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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


lunedì 19 Luglio 2010, 18:37

Contrasti cinesi

Che questo sia un Paese di grandi contrasti lo sanno tutti; viverlo, però, è un’altra cosa.

All’ora di cena, seguendo il nostro collega e un suo appuntamento con un amico expat, ci siamo ritrovati di nuovo a Xintiandi, il centro commerciale elegante costruito attorno alla sede del primo congresso del PCC (per arrivarci, il taxi ha percorso un viale alberato circondato di edifici nuovissimi e tutti illuminati ognuno dei quali ospitava il negozio di un grande marchio di moda).

I vialetti pedonali all’aperto dei due isolati di Xintiandi erano pieni di gente; una certa percentuale di stranieri, ovviamente, ma in prevalenza cinesi ricchi. Nel centro commerciale ci sono una quarantina di ristoranti, tendenzialmente di lusso, che riproducono le cucine di vari Paesi. Consultando la guida e andando a vedere, abbiamo optato per Ding Tai Fung, una catena di ristoranti taiwanesi che ha a Xintiandi la sua sede pluripremiata (guida Michelin compresa). Al primo piano di un centro commerciale all’occidentale, salite le scale mobili, si trova l’ingresso del ristorante, dove un tabellone luminoso gestisce la coda: all’ingresso ti danno un numerino, inserendoti in una di quattro code separate a seconda della dimensione del tavolo. Nonostante ciò, il posto è elegante, anche se è uno dei meno eleganti della zona.

Il piatto principale del ristorante sono ravioli al vapore alla maniera di Taipei: e ovviamente non hanno nulla a che vedere con quelli che mangiamo in Italia. La pasta è un’ostia appiccicosa, morbida e sottilissima, e contiene un ripieno circondato da brodo a diciottomila gradi; con coraggio, se ne prende uno con le bacchette e lo si infila in gola intero, al massimo dopo averlo passato nella salsa di soia o in quella piccante. Il ripieno tipico, davvero eccezionale, è un misto di maiale e granchio; detto così vi sembrerà strano, ma il risultato è al livello dei migliori agnolotti di casa nostra.

Noi ne abbiamo ordinati di vari tipi e con vari ripieni, uscendo molto soddisfatti; il costo medio è di un euro a raviolo, e con venti euro a testa siamo usciti piuttosto sazi. Ora, potrà sembrarvi un prezzo normale, ma considerate che qui nei ristoranti eleganti per locali ci si strafoga, serviti e riveriti, con meno di dieci euro a testa; nei fast food cinesi e caffé all’occidentale si mangia un pasto completo per due o tre euro; nelle bettole si mangia con meno di un euro.

E’ che qui esistono chiaramente due economie: una per i ricchi e una per i poveri. Ma attenzione, nel resto del mondo (ad esempio in Africa, nel resto dell’Asia e, anche se meno, pure in Sud America) i ricchi sono per la maggior parte gli occidentali spediti in trasferta dalle multinazionali o venuti per turismo, completati da una parte minoritaria di ricchi del posto. Qui, invece, l’economia per ricchi è principalmente per locali; gli stranieri sono accolti con cortesia e interesse, ma non rappresentano (più) l’elemento vitale che fa girare l’economia del lusso e da essa, a cascata, l’economia locale.

Questo si vede ancora meglio se si gira un po’, uscendo dai recinti dorati delle zone all’occidentale. A fine cena abbiamo cercato un taxi per farci riportare indietro; non l’abbiamo trovato, perché è vero che ogni trenta secondi appariva un taxi libero, ma c’erano decine di persone in attesa. A quel punto, visto che era piuttosto tardi – le dieci e mezza, e qui è come dire mezzanotte – abbiamo deciso di prendere la metro (che chiude poco dopo le undici) per avvicinarci, e di cercare un taxi in una zona meno battuta e più vicina all’università che ci ospita, che – ricordo – sta a una decina di chilometri dal centro. Così abbiamo preso una metro e poi un’altra, e poco prima delle undici siamo scesi alla metro di Jiangwan Town, a un paio di chilometri abbondanti dall’albergo; la fermata più vicina, dal momento che la metro che prendiamo normalmente chiude alle otto di sera.

Il piano era quello di fermare un taxi, e in effetti lì ce n’erano in abbondanza; se non che, scesi dalla metro, abbiamo esitato un attimo davanti al tabellone con la mappa del circondario, e subito un ragazzo del posto si è fermato e ha chiesto, in un inglese passabile (già una rarità), se avessimo bisogno di aiuto. Gli ho spiegato dove andavamo, e ci ha detto che erano solo dieci-quindici minuti a piedi; e si è offerto di accompagnarci fino all’angolo della via, perché se avessimo sbagliato strada ci saremmo persi senz’altro. E nel frattempo ha entusiasticamente cercato di fare conversazione, spiegandoci che era un dipendente della Aurora (una mega-ditta con grattacielo sul fiume) che tornava a casa dopo essere uscito dal lavoro “come tutte le sere†(ricordo che erano le undici); e alla fine ci ha lasciati sull’angolo giusto e ci ha pure dato il suo biglietto da visita per chiamarlo in caso di problemi.

(Nelle periferie delle città cinesi, le vie sono molto più rare che da noi; ci sono poche strade che delimitano isolati immensi, occupati da un dedalo di vicoli e viuzze senza nome che collegano i vari palazzi; sbagliando strada, si rischia di camminare tranquillamente per un quarto d’ora prima di trovare l’incrocio successivo e accorgersene.)

Io sapevo, avendo visto la cartina, che la sua stima dei tempi era molto ottimistica; ma la temperatura era finalmente accettabile, c’era un bel venticello, e così abbiamo fatto una passeggiata. E abbiamo fatto bene, perché nei tre isolati che componevano il percorso di 2,5 chilometri abbiamo visto di tutto: basse case anni ’60 con negozietti ancora aperti; poi un gigantesco palazzo di una multinazionale, in stile americano; poi un incrocio con un vialone; una scuola; un blocco di poche casette con negozi poverissimi; una serie di palazzi eleganti di dieci piani l’uno.

Soprattutto, la contraddizione tipica sta nel trovare per trecento metri dei grossi palazzi modernissimi, costruiti da non più di cinque anni, ampi, spaziosi e rigidi nel silenzio della notte; e poi un gruppo di vecchie case in cui ogni buco di due metri per due è un negozio, pieno strabordante di oggetti o merce alla rinfusa, illuminato alla meglio, cadente, con il proprietario piazzato su una sedia sulla via a fumare mentre chiacchiera con qualcuno, davanti a un tavolino su cui oltre al posacenere si trova un piattino con cibo indefinito, a fianco del quale sta, seduto a gambe incrociate sul marciapiede, un riparabiciclette ambulante, con i ferri del mestiere sparsi per terra su uno straccio, che in attesa di clienti mastica un pezzo di anguria comprato dal verduriere accanto, il quale ha decine e decine di angurie verdine sbattute lì per la strada, e nonostante sia quasi mezzanotte è ancora aperto e non ha nessuna intenzione di chiudere e andare a dormire, che tanto fa caldo e comunque è meglio stare lì a chiacchierare che salire di sopra, dove i tre o quattro o massimo sei piani del basso palazzo anni ’60 (qui sei piani è basso) brulicano di stanzette, ognuna col suo condizionatore, nel quale dorme una intera famiglia; e con l’intero condominio, entro sei o dodici o massimo ventiquattro mesi, non ci faranno la hall del nuovo palazzo di marmo vetro e acciaio che occuperà la zona, spazzando via questa gente e scaraventandola più lontano, dove le case valgono meno.

In auto, queste parentesi vive in mezzo a una Los Angeles d’Oriente non si noterebbero proprio; a piedi ci finisci dentro. Come quando passi davanti al cancello di quello che sembra uno studentato, dietro l’università, e lo trovi occupato da un improvvisato mercatino notturno, formato da carretti di metallo arrugginito attaccati dietro una bicicletta. Ogni carretto vende cibo diverso, e in particolare un paio hanno la brace, grigliano spiedini di carne o di pesce di animali sconosciuti e li vendono a prezzo ridicolo, uno yuan a spiedino; e il marciapiede brulica di giovani scesi a soddisfare la fame di mezzanotte. Dev’essere l’equivalente locale del paninaro notturno, ma molto low tech, e però molto efficace, anzi mi sa che una di queste sere ne provo uno: prima che tutto questo sparisca, e che la Cina diventi completamente l’America del ventunesimo secolo.

[tags]cina, shanghai, contrasti, cibo, taiwan, los angeles, viaggi[/tags]

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domenica 18 Luglio 2010, 15:16

Il comunismo nel cesso d’oro

In teoria ero preparato, essendo già stato due anni fa per quattro giorni a Tokyo d’agosto; dunque avevo già presente la mostruosità del clima asiatico di questo periodo, con un caldo nominalmente nemmeno esagerato ma accumulato da un’umidità mostruosa, che ti si appiccica addosso e ti stringe e ti soffoca lentamente. Farsi la doccia è inutile, perché ridiventi appiccicoso prima ancora di ridiventare asciutto; lavare i vestiti è impossibile, perché non asciugano; l’unico rimedio è quello adottato dai locali, cioè dotare qualsiasi luogo chiuso di un condizionatore – qui ce l’hanno anche le topaie nei bassifondi, lo si compra prima ancora del televisore e dell’automobile – e spararlo a sedici gradi.

Il risultato è ovviamente uno sbalzo termico che fiaccherebbe un viadotto dell’autostrada, in cui ti devi portare dietro sciarpa e golfino per metterli quando entri dentro gli edifici, e ciò nonostante, quando sei fuori, vorresti soltanto ritornare dentro. Oggi, in particolare, abbiamo avuto un momento topico quando siamo arrivati al fondo di Piazza del Popolo, che sarebbe la piazza-parco che segna il centro politico della città; ha in mezzo il municipio, il teatro dell’opera e il museo cittadino, circondati sulla superficie della piazza da un parco “civilizzato†– così lo definisce il sottotitolo cinglese del cartello – di giardini e giostre e laghetti e magnifiche ninfee; affacciati sulla piazza vi sono poi una infilata di dieci o venti grattacieli che ospitano alberghi a cinque stelle, uffici di multinazionali, un concessionario Porsche e un concessionario Ferrari; la piazza occupa un’area circa pari all’intero centro di Torino.

Ecco, dicevamo, siamo arrivati in fondo alla piazza, e per andare verso la città vecchia e il quartiere della concessione francese bisogna attraversare una tangenziale a sette corsie più sette nell’altra direzione, e ovviamente c’è un sovrappasso pedonale appeso sopra l’incrocio e sotto la sopraelevata autostradale, ed ecco proprio lì, salite col fiatone le scale, in mezzo al caldo che pioveva dalle nuvole e rimbalzava dall’asfalto, abbiamo praticamente avuto un collasso, ognuno di noi indipendentemente, rischiando di accasciarci lì.

Per fortuna dall’altra parte c’era l’ingresso di una stazione della metro, con il suo tornado a sedici gradi che usciva dalle viscere della terra, e mi ci sono messo per scaricare un po’ di caldo, e anche se il freddo fosse venuto solo da un tombino mi ci sarei messo sopra come una Marilyn in pantaloncini, a costo di gelarmi le parti intime.

Questo è tuttavia l’unico problema di Shanghai, che per il resto è un posto davvero impressionante. Noi siamo ospitati nel campus della Fudan University, che sta in zona semicentrale, ossia a una decina di chilometri dal centro. Un mese fa, guardando con Google la mappa della zona per vedere com’era la logistica, mi ero preoccupato: le più vicine stazioni della metro, una da una parte e una dall’altra, distavano quasi mezz’ora a piedi, e si prospettava dunque una serie di lunghe camminate o la necessità di prendere il bus o anche il taxi, che qui costa poco ma presenta sempre il rischio che l’autista non capisca e ti porti a qualche decina di chilometri di distanza dalla tua meta.

Arrivati in albergo abbiamo dunque chiesto quale fosse la stazione più vicina, e ci hanno risposto: uscite, girate di lì, a fine isolato c’è la stazione, saranno dieci minuti a piedi. Noi scettici li abbiamo guardati male, e abbiamo confrontato con la mappa delle nostre guide e con quella trovata in camera, nessuna delle quali mostrava una stazione della metro in quel punto. Loro hanno insistito, così siamo andati a vedere e… c’è veramente una stazione della metro della linea 10. Ma sulle nostre carte non c’era nessuna linea 10!

Alla fine abbiamo scoperto: e certo, erano mappe del 2009! Nel 2009 c’erano nove linee di metro, ma nel 2010 ce ne sono dodici (del resto nel 2006 ce n’erano solo cinque). In effetti anche su Google, un mese dopo, sono apparsi sti 30 km di metro nuovi nuovi che l’anno prima non erano nemmeno tracciati come “in progetto†sulle cartine. Non solo: la stazione della metro ha aperto da soli tre mesi, ma intorno è già spuntato un gigantesco triplo centro commerciale, con multisala, fast food, negozi eleganti e altre attrazioni. Intorno ci sono ancora i vecchi isolati, alcuni con palazzoni anni ’80, altri con caseggiati anni ’50, ma è facile pensare che prima o poi anche quelli saranno rasi al suolo e sostituiti da un nuovo quartiere residenziale… che non sarà poi troppo diverso dai nostri, l’unica differenza è che da noi il nuovo progetto residenziale medio è fatto di cinque palazzine uguali da dieci piani l’una mentre qui è fatto di cinquanta palazzine uguali da trenta piani l’una.

Qui lo stravolgimento continuo è palpabile: quel che vedi oggi, domani potrebbe non esistere più. Ovunque ci sono isolati transennati, abbattuti, pronti a diventare nuovi grattacieli. Ovunque ci sono moltitudini di cinesi che corrono, lietamente presi nell’ingranaggio del capitalismo comunista, protagonisti dell’epoca d’oro della Shanghai da bere.

Abbiamo visto il museo del primo congresso del Partito Comunista Cinese, sul luogo dove esso si tenne clandestinamente nel 1921: è inglobato dentro un centro commerciale di lusso. Tra un ristorante messicano e un negozio di Gucci, puoi entrare e vedere la statua di cera di Mao di fronte al tavolo su cui scrisse il manifesto del Partito. Puoi sentire il racconto dell’eroismo dei partigiani comunisti contro i giapponesi nell’ambito della “guerra antifascista mondialeâ€. Puoi leggere di quando il Partito “su basi giuste, con moderazione e per il bene di tutti†dichiarò la guerra civile e liberò Shanghai dal Kuomintang. E poi puoi seguire Dente di Elvis, la mascotte dell’Expo 2010, che ti sciorina le foto di tutti gli impressionanti edifici costruiti per questa occasione, oltre alle sette nuove linee di metro; e imparare l’orgoglio della via cinese verso la supremazia mondiale; e con quell’orgoglio, insieme ai tuoi yuan di cafone ripulito, uscire subito a comprarti al negozio accanto un cesso d’oro, una maglietta firmata, o perlomeno un cappellino di paglia con scritto “Ronaldiño†(va di moda anche qui sognare il Brasile).

In fondo fu detto che ognuno avrà secondo i propri bisogni: nell’epoca della tamarraggine globalizzata, è tanto giusto quanto geniale che ciò conduca il comunismo a svilupparsi in modo che anche i cinesi possano soddisfare bisogni di questo tipo.

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[tags]viaggi, shanghai, cina, comunismo, clima, metro, economia, mao, cessi[/tags]

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domenica 14 Febbraio 2010, 18:10

The one I love

Come i lettori più affezionati ricorderanno, sono stato un affezionato giocatore di Guitar Hero sin dal primo numero della serie; per un paio d’anni ho sviluppato le mie abilità chitarrinistiche in modo maniacale e semiprofessionistico, dopodiché mi è abbastanza passata la voglia.

Tuttavia, quando a Londra ho visto Guitar Hero IV (World Tour) – uscito ormai da un anno e mezzo – in offerta per otto sterline, mi son detto “perché no?”, soprattutto per due delle canzoni che contiene: Hotel California degli Eagles e The one I love dei REM. E così oggi – domenica pomeriggio, mezza giornata di riposo, rimasto solo in casa – l’ho aperto, l’ho messo dentro la PS3 e, esauriti i primi convenevoli, mi sono ritrovato a suonare a livello esperto questi due pezzi con grande godimento.

Se la prima canzone non ha bisogno di presentazioni, la seconda ha per me una storia tutta particolare. Intanto, è una delle canzoni più belle degli anni ’80, accompagnata da un video altrettanto bello.

E’ una canzone d’amore triste, un capolavoro di falso cinismo; l’intero testo è composto da una semplicissima lettera d’amore a una amata che è stata “lasciata indietro” e che viene ricordata come “un semplice gingillo per occupare il mio tempo” (il termine “prop” vuol dire “supporto” ma anche, in gergo cinematografico, uno dei finti elementi di cartone delle scenografie o un elemento di scena). L’ultima strofa cambia leggermente e dice all’amata perduta che adesso “un altro gingillo ha occupato il mio tempo”.

L’intera canzone è una specie di filastrocca che sottolinea la superficialità dei pensieri nel testo, eppure la musica triste dice tutto il contrario; e la situazione esplode letteralmente nel ritornello, dove Michael Stipe riesce solo a gridare “fire” e a farsi dilaniare dall’angoscia. La seconda volta, il grido finisce in un assolo perfetto – uno di quelli dove non puoi togliere o aggiungere neanche una nota – anche perché è, giustamente, rovesciato: invece di raggiungere il climax alla fine come tutti gli assoli, parte forte e poi si spegne senza speranza; la prima metà è in maggiore ed è suonata più forte mentre la seconda ritorna inevitabilmente nella sonorità minore di partenza.

Gli americani, che non capiscono, la suonano ai matrimoni (del resto gli americani sono convinti che Born in the U.S.A. di Springsteen sia una canzone patriottica; dev’essere che non sanno leggere). Io ci resto affezionato anche per via di uno strano episodio; ormai quattro anni fa, stavo passeggiando da solo e meditabondo per le vie di Te Anau, uno dei tanti posti meravigliosi della Nuova Zelanda. Percorrevo la strada sulla riva del lago, su cui si specchiavano gli alberi dalle foglie ormai gialle e rosse (era l’inizio di aprile, dunque autunno). D’improvviso a un incrocio, da una casa verso l’interno, qualcuno apre le finestre e sento uscire distintamente le note di The One I Love. Mi sono girato e ho fatto la foto, non alla casa ma a quella strada che partiva dal lago e all’immagine che la musica mi aveva spinto a vedere:

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E’ forse strano che tutto questo discorso sia venuto fuori da sé il giorno di San Valentino. Ormai ho raggiunto un’età e una situazione in cui sono in pace con i sentimenti, ma la sensibilità è un bene che va conservato con cura.

[tags]musica, videogiochi, playstation, guitar hero, hotel california, the one I love, rem, nuova zelanda, te anau, san valentino, amore, sentimenti[/tags]

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domenica 7 Febbraio 2010, 00:45

Decisioni di business

Questa era l’ultima serata londinese – domani mattina si torna indietro – e ce la siamo goduta con l’ultimo giro per il centro città… compresa anche l’ultima sosta al supermercato Tesco di Piccadilly Circus, meta di tutti i turisti in cerca di un panino, un dolce, un gelato o una coca cola a prezzi un po’ più umani.

Per ridurre i costi, in questo supermercato hanno eliminato i cassieri; vi sono soltanto le casse automatiche, quelle che hanno cominciato a diffondersi anche da noi in alcuni ipermercati. Sono quelle in cui il cliente passa da solo il codice a barre su un lettore, mette i prodotti su una bilancia che ne verifica il peso, poi inserisce i soldi e riceve il resto in automatico.

Il nostro conto era di £ 3,04; abbiamo inserito le tre monete da una sterlina, e poi ci siamo detti: finiamo le monetine. E così, cerca cerca, dopo dieci secondi abbiamo inserito un centesimo. Poi, dopo altri dieci secondi, abbiamo inserito un altro centesimo. E poi… la macchinetta ha preso una decisione di business: improvvisamente ha chiuso la transazione, ci ha fatto lo sconto dei due centesimi rimanenti e ci ha detto di andare via!

In effetti, dato l’affollamento e il numero limitato di casse, il fatto che una di esse resti occupata per un tempo superiore alla media è un costo probabilmente superiore a quei due centesimi. Adesso però, se volete farvi fare lo sconto, sapete come fare…

[tags]macchine, monete, business, londra, tesco, supermercato[/tags]

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giovedì 4 Febbraio 2010, 16:48

Fuori dal centro di Londra

Capita a Londra un giorno normale come tutti quelli di febbraio; il cielo è grigio indistinto e ogni tanto viene giù acqua, ma in maniera molto cortese e bene educata, chiedendo sempre permesso. Solo chi viene da altri climi pensa di aprire l’ombrello; è più facile camminarci semplicemente dentro come fosse un gigantesco spruzzo di profumo, solo non profumato.

Londra è una città di diapositive; un gruppo di fermate della metro tenute insieme dalla colla. La transizione da un luogo famoso all’altro può avvenire per dissolvenza incrociata, nel buio anonimo del tubo; solo raramente avviene in superficie, forse a piedi, forse in cima alla centrifuga degli autobus a due piani. Non è così difficile, dopo un po’ di volte che ci si viene, esaurire le diapositive, e trovarsi di fronte al desiderio di sperimentarne qualcuna nuova.

Martedì mattina per esempio siamo andati ad Alexandra Palace, un luogo che nei suoi quasi 150 anni di vita è stato già tutto; centro esposizioni, teatro, campo di internamento, salone delle feste, sede delle prime trasmissioni televisive a risoluzione decente (405p) della storia, e poi anche rudere, ovviamente. Ah, e capolinea della Northern Line dove la Northern Line non è mai arrivata, l’avevo detto? Set dello spot della Punto che salta dal trampolino? Comunque è un posto piuttosto fuori dal comune, e ci sarebbe anche una bella vista sulla città, se la foschia non imperasse.

Ieri dunque, avendo la giornata libera, ho deciso di fare un giro ai Kew Gardens, approfittando dalla bella giornata (pioveva solo a intermittenza). Credo di esserci stato durante la mia prima visita a Londra, venticinque anni fa; e mi era rimasta la curiosità. Arrivarci non è difficile ma è lungo (tre quarti d’ora di metro; sta al confine tra le zone 3 e 4). L’ingresso costa 13 sterline e ho pure dovuto fare la coda, nonostante fosse l’una di un gelido mercoledì di inizio febbraio. Pensavo di starci un’oretta e poi tornare indietro, e sono stato smentito.

All’interno l’attrazione principale sono le serre; un paio di enormi palazzi di cristallo vittoriano, che un po’ sembrano stare in piedi per miracolo, ma che sono pieni di piante meravigliose di ogni specie e categoria. C’è la pianta del té, l’albero del cacao e pure l’albero del pomodoro, i cui frutti sono pomodorini oblunghi che però dentro somigliano alle albicocche. C’è una giungla tropicale piena di alberi enormi, ma c’è anche una sezione temperata con tanto di ulivo. Ci sono le sezioni primordiali, con le felci e pure con muschi e licheni (c’è anche un giardino roccioso all’aperto). C’è la sezione coi fiori, con orchidee di ogni genere (in effetti in una stagione più avanzata probabilmente fiorisce tutto il parco…). In un angolo c’è persino un cartello con la faccia di Chiamparino che dice “Ma se la regina Vittoria 150 anni fa non avesse costruito la serra delle palme, noi dove saremmo adesso?”.

La parte migliore, però, è la grande distesa di bosco che ricopre l’area tra le serre e il Tamigi. Nell’angolo in fondo c’è una pagoda che funziona un po’ come il Chrysler Building a New York – sembra sempre lì vicina ma non ci si arriva mai, e quando ci si arriva si scopre che è chiusa. Tuttavia a quel punto ci si trova nella parte meno frequentata del parco, e piove, e si aprono lunghe prospettive che hanno avuto l’intelligenza di lasciare verdi – non una strada, non un viale, ma una striscia di prato circondata da alberi alla giusta distanza per creare un passaggio armonicamente percettibile che si estende a vista d’occhio. Ci si può camminare per un bel po’ incontrando soltanto scoiattoli, uccelli, e vicino al laghetto i cigni e i pavoni… e poi i bagni pubblici, che diamine, perché questo è un paese civile e in qualsiasi posto ci sono bagni pubblici puliti, ben tenuti e quasi sempre gratuiti.

Negli angoli del parco ci sono spesso piccole sorprese, come il giardino giapponese con tempietto o la casa di legno tra i bambù, e insomma è bello perdersi nel silenzio (controllo aereo permettendo, perché siamo sotto uno dei percorsi di discesa di Heathrow, e dal percorso sopraelevato tra gli alberi a venti metri d’altezza – una delle altre attrazioni – si legge la marca delle gomme degli aerei che scendono già col carrello di fuori). Più piove e più il bosco si fa remoto e interessante; e insomma, alla fine sono rimasto fino all’ora di chiusura (le quattro e un quarto) e sono arrivato al cancello poco prima che mi chiudessero dentro.

Penso che se abitassi qui ci farei l’abbonamento.

[tags]viaggi, londra, alexandra palace, kew gardens[/tags]

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martedì 2 Febbraio 2010, 09:32

Londla val bene una mensa

Questa settimana, ebbene sì, sono a Londra, al seguito di una trasferta di lavoro della mia signora. Erano quasi quattro anni che non ci capitavo (l’ultima volta venni per girare questo video e gli altri correlati) e mi fa piacere tornare; è forse la città europea che preferisco.

Il viaggio però è stato un po’ complicato; in pratica siamo usciti alle otto e mezza del mattino da casa a Torino per arrivare in albergo alle 15 (16 ora italiana). Infatti, al ritorno devo scendere per forza su Milano e alla fine fare la “Y” – partire da Torino e tornare a Milano – aveva costi improponibili; da Malpensa, invece, c’era un comodo 100 euro andata/ritorno tutto incluso con Lufthansa; costava persino meno di Easyjet, anche perché siamo stati costretti a organizzare tutto con solo due settimane di anticipo, e arrivava pure su Heathrow.

Peccato che, arrivati al check-in, ci abbiano guardati strani e ci abbiano mandato su British Airways causa cancellazione del nostro volo. Le due linee aeree non fanno nemmeno parte della stessa alleanza, ma si vede che il nostro volo doveva essere bello vuoto (ovviamente la motivazione ufficiale è “inconveniente tecnico”, seeh…) anche perché sul BA, pur avendo imbarcato anche i passeggeri Lufthansa, c’erano al massimo trenta persone. Forse che forse che su Malpensa, anche per motivi politici, c’è attualmente una leggera sovraofferta di voli? (cosa che tra l’altro determina anche il progressivo smantellamento di Caselle, dato che buona parte dei passeggeri di Malpensa sono torinesi costretti a sciropparsi le due ore nella brughiera in seguito all’accordo tra amministratori piemontesi e lombardi per la sopravvivenza dello scalo varesino…)

Comunque, in questo modo ho avuto la possibilità di arrivare al nuovissimo Terminal 5 di Heathrow: talmente nuovo e gigantesco da costringerti a scarpinate di chilometri. Gli inglesi, peraltro, li abbiamo persi: adesso anche loro ti danno il benvenuto con un immenso stanzone pieno di file lunghissime davanti a minacciosi ispettori del controllo passaporti, manco fosse Los Angeles. Che tristezza…

Infine, a Heathrow abbiamo avuto la buona idea di non fare il settimanale cartaceo della metro, ma la Oyster card, caricandoci sopra il settimanale e qualche soldo extra. In questo modo, per esempio, abbiamo pagato per il viaggio da Heathrow al centro solo la differenza tra la zona 6 e le zone coperte dal settimanale: fa tutti i conti lei in automatico. Peccato che la Piccadilly Line ci metta un’ora.

La prima passeggiata in città mi ha riportato subito in luoghi conosciuti: per esempio la fumetteria davanti al British Museum, o, in Frith Street, il ristorante “solo aglio” dove mi portò a cena il mitico Zeppola, che in realtà si chiamava Zappala e nonostante questo, per qualche strano motivo, era convinto di essere inglese; era il responsabile tecnico di Peoplesound, azienda londinese che come Vitaminic avevamo appena acquistato, e credo che cercasse di fare amicizia facendomi bere drink composti di superalcolici, succo di pomodoro e aglio. O forse voleva solo convincermi a migrare tutto il sito su Windows NT, chissà!

Tuttavia, la passeggiata mi ha anche messo di fronte a veri sconvolgimenti: per esempio, all’incrocio topico tra Tottenham Court Road e Oxford Street speravo di ritrovare l’antico kebabbaro Dyonisus – il posto dove ho imparato ad apprezzare il kebab, tanto che riuscivo a infilarne uno persino alle quattro del pomeriggio nei dieci minuti tra fine riunione e partenza per l’aeroporto – e invece non solo non c’è più il kebabbaro, ma non c’è più l’intero isolato:

DSC08005s.JPG

Concludo dicendo che a cena, seguendo il fiuto della mia signora, ci siamo infilati in un ristorante cinese “all you can eat” di Chinatown, dove con undici sterline ci siamo abbuffati di cibo cinese stile mensa ma piuttosto buono, specie il pollo in agrodolce. A dire il vero li ho ridotti in lacrime: dopo il terzo giro di buffet è arrivato il proprietario implorando “La plego, la plego, smetta di mangiale tutto mio cibo, glazie pel applezzamento ma così mi manda in lovina”. Tzè, dilettanti.

P.S. Se ieri verso l’ora di pranzo avete sentito un tizio con la mia voce dispensare saggezza internettiana a mazzi su Radio Marconi, ero proprio io. Ho rilasciato l’intervista tra il tapis roulant e il gate B1 di Malpensa, e ho finito la chiamata proprio mentre si accingevano a chiudere l’imbarco!

[tags]viaggi, londra, malpensa, aeroporti, lufthansa, british airways, easyjet, heathrow, immigrazione, metropolitana, vitaminic, peoplesound, locali, ristoranti cinesi[/tags]

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lunedì 2 Novembre 2009, 23:54

Low cost

È vero che siamo riusciti a risparmiare circa cinquanta euro a testa scegliendo di tornare con il volo Girona-Bergamo di Ryanair invece che con un Barcellona-Malpensa di Easyjet o di Lufthansa Italia.

Ma non sono sicuro che il risparmio valga lo sbattimento di viaggiare per ore in vecchi e frusti pullman per passare da aeroporti secondari, scassati e male organizzati…

Oltretutto Ryanair ora ti obbliga a fare il check-in via web (per poi stare lo stesso in coda per consegnare il bagaglio) e ha ridotto il peso consentito a quindici chili per bagaglio imbarcato (ovviamente a pagamento) con una sovrattassa di venti euro per ogni chilo in più: a Girona era una litania di italiani con borse infinite che pietivano lo sconto…

[tags]ryanair, trasporti, low cost, girona, bergamo[/tags]

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domenica 1 Novembre 2009, 23:26

Barri de puta

Stasera si è concluso il Free Culture Forum, anzi non proprio, nel senso che sta andando avanti in queste ore su un wiki il lavoro di stesura della dichiarazione finale; naturalmente tutte le persone di normale approccio alla vita, dopo tre giorni passati a discutere di politica e società per circa 14 ore al giorno, sono già uscite e andate a cena o ripartite per tornare a casa, dunque a scrivere il testo sono rimasti solo quelli che fremono dal desiderio di fare la rivoluzione, stampando parole di fuoco sulle loro tastiere a favore del reddito di cittadinanza e dell’idea che gli artisti debbano essere retribuiti dallo Stato esattamente come i dottori dell’ospedale; confido però che nella fase di discussione online dei prossimi giorni gli entusiasmi ideologici verranno un pelino temperati.

In parte credo che ciò derivi anche dal posto in cui ci troviamo, in pieno Barrio Chino: la parte tradizionalmente più degradata e pericolosa della città. Negli ultimi vent’anni – quelli della rinascita cittadina post-olimpica – la strategia delle autorità per gestirla è stata radicale: in una zona di vicoletti e bassifondi, costituita da palazzi di parecchi piani di metà e fine Ottocento separati solo da un paio di metri scarsi di stradina, sono stati abbattuti interi isolati per trasformarli in enormi piazze, o per sostituirli con un viale o con enormi edifici moderni, che vanno da un parcheggio rotondo foderato d’acciaio al grande complesso del museo d’arte contemporanea.

Il risultato è straniante: un San Salvario all’ennesima potenza, dove ristoranti nuovi ed elegantissimi convivono fianco a fianco con vecchi portoni graffitati e occupati da call center per immigrati, e dove le finestre degli antichi bassifondi non danno più sul vicoletto e sul palazzo di fronte, ma su larghe strade e poi su nuovi edifici di vetro e muratura perfettamente à la page.

Peccato che il collegamento tra il nostro albergo – una residenza universitaria pessimamente gestita – e l’ex negozio di alimentari dove ha sede l’organizzazione, in cui ci troviamo per pasti e riunioni, sia dato dal Carrer d’En Robador, la via del ladro, occupata giorno e notte da una densità abnorme di puttane, con il relativo magnaccia che le osserva appoggiato al muro a qualche metro di distanza. Tra ieri e oggi l’abbiamo percorsa tutta, avanti e indietro, parecchie volte: la prima parte ancora vicoletto buio pieno di piscio, la seconda più larga, moderna e pavimentata di fresco. Questa seconda parte è rimasta accanto a una gigantesca devastazione comunale in futura ricostruzione, per ora costituita solo da un solitario condominio, al cui piano terreno si trova un finto fried chicken che nonostante gli sforzi proprio non riesce a sembrare americano. Bene, ogni volta i nostri tre minuti di passeggiata sono stati uno spettacolo di donne urlanti, borsette che volavano e clienti riluttanti aggrediti al grido di “¡maricón de mierda!”. Ma non preoccupatevi, basta tirare dritto per la propria strada, salvo quando è occupata da persona che corre in direzione opposta senza guardare dove va – in tal caso meglio scansarsi.

[tags]barcellona, free culture forum, barrio chino, degrado, prostituzione[/tags]

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venerdì 30 Ottobre 2009, 23:51

Barcellona

Sono a Barcellona per il Free Culture Forum – mi hanno invitato per il workshop sulla politica della libera cultura, ossia un incontro di una dozzina di esperti da varie parti d’Europa: scambieremo le nostre esperienze e poi boh, credo cercheremo di cambiare il mondo stendendo un documento finale.

I contenuti del convegno – tre giorni fitti fitti di incontri dalle nove del mattino alle dieci di sera – sono molto interessanti, ma avrò bisogno di un po’ più di tempo per raccontarli. Nel frattempo vorrei invece dire che Barcellona è sempre un bellissimo posto, attiva e moderna come una capitale economica ma piacevole e romantica come una città d’arte, perdipiù con sole mare e spiagge incorporate. Ho l’impressione che rispetto all’ultima volta che c’ero stato – quasi otto anni fa – la magia della città si sia un po’ consumata, tra nuove ristrutturazioni di lusso e una densità di turisti che ormai, persino fuori stagione come ora, ha dell’impossibile e dunque anche del fastidioso; e anche i prezzi, una volta addirittura convenienti, ormai hanno raggiunto e superato i nostri (1,35 euro la metro, 10 euro l’ingresso alla Pedrera e 40 euro a testa la cena in un ristorantino ottimo e fine ma non certo di lusso).

Comunque, quando meno te lo aspetti la città ti regala ancora qualche momento hors categorie, come trovarsi in piena notte tra la Cattedrale e lo splendido chiostro in stile arabo dell’Archivio cittadino con due tenori evidentemente capaci che per qualche strano motivo si mettono a cantare Santa Lucia tra il buio e le stelle. Provate a trovare una cosa così a Roma o Parigi

[tags]turismo, barcellona[/tags]

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mercoledì 30 Settembre 2009, 18:41

A Milano si viaggia gratis e in estrema sicurezza

A Milano, sui mezzi, si viaggia gratis: almeno è ciò che mi è successo in questi giorni. La settimana scorsa, infatti, per andare da viale Argonne a Porta Venezia ho preso il tram 5 (me l’ha suggerito il sito ATM ma non ci cascherò mai più: è arrivato un tram e ho pensato “toh guarda, un tram storico in giro di prova, peccato che sia ancora da restaurare”, e invece era proprio il 5, con i pezzi che si staccavano e lo sporco di trent’anni sul groppone; la prossima volta piuttosto vado a piedi) e la macchinetta per validare il biglietto era rotta; ho fatto tutto il viaggio con il biglietto in mano e la paura che uno dei famosi controllori lombardi sindacasse sulla mancanza del timbro. Stamattina invece ho preso il 54 per andare in centro, e la macchinetta era rotta pure lì; una bella scritta “FUORI SERVIZIO” campeggiava sia su quella per i biglietti che su quella per gli abbonamenti, e allora ho capito che è normale e che fa parte di una campagna di sconti per i fruitori dei mezzi.

Milano, dal punto di vista urbanistico, è una città ai confini della realtà; solo qui potrebbero prendere un orrendo palazzone anni ’50 in corso Monforte, davanti alla Provincia, e pensare di vendere un alloggio con un cartello che dice “VENDESI – delizioso appartamento di 125 mq”. Delizioso, capite? Su una via buia larga cinque metri e perennemente occupata di auto in coda eterna che spuzzettano sulla tua finestra! Se quello è delizioso, vuol dire che i milanesi si deliziano con poco.

L’altra scelta urbanistica che lascia perplessi è la quasi totale mancanza di corsie preferenziali e vie dedicate al trasporto pubblico. Corso Monforte, a parte brevi tratti, è a senso unico con una carreggiata larga due corsie; in una gestione con un minimo di senso, una delle due sarebbe una preferenziale per bus e taxi mentre l’altra sarebbe dedicata al traffico privato, o meglio ancora la via sarebbe riservata a bus e taxi mentre il resto della carreggiata costituirebbe un marciapiede di larghezza decente a servizio dei pedoni e dei negozi. Devi andare in San Babila? Miseria, hai a disposizione una metro di tre linee più passante, varie linee di bus, i taxi, bike sharing ovunque, e svariati parcheggi sotterranei pubblici e privati da cui puoi arrivare lì a piedi in cinque minuti. Ma che cacchio di ragione c’è per volerci arrivare con il SUV a otto ruote motrici, che poi non sai dove lasciarlo e comunque all’incrocio ti pianti perché è più largo anche del bus? E invece niente, la via è riempita così: una corsia occupata da SUV a otto ruote motrici fermi in sosta vietata con le quattro frecce, e l’altra da una coda eterna e infinita in cui il bus, così come chiunque altro, impiega quindici minuti a fare tre isolati. Mah…

Ah, e la sicurezza? Sul 54 dove la macchinetta non funzionava, in compenso funzionava uno schermo su cui giravano pubblicità e informazioni varie. Una delle informazioni era relativa al bando per l’assunzione di nuovi autisti ATM; i requisiti, oltre al saper guidare e al voler fare turni anche notturni e festivi, erano “godimento dei diritti civili e politici” e “nessun procedimento penale in corso o condanna penale passata in giudicato”. Insomma, sui mezzi milanesi si viaggia in piena sicurezza, con la certezza che il tuo autista non è un assassino, stupratore, truffatore o spacciatore che gira strafatto. Comunque, se voi siete un assassino, stupratore, truffatore o spacciatore che gira strafatto potete sempre consolarvi facendovi eleggere in Parlamento, dove invece tali requisiti non sono minimamente richiesti e anzi se provi a proporli ti danno del “forcaiolo” e “giustizialista”. Strano paese, il nostro.

[tags]milano, bus, traffico, mezzi pubblici, atm, biglietti, appartamenti, delizia, urbanistica, sicurezza, pregiudicati, parlamento pulito[/tags]

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