) e altrettanti di portellate per trovare un parcheggio a chilometri di distanza, vi troverete in mezzo a bambini urlanti e padri disperati che cercano di trascinare un passeggino doppio sulle pietre sconnesse della cerchia di mura, e rimpiangerete Acque Morte, o la morte direttamente.

Castello di Peyrepertuse. Vale il viaggio da solo: una antica fortezza catara messa in cima ad un costone roccioso sospeso sul nulla. Per arrivarci dovete infilarvi nelle valli e nelle gole dei Pirenei Orientali, salire con la macchina per chilometri, e poi salire a piedi su un sentierino scosceso (e c’è chi si presenta in ciabatte da mare). Non si riesce a capire come abbiano fatto a costruire quella roba lassù, in mezzo al vento e alle nuvole che vanno e vengono, ma la visita è una esperienza fantastica. E se vi prendete abbastanza tempo, in giro per la zona ce ne sono altri da visitare.

Avignone. Avignone è la capitale delle grandi opere inutili del Medioevo: un immenso palazzo papale che fu usato per non più di trent’anni (più altri quaranta di mitomani che vi giravano dentro gridando “sono io il vero Papa!”) e un ponte che rimase in costruzione e/o in riparazione perenne per cinque secoli, fin che il fiume non se ne portò via definitivamente la maggior parte; tanto è vero che ci dovettero fare su una canzone. Ma rimane nel cuore per un drammatico scontro di civiltà e di degrado umano: un ragazzo americano che entra in una boulangerie, indica la macchina del caffé e chiede “un lattè”. Le commesse sono sconvolte ancora adesso; il governo francese sta preparando una causa a Starbucks.

Orange. Sti simpaticoni hanno un teatro romano magnifico, ma non te lo fanno visitare perchè quella sera c’è il concerto di un tamarro in braghettoni medievali e pelo lungo che suona una imitazione pop francese di Riverdance. Ora, sappiamo tutti che i francesi ascoltano solo musica di merda – per sbaglio in macchina ho acceso la radio e a fine vacanza ho dovuto disinfettare le casse con l’Amuchina – ma questo è davvero troppo: siamo dovuti tornare il giorno dopo e abbiamo pure pagato il parcheggio nonostante sabato 15 fosse un giorno festivo. E dentro il teatro ci sono pure ben quattro filmati multimediali con spettacolo di luci e colori, compreso uno in cui un Roberto Alagna francese prende per il culo un Roberto Alagna italiano. Vergogna!

Monte Ventoso. Una volta nella vita bisogna salire su una delle cime epiche del ciclismo, anche se è più riposante farlo in macchina. Per buona parte del tempo si sale in una magnifica foresta, con una strada sufficientemente larga da poter superare anche il più rognoso dei camper; poi si sbuca fuori e ci si trova sulla luna. In cima tirava vento e c’erano quindici gradi, ma si stava benissimo: un posto veramente alieno, talmente alieno che le auto rallentano per far passare sciami di biciclette.

Gordes. Mi piacerebbe raccontarvi com’era il paesino, ma era in corso un tale assalto che è risultato impossibile parcheggiare, persino volendo pagare i canonici quattro euro a forfait che i francesi ti chiedono appena posi la macchina. Siamo andati a vedere la vicina Abbazia di Senanque, in teoria una bella chiesa medievale circondata dai campi viola di lavanda, ma la lavanda era grigetta e piena di cinesi che ci si facevano le foto in mezzo. Troppa gente!

Roussillon. La foto non rende l’idea della meraviglia che è il sentiero delle ocre nelle ultime ore di luce del giorno; tutte le tonalità dal giallo al rosso si presentano continuamente agli occhi, mescolate all’azzurro del cielo e al verde degli alberi. Basta non incontrare una famigliola milanese in cui l’unico interessato ai colori delle ocre è il padre, mentre i due ragazzi dallo scazzo lungo un miglio chiedono insistentemente lasagne per cena: esportiamo degrado.

Vaison-la-Romaine. Invece di fare la solita noiosa autostrada della Durance, una volta scavallato il Monginevro potete prendere per Gap e per la valle della Drome e sbucare a Vaison-la-Romaine, una vera sorpresa. Il posto è fresco e tranquillo e ci sono delle belle rovine romane, una cattedrale dell’anno mille, un centro medievale, un ponte antico, un Lidl… e nei Lidl francesi hanno il tabulé pronto in vaschetta gusto pollo: un segno inequivocabile della superiorità della civiltà francotedesca su quella romana.

EXTRA: Facciamoci riconoscere. Nel parcheggio di Roussillon, nei giorni di maggiore afflusso dell’anno e con una coda perenne in attesa, macchine di mezza Europa erano parcheggiate ordinatamente, tranne una: lui. Lui che da buon italiano ha deciso che aveva assolutamente bisogno di occupare due posti perché così stava più comodo. Più specificamente, sulla cornice della targa si legge: “NISSAN SCHIANO – MONTE DI PROCIDA (NA)”. Ma prima di prendermi del leghista sabaudo che da centocinquant’anni vive rapinando le finanze duosiciliane, devo precisare che Procida è un posto talmente bello che ai suoi abitanti posso concedere qualsiasi cosa.

EXTRA: Gasolio in Francia. Perché il prezzo del gasolio può anche essere così! Del resto al ritorno ho tentato di rabboccare un’ultima volta a Briançon, ma non ci sono riuscito: a forza di italiani in rientro, il gasolio era esaurito in tutta la città…

EXTRA: Grand Hotel Francia. Penso che questa foto, scattata nel pieno centro di Marsiglia, riassuma benissimo tutto. L’universo, la vita, tutto quanto.

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giovedì 6 Agosto 2015, 22:20

Hiroshima 70

L’anno scorso sono stato a Hiroshima. E’ una città bruttina, ma questo è comprensibile visto che ha dovuto essere ricostruita da capo nel dopoguerra, con i mezzi allora disponibili; per i “grattacieli e ristoranti chic” menzionati da La Stampa consiglierei di andare altrove, e le principali attrazioni mondane sono una galleria commerciale pedonale alla giapponese (bruttina quanto il nome della locale squadra di calcio, il tremendo Sanfrecce) e il palazzo degli okonomiyaki (peraltro ottimi). Anche l’economia non è proprio frizzante, trattandosi di un’altra città dell’automobile (nello specifico la Mazda).

E’ vero però che la visita al Parco della Pace, per quanto affollato di turisti, è un’esperienza indimenticabile; e proprio quest’aspetto dimesso contribuisce al contrasto. Succede di prendere un vialone di palazzoni, girare un angolo, e trovarsi davanti senza preavviso alla cupola del destino. Colpisce perché nei nostri sogni, nelle foto viste e riviste, viene da immaginarla enorme, troneggiante su una tragedia senza pari; in realtà è piuttosto piccola, poco più che una elaborata stazioncina di provincia. Se non sapeste, potrebbe sembrare la vecchia casa del custode di un più grande complesso novecentesco che oggi non c’è più, di quelle vecchie casette abbandonate e mezze crollate che punteggiano le nostre rovine industriali.

E’ proprio questo che alla fine colpisce, di Hiroshima; che in fondo è tutto così cruciale, ma anche così normale, così insignificante. Come l’incendio che distrugge il bosco, che poi con gli anni ricresce, ogni tanto il genere umano si ammazza un po’, e poi ricresce. L’anormalità vera sono i settant’anni di pace da Hiroshima a oggi – pace peraltro piuttosto relativa persino in Europa, basta citofonare alla Jugoslavia – e non il fatto che il genere umano ogni tanto si massacri da solo.

A Hiroshima si va, si riflette, ci si commuove; il Parco della Pace e il relativo museo sono pieni di angoli commoventi, a partire dalle gru di carta in memoria di Sadako, una di quelle storie di pura e straziante giapponesitudine (determinazione e sfiga, sfiga e determinazione) che, se non ci fosse stata la sacralità di una tragedia vissuta direttamente, sarebbe senz’altro diventata un cartone animato meisaku della Nippon Animation. Tutti lasciano il Parco della Pace giurando che qualcosa del genere non succederà mai più. Tutti sanno di mentire.

E’ bello e rassicurante, infatti, pensare che i settant’anni di pace di cui sopra siano giunti per via di una maturazione collettiva dell’umanità, grazie al monito e al sacrificio non vano di Hiroshima e di Nagasaki. Più probabilmente, i settant’anni di pace sono giunti perché c’erano in giro troppe armi, non perché ce ne fossero poche; perché sulle armi si reggeva un ordine mondiale rigidissimo (su questo, citofonare Aldo Moro) e non perché il militarismo e la voglia di supremazia armata fossero retaggi del passato.

E infatti, da quando è finita la guerra fredda c’è molta meno pace di prima, e le nostre stesse società scricchiolano sotto i colpi del libero e bello disordine mondiale; fino a quando un’arma di distruzione di massa non finirà in mano a un pazzo qualsiasi, e chissà dove sarà l’inizio della prossima carneficina. Spiace per chi ci finirà in mezzo, ma alla fine Hiroshima rassicura in un’altra direzione; che per quanto ci si impegni, estirpare completamente l’umanità dall’ecosistema planetario è molto più difficile di quello che sembra.

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mercoledì 25 Giugno 2014, 10:35

Cara Paris Hilton

Cara Paris Hilton,

sono in uno dei tuoi albergoni non per mia scelta, e bisogna ammettere che è un bell’albergone, a posto con tutti gli standard internazionali che ci si aspettano da esso, anche se in qualche parte è piuttosto consumato.

Certo, già non ero completamente contento per l’attesa al check-in la prima sera, e poi esprimo il mio disappunto dopo che la stanza che mi avete dato, pur molto bella, si trova in un corridoio il cui altro lato (tre o quattro stanze) è interamente occupato da una tremenda famiglia che viene da qualche paese arabo non meglio precisato. La famiglia è costituita dal maschio, un tizio trentenne tamarrissimo, pieno di gel e camicie eleganti e di altri modi di dimostrare che i soldi gli escono fin dal sedere; da tre o quattro mogli, che tendenzialmente non escono mai dalla stanza se non completamente coperte dal burqa e che non possono uscire da sole né, a maggior ragione, prendere l’ascensore insieme a me (piuttosto mi fanno andare da solo); da un paio di suocere a caso, principalmente dirette al controllo dei figli; e da circa centodiciotto bambini e bambine tra i due e gli otto anni, che passano tutto il tempo a correre nel corridoio, picchiare sulle porte, rotolarsi per terra, tirarsi addosso vari iPhone e iPad (ne hanno almeno un paio a testa), riempire il tappeto di immondizia tirata a caso (anche dal maschio alfa e dai suoi residui di cibo in camera, a dire il vero), a urlare le proprie emozioni in una lingua incomprensibile e, in generale, a tagliare con energia le radici cristiane dell’Europa. Dai tuoi clienti mi aspetterei un certo standard di comportamento, tanto più a Londra, per cui scusami se prendo un po’ sul personale la situazione, a cui cerco di rimediare mettendo ad alto volume la televisione sulle partite del Mondiale, in modo che i bambini imparino almeno un po’ di radici cristiane dell’Europa.

(In generale, fare un giro nei tuoi alberghi è molto istruttivo per capire che spesso alla ricchezza non corrisponde l’intelligenza, anzi: spesso più sono ricchi e più sono scimuniti. Ieri in ascensore c’era una tipa tutta imbellettata che sfoggiava dei tacchi di mezzo metro; quando l’ascensore è partito lei ha perso l’equilibrio, è caduta da sola all’indietro, ha fatto un grido e poi ha detto a voce alta, parlando a se stessa, “che spavento, pensavo che qualcuno mi avesse aggredita”.)

Comunque, non era di questo che volevo parlarti. E’ che facendo la doccia ho utilizzato il microscopico boccettino di “body wash” che mi hai cortesemente messo a disposizione (cortesemente una mazza, con quel che deve costare questa stanza: potevi almeno darmene due). Va bene, il contenuto ha un buon profumo di limone, però ha un problema: è pieno di microscopici pezzettini di plastica dura. Mi sono documentato su Internet e pare che non sia un caso, anzi, si tratti dell’ultimo ritrovato dell’industria cosmetica, un settore mai abbastanza ringraziato per il suo innegabile contributo allo sviluppo della scienza umana, per attribuire ai propri prodotti nuove e miracolose proprietà curative. Parrebbe dunque che i pezzetti di plastica siano concepiti per grattarmi la pelle mentre mi lavo, e questo dovrebbe farmi stare meglio.

Ora, questa roba mi pare piuttosto improbabile di suo, e devo anzi dirti che mi fa un po’ senso, e che non trovo affatto piacevole cospargermi il corpo di pezzettini di plastica dura e di infilarmeli un po’ dappertutto, specialmente mentre mi lavo le parti più intime, là dove non batte mai il sole. Ma soprattutto, dopo che questi pezzettini di plastica sono stati per qualche secondo sulla mia pelle e hanno esercitato una funzione curativa più o meno pari a quella che otterrei se prendessi uno dei miei vecchi vinili e me lo frantumassi in testa, finiscono giù nello scarico e di lì nelle acque di tutto il pianeta.

E francamente non vedo proprio il motivo di spargere dei pezzettini microscopici di plastica, quasi impossibili da filtrare e da smaltire, nell’acqua di tutto il pianeta, solo perché qualche marchettaro ha deciso che così avrebbe potuto far sembrare più figo lo stesso sapone liquido al limone che trovo al discount per un euro al bottiglione.

Quindi, ti prego, capisco le tue esigenze di mantenere la pretenziosità dei tuoi alberghi, di modo che tutte le famiglie arabe piene di soldi continuino a frequentarli, ma almeno evita di inquinare mezzo pianeta per una simile stronzata.

Ciao,

P.S. E per favore fai una figlia e chiamala London, così la prossima volta posso scrivere alla città giusta.

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domenica 22 Giugno 2014, 11:42

L’aria del sabato sera

Grazie a te, compagnia del giro, che oltre a gestire da una decina d’anni il punto info e altre cose, hai deciso di offrirci il party del sabato sera. Però non è bello organizzare il party dando a ognuno cinque bevande offerte, ovviamente alcooliche, dicendo che poi ci sarà lots of food, e poi finisce che esce un vassoietto di stuzzichini ogni venti minuti, e la gente già ebbra prende d’assalto la povera cameriera bionda. Lei esce con un vassoio di pollo fritto e la assaltiamo a decine, come se non avessimo mangiato da mesi, carichi di birre in corpo e di chiacchiericcio d’occasione… Sarò sempre grato a chi mi ha offerto tre birre, però diciamocelo, questo è the most foodless lots-of-food party, giusto due patate fritte e due polli fritti e qualche samosa e poi ogni tanto un vassoio di verdure a bastoncino, che interessa giusto agli indiani.

Si socializza, però, in questo pub elegante sulla Portobello Road (ma il mercato è finito da un po’), in mezzo alla parte fighettamente, miliardariamente residenziale di Notting Hill. Si socializza e già che ci siamo si guarda la partita, che è Germania-Ghana: perché per ogni mondiale c’è un meeting di ICANN, il 2002 in Romania, il 2006 in Marocco, il 2010 in Belgio e adesso l’Inghilterra. Stavolta, i tedeschi sono talmente popolari che quando segna il Ghana è un tripudio, un mix di brasiliani cinesi americani e finnici che fanno il trenino in mezzo al pub; poi pareggia Klose, e festeggiano solo loro. La ragazza tedesca – la conosco da dieci anni, è una brava persona, era nel comitato che presiedevo, lavora nel sindacato dei verdi, era consigliere comunale a Francoforte e ovviamente mi chiede se ho parlato con Albrecht – ancora ce l’ha con me perchè nel 2006, dopo la semifinale, in un momento di gruppo un po’ teso, le mandai un sms cattivo in cui la sfottevo a morte. Otto anni dopo posso ancora scusarmi, ma lei, chissà perché, non se l’è dimenticato; penso che sotto sotto sia questo il motivo per cui i verdi tedeschi cercano di ammazzarci con l’euro.

Dopo un paio d’ore, la terza birra media gratis a stomaco sostanzialmente vuoto mi mette un po’ in difficoltà, anche se dissimulo bene, perchè tutti gli altri sono nella stessa situazione ed è un fiorire di saluti e pacche sulle spalle. Però, salutati un po’ tutti compreso il pissoir, alla fine li lascio lì e vago per il quartiere elegante cercando la fermata del 23, che mi riporti verso l’albergo. Attorno è pieno di buzzicone seminude molto inglesi, e di maschi allupati e alticci: l’aria del sabato sera a Londra è la stessa da quando ero bambino. Alla fine il bus arriva, e sono sufficientemente pronto da strisciare l’ostrica e sapere dove sto andando. Scendo alla fermata prima: non sono pieno se non di liquidi, e per ripristinare la parità ci vuole del cibo.

Così entro nel bugigattolo all’angolo e ordino codnchips, p’leese: sontuosamente untuoso, le patate grosse e carnose, e il merluzzo lurido al punto giusto. Sono i dieci euro meglio spesi dell’anno, non come a pranzo che mi hanno portato a mangiare nello “sports bar” dell’albergone pretenzioso, e per un hamburger e una birra ho speso di tasca mia 22 sterline, no dico 22 sterline, che è tutto il giorno che me ne dolgo. Rientro in albergo con la mia scatoletta di cartone unta e quadrata, assaporando la ragione del fritto: adesso la mia stanza puzzerà d’olio per tutto il soggiorno, ma tre birre valevano la pena, se il contrappeso era questo.

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sabato 21 Giugno 2014, 01:33

Jessica

È tardi, troppo tardi e il fuso mi ha già rubato un’ora, per arrivare in questo immenso albergone della periferia del centro di Londra. Gli uomini d’affari ci arrivano, ça va sans dire, in taxi; o se proprio ci si mettono d’impegno, con la metropolitana. Solo gli avventurieri taccagni come me possono arrivarci col pullman, dalla stazione di San Pancrazio, in una notte di ragazzini urlanti che tornano in qualche periferia nera molto più a sud.

La stazione di Santa Maria del Rio, un sogno confettoso di guglie olandesi e canopie tardo-vittoriane, è il segnale giusto per scendere dall’autobus; un paio di isolati in mezzo a Beirut, ignorando una fila di fumatori di narghilè schierati comodi sulla strada di Edgware, e si arriva in questo torreggiante e pretenzioso albergo anni ’80, che finge con indifferenza di non trovarsi ora nel bel mezzo del Londonistan. Che poi, trovarsi nel bel mezzo del Londonistan ha anche i suoi bei vantaggi, dall’abbondanza di finte imitazioni halal del colonnello Sanders – il santo protettore dei mangiatori di pollo fritto unto e bisunto, rigorosamente morto tra atroci sofferenze bestemmiando tutto il pantheon dell’animalismo contemporaneo, ma beatificando chi ha poche sterline in tasca e fame a mezzanotte – fino a un’ampia scelta di kebab e di mezze, a patto di saperli ordinare in arabo. Ma certo, se vuoi fare l’albergone da congressi da centocinquanta euro a notte per americani spaventevoli, la collocazione Rock the Casbah non è il meglio che potevi scegliere.

E’ per questo che mi aspetterei almeno di non dover fare coda al check-in, almeno a quest’ora tarda, e invece no: e coda sia. Almeno non pago io, del resto se pagassi io non pagherei voi, sarei andato in un ostello o in un albergo più normale ma meno pretenzioso, magari pure quello nel Londonistan, ma almeno in quello pieno di ottimi ristoranti pakistani, tutto dall’altra parte della città. Ma mi hanno invitato per una rimpatriata, per la cinquantesima conferenza di ICANN, e pagano tutto loro, e puoi dire di no a una conferenza pagata a Londra, in un albergone pretenzioso per americani spaventevoli? No, non puoi, e allora anche la coda si può accettare, tanto sono fradicio di sudore e mezzo addormentato.

E poi viene il mio turno, e porgo il passaporto alla gentile signorina che mi invita per il mio turno. “Hello”, dico un po’ assonnato. Lei guarda me, guarda il passaporto, guarda me e risponde: “Buonasera”, con un accento che pare pure un po’ romano. In effetti la targhetta dice “Jessica”, e sotto, più in piccolo, “Italiano”. “Sa, ho visto il passaporto”, mi dice lei. “Ah… italiana”, rispondo, e poi la guardo e aggiungo: “…scappata?” Lei mi guarda con uno sguardo che dice già tutto, non risponde, deve essere professionale (in italiano, “devi essere professionale” è il modo pulito per dire “stai zitto e fatti sfruttare”).

Del resto, a Londra io ho una cugina che ci vive adesso, un cugino che ci ha vissuto fino a pochi anni fa, diversi amici passati e rimasti o andati ancora altrove, e una voglia di viverci sin da quando ci son venuto per la prima volta, a undici anni. Di viverci, di scapparci, come ci scappano tutti, tutti quelli che possono e anche molti di quelli che non possono.

Perché adesso chi scappa si mimetizza, ma tra dieci o vent’anni la prossima frontiera di Londra sarà l’Italistan, con meno burqa e più crocifissi, meno kebab e più pizza, meno ironia e più, almeno per noi, amarezza.

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lunedì 27 Agosto 2012, 15:35

Bratislava o Marte

L’Europa si divide in due: quelli che da piccoli guardavano Tom e Jerry e quelli che da piccoli guardavano Nu pogodi. Bratislava appartiene alla seconda categoria e, a differenza di Praga, è sufficientemente fuori dalle rotte turistiche e finanziarie principali da mostrare ancora evidenti, in modo affascinante, le contraddizioni del suo passato. Da una parte è una delle zone a maggior crescita economica dell’Europa orientale, con un centro storico asburgico, restaurato e pieno di locali e di vita, e con una infilata di palazzi di vetro più centro commerciale sulle rive del Danubio; dall’altra, basta aprire gli occhi e allargare un po’ il raggio per ritrovarsi d’improvviso in quegli angoli alieni tipici delle città ex comuniste.

Chi arriva, come noi, a piedi dalla stazione ferroviaria comincia salendo sul castello dal lato della terra, su una ripida salita che passa davanti al monumento di Raoul Wallenberg. Il castello è carino, in stile rinascimentale, ma non è molto grosso ed è abbastanza vuoto; fu bruciato nelle guerre di Napoleone e rimase lì in rovine fin che non nacque la Cecoslovacchia nel 1918.

Da allora cominciarono a pensare di ricostruirlo, ma fino al secondo dopoguerra non ci fu il modo. Ci pensarono i comunisti, dando l’incarico a un noto professore di architettura; peccato che il progetto si sia poi fermato dopo che egli fu arrestato per “pubblica diffamazione di una potenza amica” (chissà quale). Dagli anni ’60 in poi i lavori vanno avanti, ma a tutt’oggi il castello è spoglio e incompleto: ci si sale soprattutto per guardare dall’alto la città.

Alla fine della salita, entrati nelle mura, si spunta dal piazzale del castello e la vista appare improvvisa, inattesa e per un attimo meravigliosa: il bel Danubio verde scorre là sotto in primo piano. E’ solo alzando lo sguardo che progressivamente si rimane sempre più perplessi, come se si capisse solo allora che le cose non sono come dovrebbero essere. Avete presente il finale del Pianeta delle scimmie? Ecco, la rivelazione è simile ma opposta: pensavate di essere sulla Terra, e invece questa non è la Terra.

Difatti, dall’altra parte del fiume, oltre gli alberi del parco sulla riva, si notano alcuni palazzi di case popolari, dei parallelepipedi perfetti di cemento appena risegati dalle casette degli impianti sui tetti piatti. E poi, dietro di loro, ce ne sono altri uguali. E poi dietro ancora. E anche di fianco, su tutto il fronte della città. E così via, a perdita d’occhio, fino a svanire nella foschia dell’orizzonte. E’ come se avessero preso un casermone alto e largo, il peggio delle periferie urbane, e l’avessero ricopiato e incollato digitalmente nella vista, ruotandolo appena un po’ di qua e un po’ di là, dozzine di volte; digitalmente, perché nessuno in natura potrebbe ripetere così pervicacemente lo stesso identico enorme oggetto.

Per completare la vista, proprio davanti al tutto c’è un ufo di cemento, sospeso in aria sopra i tetti dei palazzi; un disco volante come quelli dei film anni ’50. In realtà è un ristorante panoramico per la nomenklatura del tempo che fu, attaccato in cima all’unico enorme pilone che sostiene il Ponte Nuovo, collegando la città umana dove siete voi con la città aliena dall’altra parte del fiume.

Il sobborgo di Petrzalka doveva essere il trionfo dell’uomo nuovo socialista; tutti dovevano vivere nelle stesse case (prefabbricate col cemento) e diventare un collettivo senza volto. Oggi gli abitanti cercano di dare un’anima a questi casermoni dipingendoli a colori vivaci, chi rosso, chi viola, chi arancio. Almeno, così li si distingue.

In generale, Bratislava sembra una città che sta lentamente tornando alla vita; i palazzi vengono a uno a uno restaurati e resi nuovi e lucenti come un pezzo di Germania, con tanto di Audi e Mercedes parcheggiate davanti. Il problema è che i palazzi ripuliti sono solo una parte, concentrati nelle strade principali del centro storico, e gli altri vanno dal degradato al pienamente fatiscente. Anche in pieno centro ci sono palazzi coi muri a pezzi, i vetri rotti, le pareti puntellate (c’erano anche a Torino, ma gli ultimi sono spariti vent’anni fa). Basta uscire un po’ dal centro perché il degrado si moltiplichi: i marciapiedi sono pieni di buche, le aiuole una savana, le fermate dell’autobus arrugginite e sfondate. Il Ponte Vecchio è sbarrato e oscillante, con un vecchio binario ferroviario il cui accesso è coperto dalle erbacce e protetto da reti sfondate che nessuno si preoccupa di tirare su; ed è comunque in uso pedonale. Oltre il ponte, c’è uno stadio in abbandono.

Le ferite saranno dure da risanare, in certi casi impossibili. Per esempio, dato che ai comunisti la religione non piace, il regime decise che il tracciato migliore per la tangenziale era proprio sul sagrato del Duomo. Per questo, la cattedrale oggi si affaccia su uno svincolo autostradale di cemento cadente, con le auto che sfrecciano a un metro dalla facciata.

Si percepisce che gli slovacchi non hanno nessuna voglia di restaurare il proprio patrimonio post-1918, e che forse sarebbero più contenti se potesse crollare e basta. Appena fuori dal centro c’è una meravigliosa chiesa Jugendstil di colore azzurro, tutta restaurata, ridipinta e luccicante. Di fronte c’è un tronfio palazzone di otto piani in stile aulico: è sporco, semiabbandonato, con i vetri rotti e le erbacce che crescono. Sotto gli immancabili fregi posti accanto all’ingresso principale qualcuno ha commentato con lo spray “Mega Death”.

Ma il punto più surreale è piazza della Libertà, un grande quadrato subito fuori dal centro circondato sui lati dagli edifici dei ministeri. La bruttezza degradabile e la monumentale ingestibilità dello stile architettonico dell’immediato dopoguerra (di cui a noi resta il Palazzo del Lavoro) qui si esprime al meglio. Al centro c’è un giardino che, nonostante il verde, dà subito l’impressione di un inospitale deserto di pietra, un tempo luogo dei fasti di qualche civiltà aliena e ora abbandonato per i secoli dei secoli. L’arredo urbano, tutto scrostato e arrugginito, sembra uscito dal Solaris di Tarkovskij; al centro c’è una gigantesca fontana a forma di fiore, bordata di travertino, in cui l’acqua sembra non scorrere più da tempo immemorabile. Come sempre, il cemento e la pietra sono in frantumi e nessuno ha voglia di sistemarli.

Oltre il quadrato della piazza, appare come una rivelazione l’ultimo enigma architettonico: la grande piramide rovesciata della Radio Slovacca. Penso che la sua forma totalmente innaturale volesse simboleggiare, oltre alla solita supremazia della scienza umana sulla natura, l’emissione delle onde che si allargano verso il cielo per raccontare al mondo i trionfi del comunismo cecoslovacco. In verità, ora la base è piena di graffiti e di erbacce, l’incuria è totale e l’unica percezione che può avere un essere umano davanti a un simile oggetto è “qui c’è qualcosa di profondamente sbagliato”.

Di fronte hanno costruito un grattacielo di vetro con la sede della Banca Nazionale Slovacca, con tanto di mostre sull’euro e monumenti alla moneta, probabilmente sperando di far passare inosservata la piramide grazie alla presenza a fianco di un edificio più grosso e moderno. Alla fine, però, nonostante gli slovacchi comprensibilmente facciano di tutto per occultarli e per ripresentarsi al mondo come la nazione asburgica che sono stati per mille anni, i residui comunisti di Bratislava sono un monito interessante: i segni di una cultura tragica rimasti nella pietra.

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domenica 4 Settembre 2011, 19:31

Guidare negli Stati Uniti (5) – Fare benzina

Lo so che pensate che gli americani, in materia di auto, siano stupidi; tutti ci siamo chiesti che cosa li spinga a comprare delle auto inutilmente grosse e pesanti, che consumano come un carro armato. E’ davvero impressionante osservare le auto per le strade americane; se nelle città si trovano generalmente auto come le nostre, solo più lunghe e pesanti, fuori città quattro auto su cinque sono SUV o pickup, alcuni talmente grossi da avere sei ruote (quattro sullo stesso asse posteriore) per aumentare la portata. Anche i camper sono giganteschi, grossi spesso come i nostri TIR – e più di una volta mi è capitato di incrociare un camper con attaccata dietro, al traino… un’auto per le piccole gite!

Va detto che negli Stati Uniti, a parte la costa est, i veicoli fuoristrada hanno un certo senso. Il territorio è molto meno densamente abitato che da noi, e vi sono ovunque grandi estensioni di praterie, foreste, montagne e deserti in cui le strade sono spesso sterrate, anche in posti molto turistici. In più, come abbiamo detto, gli americani sono pessimi guidatori, piuttosto paurosi e comunque abituati ad avere strade lisce e curate, dunque spaventati quando non lo sono.

Se non ci credete, leggete le recensioni della Monument Valley su TripAdvisor: tutti gli americani si lamentano che quei maledetti indiani Navajo – la cui considerazione da parte dell’americano medio è simile a quella che l’italiano medio ha per i rom – essendo i proprietari del parco non riparano la strada, che è “impercorribile” perché la sua prima parte, giù per una collina con un paio di tornanti, viene lasciata sterrata e piena di enormi buche, in modo da poterla percorrere solo coi veicoli speciali dei tour a pagamento.

Ora, io mi ci sono avventurato con la mia macchinina giapponese a noleggio e francamente le buche non sono peggio di quelle di certe strade di Torino, pur col fondo in terra battuta invece che in asfalto; se poi parliamo di una qualsiasi strada sterrata o ghiaiosa delle nostre colline e montagne, piena di gradini, rocce che spuntano, fossi… rispetto a quelle la Monument Valley è un’autostrada.

Insomma, l’americano ha comunque dei motivi per dotarsi di un veicolo 4×4 con ruote alte, in parte perché è mediamente più pauroso a guidare di noi, e in parte perché si trova più spesso su strade non asfaltate, e anche in mezzo a piene improvvise, tornado, nevicate di tre metri… anche il tempo americano è un po’ diverso. Ma non lo farebbe se non ci fosse un elemento fondamentale: il prezzo della benzina.

Noi avevamo i soldi abbastanza contati, e dunque io ogni sera consultavo il mitico Gasbuddy.com (è un peccato che la sua versione italiana non prenda troppo piede) per scoprire dove trovare benzina a buon prezzo; alla fine, ho pagato il carburante prezzi variabili dai 3,359 ai 3,999 dollari a gallone, ovvero 60-70 centesimi di euro al litro, meno della metà che da noi. (Certo, se fate l’errore di arrivare senza benzina nella Death Valley, dove ci sono solo due distributori nel raggio di oltre cento chilometri, preparatevi a pagarla ben oltre cinque dollari al gallone… il mercato non perdona.) Ma gli americani sono comunque furiosi perché la benzina è diventata mostruosamente cara: rispetto a due anni fa è quasi raddoppiata! Aggiungeteci che buona parte del petrolio mondiale sta sotto il loro terreno, e capite come mai non si siano mai fatti problemi a consumarlo; ancora quest’anno, io sono riuscito a percorrere quasi 7000 chilometri con circa 400 euro di benzina.

Anche fare benzina, in America, ha delle particolarità che bisogna sapere, sin da quando entrate in un distributore. Ricordate infatti che le pompe americane sono molto più corte delle nostre, per cui è obbligatorio che vi fermiate con il tappo del serbatoio dal lato della pompa e proprio davanti ad essa. Non fate come me nel 2007, che mi sono messo davanti alla pompa, ho fatto accreditare 40 dollari, e poi mi sono accorto che il serbatoio era dal lato sbagliato e ho dovuto fare manovra e inversione in mezzo al distributore con un bel macchinone americano, tra gli altri che facevano benzina, facendo a portellate con un coreano per evitare che si piazzasse lui alla mia pompa e mi fregasse i 40 dollari!

Infatti, in qualsiasi modo si faccia benzina, negli Stati Uniti non esiste che il serbatoio venga riempito prima di avere pagato! Il modo più comune di fare benzina è in contanti, in biglietti da massimo 20 dollari. Negli Stati Uniti solo i papponi e gli spacciatori usano i biglietti di taglio superiore a 20, per cui evitate di farveli rifilare dalla vostra banca; il modo migliore per procurarsi i dollari è avere un bancomat italiano con il logo Cirrus/Maestro e prelevarli sul posto, anche se il miglior tasso di cambio lo avrete pagando tutto con carta di credito.

Comunque, dopo aver parcheggiato la macchina davanti alla pompa, dovete scendere e dare i soldi al cassiere; se volete fare il pieno, fate una stima di quanta benzina ci può stare e arrotondate la cifra ai 10-20 dollari successivi. Il benzinaio, negli Stati Uniti, non esiste più da un pezzo, e le pompe sono self-service, comandate a distanza da un cassiere che sta dentro a un gabbiotto blindato, dialogando con voi tramite un microfono e scambiando i soldi tramite un cassetto mobile; in alternativa, il cassiere sta dentro l’immancabile supermercatino aperto 24 ore su 24, che è anche un’ottima risorsa per bibite e cibo di emergenza, e in qualche caso sta persino alla cassa di un adiacente fast food. Mentre gli date i soldi, ditegli il numero della pompa; il cassiere a quel punto abiliterà la vostra pompa ad erogare fino alla cifra che gli avete dato.

A questo punto potete ritornare alla pompa e fare benzina; per prima cosa dovete selezionare quale carburante volete, premendo uno dei pulsanti per scegliere tra tre diversi gusti di benzina (regular, medium e premium), che differiscono per potenza e additivi vari, o eventualmente il diesel, che però è piuttosto raro e costa pure di più; poi potete estrarre la pistola e rifornire. Io sono rimasto fregato (due volte!) da un vecchio tipo di pompa, che non ha il pulsante per selezionare il tipo di benzina; in queste pompe bisogna prendere la pistola e poi sollevare verso l’alto la base su cui essa normalmente sta appoggiata. Se alla fine non ci sta tutta la benzina che avete pagato, come è normale se fate il pieno, non preoccupatevi; lasciate lì la macchina, tornate dal cassiere e chiedetegli il resto. Non preoccupatevi, anche qui, come per lo stop a quattro vie, gli americani sono abituati ad attendere con pazienza, anche se magari davanti alle pompe c’è una lunga coda.

L’unico caso diverso che ho incontrato è in Oregon, la già citata provincia profonda, in cui una legge dello Stato vieta agli automobilisti di farsi benzina da soli (troppo tonti? concorrenza sleale con i benzinai “serviti” quando esistevano ancora?). In quel caso, c’è presso le pompe un benzinaio che si fa dare i soldi (o in alternativa vi grida “pay inside” per mandarvi dal cassiere dentro il gabbiotto) e poi vi rifornisce.

Vi stupirete forse che negli Stati Uniti non esistano come da noi i distributori automatici che leggono direttamente le banconote; in realtà non esiste praticamente il concetto di lettore automatico di banconote, perché tutti hanno in tasca una carta di credito e dunque è molto più comodo svolgere le transazioni automatiche con quella. Esistono solo le macchinette venditrici di bibite e cibarie a moneta; l’unica macchinetta che prendesse banconote che io abbia visto era quella per i biglietti del tram di Phoenix, che nell’ottica americana è un servizio per barboni e clandestini e dunque può anche darsi che una volta ogni tanto si presenti qualcuno con delle banconote, anche perché se avesse in tasca una carta di credito sarebbe invece andato a noleggiare un’auto.

Comunque, un certo numero di distributori dispone del “pay at pump”, che vi permette di pagare alla pompa, senza dover andare dal cassiere, con una carta di credito o di debito. Il problema è che spesso la procedura vi richiede di inserire il PIN o peggio ancora il vostro ZIP code (codice postale), e difficilmente funziona con una carta italiana: dunque la benzina è una delle pochissime cose che ho sempre pagato in contanti. Se il sistema americano vi pare strano, c’è di peggio; in Islanda esistono praticamente solo distributori automatici non presidiati che accettano solo la carta di credito richiedendo il PIN… niente carta o niente PIN uguale niente benzina.

Negli Stati Uniti le distanze sono enormi; non sottovalutate il problema della benzina o rimarrete senza, magari a cinquanta chilometri dalla pompa più vicina!

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sabato 3 Settembre 2011, 12:14

Guidare negli Stati Uniti (4) – Segnali e precedenze

Le puntate precedenti sono state pubblicate il 28, 29 e 30 agosto.

I segnali americani non vi sconvolgeranno più di tanto, perché sono piuttosto semplici e, a patto di conoscere bene l’inglese, facilmente comprensibili. E’ solo dopo un po’ di tempo che vi accorgerete che sono piuttosto diversi dai nostri.

Girando per l’Europa, i cartelli non cambiano; al massimo sono diversi i tipi di carattere e i dettagli dei disegni. Negli Stati Uniti, invece, dei nostri segnali ne sopravvivono molto pochi; in sostanza, lo stop, il dare la precedenza, il senso unico e il senso vietato. Esistono poi i limiti di velocità, che sono un rettangolo con scritto “SPEED LIMIT” e la cifra, e i segnali di pericolo, che però non sono triangolari, ma gialli e romboidali; alcuni hanno al centro un disegno che illustra il tipo di pericolo, diverso dai nostri ma non troppo da non essere riconoscibile, ma molti hanno semplicemente una scritta. Non esistono invece i segnali di direzione obbligatoria, se non il divieto di svolta (quello rotondo con la direzione della curva sbarrata, che da noi è stato abolito una dozzina di anni fa).

La scarsità di segnali grafici è il risultato di una scelta culturale radicalmente opposta alla nostra. Da noi, i segnali sono “muti”, codificati appunto secondo uno standard grafico che richiede di essere studiato quando si prende la patente; senza tale studio, non si avrebbe modo di sapere cosa vuol dire quando si trova il triangolo rovesciato della precedenza o il cerchio sbarrato del senso vietato. Al contrario, negli Stati Uniti la logica è che il cartello deve essere comprensibile anche a chi non ha studiato o non si ricorda le lezioni, all’unica condizione che parli la lingua nazionale (l’inglese).

Per questo motivo, anche i pochi segnali grafici sono sottotitolati; su tutti i segnali di senso vietato c’è scritto “DO NOT” sopra e “ENTER” sotto la barra bianca; su tutti i triangoli per dare la precedenza c’è scritto “YIELD”, e peraltro sono molto più rari dello “STOP” ottagonale, che è ubiquo; sulle frecce oblunghe del senso unico c’è scritto “ONE WAY”. Come detto, i segnali di pericolo sono più spesso scritti che disegnati; dove noi avremmo il cartello triangolare col disegno del dosso, trovate un rombo con scritto “BUMP” o “DIP”; alle strettoie c’è scritto “ROAD NARROWS”; dove la strada è dissestata c’è scritto “ROUGH ROAD” o “LOOSE GRAVEL”.

I cartelli di direzione illustrano bene una delle caratteristiche della segnaletica americana, quella di essere più scarsa della nostra. Ad ogni incrocio tra strade a senso unico, noi abbiamo solitamente un cartello di preavviso delle direzioni consentite (tondo blu), spesso ripetuto su entrambi i lati della strada, poi all’incrocio un segnale rettangolare orizzontale di senso unico all’inizio delle direzioni consentite, e un segnale di senso vietato in quelle non consentite. Troppa grazia! A San Francisco, in molti incroci dentro i quartieri l’unica indicazione del fatto che la traversa è a senso unico è un segnale rettangolare di “ONE WAY”, posizionato però dal lato opposto rispetto a noi, cioè quello in cui non si può andare. I segnali di senso vietato sono usati con parsimonia e soprattutto in situazioni “frontali”, cioè in cui c’è del traffico che arriva di fronte e altrimenti proseguirebbe contromano (in generale, ci sono meno strade a senso unico che da noi). In compenso, negli incroci più trafficati – dove peraltro si capisce di non poter svoltare in una direzione semplicemente dall’assenza della relativa corsia – spesso c’è una scritta “NO LEFT TURN” o “NO RIGHT TURN” che ribadisce il concetto.

Anche la precedenza è interpretata in maniera piuttosto diversa. E’ piuttosto raro che si arrivi a un incrocio senza che vi siano segnali di precedenza, proprio perché il concetto di “precedenza a destra” è un’altra cosa che bisogna sapere e che non è desumibile semplicemente leggendo i cartelli. Ci sono mediamente più semafori, almeno nelle città; molte città sono costituite da grandi isolati (blocks) delimitati da strade che hanno un semaforo a ogni singolo incrocio, e al loro interno hanno soltanto stradine residenziali, spesso senza uscita, che si immettono su quella grande con uno stop. (Sono, in sostanza, costruite a isole; uno naviga nel mare aperto della città fino all’ingresso della sua isola, che nei quartieri ricchi può avere anche un cancello e una guardia, e poi vi entra per cercare la singola casa; questo riflette una società in cui ricchi e poveri convivono gomito a gomito, ma stando ben attenti a far finta di non conoscersi.)

E poi, c’è la grande invenzione americana dello “stop a quattro vie”, che è quasi onnipresente all’interno delle singole isole, ossia nelle zone residenziali dove il traffico non giustifica il mettere un semaforo ad ogni incrocio. Alla mia prima visita negli Stati Uniti rimasi completamente basito, arrivando a un incrocio e trovando il cartello ottagonale di stop messo su tutte e quattro le direzioni di accesso… che vuol dire?

Noi siamo abituati a considerare il segnale di stop come un dare la precedenza un po’ più autoritario; non solo devi dare la precedenza, ma devi anche fermarti perché l’incrocio è pericoloso. Negli Stati Uniti, invece, lo stop indica di fermarsi ma non necessariamente di dare la precedenza; la precedenza va data solo se la strada da cui arrivano le altre auto non ha essa stessa uno stop. Se invece anche loro hanno lo stop – cosa che si può dedurre perché guardando si vede l’inconfondibile forma ottagonale del cartello, anche se a rovescio, e perché generalmente sotto il tuo stesso stop c’è scritto “4-WAY” o “ALL-WAY” – conta l’ordine di arrivo sulla riga bianca tracciata sull’asfalto; si occupa l’incrocio uno per volta (due solo in casi eccezionali, se le due traiettorie non si sfiorano nemmeno) e si aspetta che chi passa sia uscito dall’incrocio per passare al successivo veicolo in ordine di arrivo.

In realtà, è un metodo molto intelligente; è sicuro, perché tutti si devono fermare e nessuno abborda l’incrocio ad alta velocità pensando di avere diritto di passaggio; in caso di traffico, dato che conta il momento in cui il singolo veicolo arriva sulla riga bianca (e non quello in cui si accoda), si passa a turno uno per volta da ciascuna delle quattro vie, evitando quelle situazioni in cui immettersi dalla strada che non ha precedenza è difficoltoso e si forma una lunga coda; se devi girare a sinistra, non stai lì ad attendere una vita che siano passati tutti, ma passi anche tu secondo ordine. Ha l’unico problema che è un metodo lento, perché ci si deve fermare, perché passa un veicolo per volta e perché ogni volta c’è un attimo di suspence da western per capire chi è il prossimo che passa, cosa che in incroci un po’ grossi può non essere immediatamente evidente a tutti. Noi italiani, fidatevi, finiamo per passare velocemente perché siamo abituati a buttarci in mezzo al traffico per riuscire ad immetterci, il che ci dota di riflessi molto migliori di quelli degli americani.

In generale, gli americani hanno una concezione dello spaziotempo al volante molto diversa dalla nostra. Una volta mi sono trovato a Los Angeles su un vialone, sulla corsia più a sinistra di tre, improvvisamente bloccato dietro a un tizio fermo prima di un incrocio con la freccia a sinistra, accanto allo spartitraffico. L’incrocio era senza semaforo, vuoto, e non arrivava nessuno né nel senso opposto, né dalla strada laterale. Ho cominciato a bestemmiare pensando che il tizio avesse accostato lì, nel bel mezzo della carreggiata, per farsi i fatti propri, o magari per aspettare qualcuno – come sarebbe stato da noi. Ho aspettato che passasse il traffico e poi ho cambiato corsia per aggirarlo, bestemmiando… e ho capito.

In pratica, il tizio doveva girare a sinistra, ed è vero che non c’erano macchine in vista se non nella nostra direzione; ma là dall’altra parte, oltre la siepe, oltre le quattro corsie in direzione opposta, oltre la fila di auto parcheggiate, sul bordo del marciapiede c’era un pedone che sembrava voler attraversare sulle strisce la strada laterale in cui lui voleva svoltare. E dunque, lui non poteva occupare l’incrocio fino a che tutto quello che doveva passare con precedenza, compreso il pedone sulle strisce, si fosse tolto di mezzo.

Da noi, l’auto avrebbe svoltato di corsa per non rischiare di perdere il momento di tregua sul viale nella direzione opposta, e poi, se gentile, si sarebbe fermata un po’ in mezzo tra la strada e le strisce, facendo passare il pedone; più facilmente, sarebbe passata di corsa anche sulle strisce, intimando al pedone di non muoversi. Da noi è normale attraversare in stile Frogger, per cui, se un pedone attraversa sulle strisce, le auto ferme in attesa (nel raro caso in cui si siano fermate) cominciano subito a passargli dietro o davanti, a venti centimetri dal naso o dalle spalle, non appena si è liberato un varco sufficiente. Se lo faceste là, persino a Los Angeles – città dal traffico tremendo, dove ovviamente si guida un po’ più sportivo e ho persino sentito suonare il clacson un paio di volte – sareste considerati dei probabili serial killer.

Almeno, però, avete capito come fanno a crearsi quegli ingorghi giganteschi: ottimizzando le regole per la sicurezza anziché per la velocità, la portata del sistema diminuisce. Da noi sarebbero tutti subito infuriati, ma basterebbe dotarsi di pazienza…

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martedì 30 Agosto 2011, 18:55

Guidare negli Stati Uniti (3) – La velocità

L’approccio procedurale degli americani si applica ovviamente anche ai limiti di velocità: se c’è un limite ci sarà un motivo, e dunque bisogna rispettarlo attentamente. Oddio, forse su questo si sono un po’ rilassati, e le velocità di crociera sono tipicamente di qualche miglio all’ora superiori al limite; ma non esiste che un americano sfrecci a ottanta all’ora dove il limite è dei cinquanta.

C’è inoltre un altro fattore che impedisce, anche volendo, di violare i limiti di velocità: ed è proprio il fatto che li rispettano tutti. Se anche riuscite a superare una persona che viaggia alla velocità limite, dopo breve tempo vi troverete di nuovo chiusi da un altro che viaggia alla stessa velocità… e dopo un po’ lascerete perdere. Nemmeno sulle autostrade la situazione è diversa: infatti, anche lì tutte le corsie – anche quando sono sei per senso di marcia – sono occupate da veicoli che vanno tutti alla stessa velocità, salvo qualche minima differenza.

Non esiste, come da noi, l’obbligo di tenere la destra e farsi superare, se non su tratti in salita dove i mezzi pesanti vanno più lentamente. Non esiste nemmeno il divieto di sorpasso a destra, anzi è perfettamente normale, se l’auto sulla corsia più a sinistra va qualche miglio all’ora più lentamente di voi, spostarsi su una corsia più a destra per passarla. Il punto è che tanto le differenze sono minime, dunque l’americano medio si sceglie una corsia, regola la sua velocità su quella del veicolo che gli sta davanti, attacca il cruise control – il dispositivo che mantiene costante la velocità senza bisogno di accelerare o frenare – e poi sta lì così per i successivi 500 chilometri. Se anche voi voleste sfrecciare oltre i limiti, vi trovereste molto spesso tutte le corsie occupate da veicoli che vanno più o meno alla stessa velocità, quella del limite; un vero sbarramento fisico che, dato che un sorpasso con così poca differenza di velocità richiede chilometri, vi trattiene per lungo tempo.

In realtà, durante i miei 7000 chilometri di guida, ho visto alcune auto comportarsi male e fare a zigzag per superare i limiti – tre o quattro in tutto. In compenso, dovunque sia stato, in otto diversi Stati, in città e in autostrada, nei parchi e sui monti, ho visto almeno tre o quattro pattuglie al giorno ferme a bordo strada in attesa di clienti.

Negli Stati Uniti non esiste il concetto di “autovelox” o “tutor”, insomma un sistema automatico che ti manda la multa a casa. La violazione del codice della strada, peraltro, non è una questione amministrativa ma una vera e propria infrazione penale che richiede un fermo e un processo, per quanto semplificato. Dunque, le strade sono piene di agenti acquattati e pronti a scattare dietro a chiunque superi i limiti o commetta altre infrazioni. Talvolta semplicemente ti si mettono dietro e guardano il loro tachimetro per capire a quanto vai; non esistono tutti i nostri bizantinismi di tarature dei macchinari, margini di errore e fotografie di prova, se un agente testimonia che andavi troppo veloce vuol dire che andavi troppo veloce.

A quel punto, se si mettono dietro a te e accendono i lampeggianti rossi e blu, la procedura prevede che tu accosti a bordo strada, ti fermi e attenda dentro la macchina col finestrino abbassato, mentre l’agente scende e ti raggiunge a piedi… anche in autostrada! Non devi proseguire e non devi scendere dalla macchina – entrambe le opzioni presentano significative possibilità di farti sparare addosso (sul serio).

L’agente prima controlla via radio chi sei e se la macchina è in regola, poi ti recita tutto ciò che hai violato, e se la violazione non è grave ti dà la possibilità di pagare immediatamente, in contanti o con carta di credito, e chiuderla lì; in alternativa, hai diritto a un regolare processo in tribunale, in cui l’agente che ti ha fermato sarà chiamato a testimoniare.

I limiti di velocità americani, a prima vista, appaiono devastantemente bassi, tali appunto da farti morire di sonno. In Oregon, che è l’equivalente americano della nostra provincia profonda, il massimo concesso sulle autostrade è di 65 miglia orarie (105 km/h), ma solo in pochi tratti, mentre più normalmente si scende a 60, 55 o 50 miglia; sulle statali il limite è spesso di 45 miglia (70 km/h). Gli stati più liberali o più stressati, ad esempio Arizona e California, arrivano a permettere 75 miglia orarie (120 km/h) sulle autostrade e 60-65 miglia sulle statali. In ogni caso, in qualsiasi paese o villaggetto di tre case, il limite è di 25 miglia orarie (40 km/h), che scende a 15 miglia vicino alle scuole in orario scolastico. Tenetene conto quando valutate i tempi di spostamento, perché ogni centro abitato sulla strada vi rallenterà di parecchio.

Tuttavia, bisogna dire che dopo un po’ non solo ci si abitua a queste velocità, ma ci si rende conto che effettivamente si viaggia più sicuri, e quasi non si capisce come facciamo noi ad andare sempre così veloce (peraltro l’eccezione siamo noi; basta andare in Svizzera per trovarsi in una situazione simile a quella americana). Da quando sono tornato, anche in Italia vado istintivamente più piano.

Ah, tra l’altro – non esiste, come da noi, l’idea di ripetere continuamente i segnali, di mettere dieci luci al semaforo al posto di una perché il rosso sia più evidente o di piazzare lo stesso segnale ogni 300 metri per essere sicuro che tu l’abbia visto. Il limite di velocità è scritto dopo gli incroci principali, se non lo vedi o non lo conosci sono cavoli tuoi.

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lunedì 29 Agosto 2011, 15:52

Guidare negli Stati Uniti (2) – La disciplina

Il secondo elemento fondamentale della guida americana è in realtà tipico della società americana nel suo complesso: la disciplina. Gli Stati Uniti funzionano per procedure: qualcuno ha già pianificato in anticipo tutto ciò che può succedere e definito esattamente come ci si deve comportare nei vari casi. Questo è vero sul lavoro, nella burocrazia, persino nei rapporti interpersonali (non dimenticate che al saluto si risponde “hello, how are you today?” a cui si risponde “fine, thank you”; il protocollo non prevede risposte diverse da “fine”). Ed è vero sulle strade.

Il traffico americano è dunque “microgestito”. Tutte le strade sono chiaramente divise in corsie, ognuna delle quali ha una chiara indicazione sulle direzioni permesse all’incrocio successivo. Se per caso l’incrocio ha delle caratteristiche strane che potrebbero creare pericolo, sui pali del semaforo saranno affissi cartelli con lunghe e dettagliate prescrizioni scritte di procedure aggiuntive, per esempio “DO NOT BLOCK INTERSECTION” (non occupare l’incrocio in caso di coda), “LEFT TURN YIELD ON GREEN” (se girate a sinistra col verde date la precedenza al traffico che arriva nel senso opposto) oppure “NO U TURN” (vietata inversione di marcia).

Qualsiasi situazione è prevista e pianificata: per esempio, da quando esiste Lance Armstrong, gli americani hanno cominciato ad andare in bicicletta anche fuori città. Tuttavia, un ciclista in uno dei (rari) tunnel su una statale extraurbana è un pericolo; e allora hanno cominciato a installare all’ingresso dei tunnel una luce accompagnata da un cartello giallo con scritto “WARNING – CYCLISTS IN TUNNEL WHILE FLASHING”. Quando un ciclista arriva all’ingresso della galleria, schiaccia un bottone (c’è anche un cartello più piccolo con scritto “CYCLISTS PRESS BUTTON”) e la luce comincia a lampeggiare, così gli automobilisti sanno che incontreranno il ciclista nel tunnel.

Analogamente in California, nei lunghi tratti di statale stretta e tortuosa dove non si può superare, vengono predisposte ogni tanto delle piazzole (“turnout”) dove i veicoli lenti devono fermarsi per farsi passare da quelli più veloci che sono bloccati dietro. Per ogni piazzola, di solito c’è un cartello di preavviso più lontano, un cartello che ricorda a cosa serve la piazzola, un cartello che ricorda che non fermarsi alle piazzole è reato, un cartello che ricorda che reimmettendosi dalla piazzola bisogna dare la precedenza a chi arriva, un cartello di preavviso più vicino e infine, accanto al turnout, un cartello con scritto “TURNOUT”. Più chiaro di così…

L’americano medio è abituato a seguire le procedure, perché tutto questo – oltre a rendere effettivamente più tranquilla la navigazione – gli dà un caldo senso di certezza. Lo svantaggio di tutto questo, sulle strade come nella vita, è che se per caso si verifica una situazione non prevista dalla procedura l’americano sbarella completamente. Le possibili reazioni sono due: la negazione – non è possibile che questa situazione si sia verificata, dato che non è prevista dalla procedura, dunque non è possibile risolverla in alcun modo – e il panico.

Per esempio, supponete che a un incrocio cittadino scatti per voi il verde, ma che dal lato dell’incrocio sporga di un metro il retro di un’auto che è rimasta lì in mezzo, ferma dietro a una coda nell’altra direzione. Da noi questa è una situazione normale e si risolve partendo e aggirando l’auto ferma con un piccolo spostamento di lato nella direzione opposta. Per il guidatore americano, tuttavia, questo è un caso impossibile, perché nell’incrocio c’era sicuramente un cartello “DO NOT BLOCK INTERSECTION”: e dunque, non sa cosa fare.

Non potendo negare la situazione, il che lo porterebbe a partire e a centrare la macchina che non può essere dov’è, va in panico. L’idea di spostarsi leggermente a sinistra per aggirare l’auto ferma non viene nemmeno considerata, perché non c’è nessuna procedura che la preveda; per poterlo fare, servirebbe una procedura per invadere leggermente la corsia a fianco quando è libera, o peggio, se la strada ha una sola corsia per senso di marcia, invadere leggermente la corsia in direzione opposta quando non passa nessuno – una procedura che non può esistere perchè nessun americano potrebbe mai concepire di andare contromano, nemmeno in una città deserta dopo una esplosione nucleare. Non sapendo che fare, dunque, il guidatore americano medio sta fermo.

Ora, inserite in questo sistema un guidatore italiano, abituato ad arrangiarsi nel traffico e a considerare le indicazioni stradali come “interpretabili” (quanti di noi vanno veramente a 60 orari in mezzo ai cantieri in autostrada?) o come semplici consigli di massima, quando non delle pure e semplici rotture di scatole. E’ chiaro che questa scheggia impazzita, magari pure spaesata, un po’ persa e non perfettamente in grado di comprendere le indicazioni in inglese, può creare problemi di ogni genere. Nel caso precedente, ad esempio, un italiano che si trovasse dietro all’automobilista che nonostante il verde non parte penserebbe che egli abbia appena avuto un colpo di sonno, per cui si aggrapperà al volante ruotandolo per partire di storto e riuscire ad aggirare l’americano spostandosi di corsia… scatenando ulteriore panico in tutti gli americani presenti, per via della manovra assolutamente fuori da qualsiasi procedura.

Io ho cercato di comportarmi nel modo più americano possibile, ma qualcosa mi è sfuggito: per esempio, ho imboccato una strada in mezzo alla foresta e ho fatto inversione a metà bloccando il traffico, oppure, a Seattle, sono uscito allo svincolo sbagliato e ho dovuto capire dove girare per riprendere l’autostrada nel senso opposto. In quest’ultimo caso, avendo visto all’ultimo le indicazioni per l’autostrada mentre arrivavo al semaforo, mi sono spostato lateralmente di una corsia in un punto in cui le strisce per terra tra le corsie erano già continue… e un’auto dietro mi ha suonato, non perché abbiamo rischiato l’incidente – era parecchi metri indietro ed eravamo sostanzialmente fermi – ma perché il guidatore è andato in panico vedendo un’auto immettersi nella sua corsia in un modo non previsto dalle regole, infrangendo le sue certezze.

L’altra conseguenza di tutto questo si verifica quando, dopotutto, gli americani fanno qualche violazione. Alla fine sono esseri umani anche loro! Il problema è che, non avendo mai violato le procedure in vita loro, non hanno la minima capacità di valutare autonomamente la pericolosità o le conseguenze di ciò che stanno facendo. E’ per questo che così tanti americani vincono il Darwin Award: hanno il buon senso e la capacità di giudizio di un bambino di cinque anni, perché, a forza di seguire procedure già pronte, non li hanno mai esercitati. (E’ anche per questo che devono scrivere sui vestiti di toglierseli prima di stirarli e sulle tazze di caffé di fare attenzione perché potrebbe essere caldo.)

E così, succederà anche a voi, come è successo a me sulla discesa dal Grand Canyon verso Cameron, di imboccare a buona velocità un lungo curvone cieco in discesa, su una statale a una corsia per senso di marcia, e di trovarvi improvvisamente fermo in mezzo alla carreggiata un grosso SUV con il tettuccio aperto e un americano che spunta da sopra per fare la foto al meraviglioso panorama. Per fortuna nell’altro senso non arrivava nessuno, e dunque io ho potuto varcare la doppia striscia continua e superare il tizio nella corsia contromano – una manovra che un americano farebbe molta fatica a concepire in pochi secondi, dato che implica una violazione di regole. Se al mio posto ci fosse stato un locale, sono piuttosto sicuro che avrebbero fatto un incidente.

Oppure, succederà anche a voi, come è successo a me sulla costa della California settentrionale, di vedere un tizio davanti a voi che si ferma a bordo strada, a filo della carreggiata, e apre la porta per scendere e andare in spiaggia senza minimamente guardare se arriva qualcuno, costringendovi a scartare di botto per non investirlo; ok, fermarsi a bordo strada è una violazione, ma una volta che ci si è parcheggiati lì, perché guardare prima di aprire la porta? In una vita spesa a parcheggiare a lisca di pesce in mezzo ai piazzali, non è mai stato necessario farlo.

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