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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


lunedì 15 Novembre 2010, 19:47

Meno clic e più welfare

Della vicenda di Paola Caruso, giornalista precaria del Corriere della Sera che ha iniziato lo sciopero della fame e della sete per farsi assumere, hanno parlato un po’ tutti in questi giorni. Lei stessa spiega così la sua situazione: “da 7 anni lavoro per il Corriere e dal 2007 sono una co.co.co. annuale… Aspetto da tempo un contratto migliore… La scorsa settimana si è liberato un posto… Ho pensato: “Ecco la mia occasione”. Neanche per sogno. Il posto è andato a un pivello della scuola di giornalismo”. E’ la storia di tanti italiani precari tra i venti e i quarant’anni, e infatti sul momento c’è stata un’ondata di simpatia e di clic su “Mi piace”, e la sua iniziativa è stata promossa da Macchianera e rilanciata dai maggiori blog italiani, da Gilioli a Mantellini. Poi però sono cominciate le critiche – le meglio argomentate che ho trovato sono questa e questa.

Trovo ragionevole quasi tutto quel che è stato detto, da una parte e dall’altra. E’ vero che le aspettative della signora Caruso sono quantomeno irrealistiche: il Corriere della Sera, come tutti i quotidiani cartacei, è in stato di crisi e fa fatica a pagare gli stipendi, figuriamoci a regolarizzare i precari; anche a me magari piacerebbe fare l’astronauta assunto a tempo indeterminato, ma di questi tempi non conosco nessuno che assuma astronauti; e l’argomento per cui “sono in coda da sette anni dunque ora tocca a me” è una cosa che proprio non condivido, dato che molte delle disgrazie italiane derivano proprio dall’idea che non conti il merito ma lo “stare in coda”; concetti come “si è liberato un posto” (indipendentemente da requisiti, mansioni, capacità necessarie ecc.) ricordano più le corti dei feudatari, che fanno e disfanno le fortune dei sudditi, che una società moderna; il fatto di essere rimasti lì fermi per sette anni, invece che trovarsi nuove attività e condizioni migliori da soli, secondo me è un demerito e non un merito; infatti, tanta gente nella stessa situazione ha semplicemente aguzzato l’ingegno e si è sbattuta fino a venirne fuori; ed è pure vero che la gara alla protesta più clamorosa non mi piace, se no finiremo a dare il lavoro a chi grida più forte.

Però… c’è anche il però. Però non si può pensare che una persona che lavora da sette anni, anche non fosse così brillante da meritare un contratto principesco, possa restare all’infinito senza alcuna certezza. E non si può pensare che le difficoltà di un intero settore vengano scaricate soltanto su alcuni, sui più giovani e deboli, mentre magari a fianco c’è la grande firma che prende migliaia di euro al mese ma si rifiuta di adattare il suo pezzo per la versione Web o di leggere i commenti dei lettori perché “da contratto non sta tra le mie mansioni” (pensate voi all’equivalente sul vostro posto di lavoro).

Dunque è sbagliato pensare di affrontare questa questione guardando il caso singolo, ed è invece necessario guardarla a livello di sistema. Per quanto pochi soldi ci siano nella nostra economia, non è accettabile che essi siano distribuiti in maniera totalmente iniqua, garantendo a certe professioni, generazioni e classi delle garanzie che spesso sconfinano nel privilegio, e costringendo gli altri ad accettare qualsiasi trattamento pur di lavorare. Mi spiace che tante persone reagiscano con “zitta e lavora”: certo, in Italia dobbiamo lavorare meglio e di più, dobbiamo rimboccarci le maniche per ricostruire un Paese, ma prima dobbiamo essere sicuri che lo facciano tutti, con equità di trattamento.

Molte proposte secondo me intelligenti circolano da anni: quella di un unico contratto per tutti i lavori di concetto, senza fare figli e figliastri a seconda del settore; quella di abolire la selva di tipologie di contratto (indeterminato, determinato, co.pro, partite IVA che fanno fattura sempre alla stessa azienda…) e averne uno solo, in cui le garanzie sul posto di lavoro aumentano con l’esperienza e la qualifica, ma non sono legate al “salto” da precario ad assunto; quella di un sistema di assistenza a chi perde il lavoro che non dipenda dal tipo di contratto, ma che garantisca un reddito pieno per il tempo necessario a cercare un nuovo lavoro, esaurendosi poi progressivamente per evitare di creare disoccupati di professione; quella di un sistema pensionistico basato finalmente solo sui soldi versati da ognuno, con una integrazione ai minimi finanziata con la fiscalità generale e non con i contributi degli altri lavoratori, e magari anche con un contributo di solidarietà a carico delle pensioni più elevate, specialmente quando, grazie al vecchio sistema retributivo, sono superiori ai contributi effettivamente versati.

Sono idee, sono da elaborare, da verificare… ma almeno sono possibilità per un cambiamento vero. Altrimenti, se stiamo tutti a lamentarci e al contempo stiamo tutti arroccati su ogni briciola di “diritto acquisito”, non succederà mai niente, se non una disperata guerra tra poveri.

[tags]paola caruso, corriere della sera, precariato, giornalismo, economia, welfare, pensioni, contratti, contributi[/tags]

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domenica 14 Novembre 2010, 14:40

Il muro di sabbia, il muro di bit

È un bene che, ogni tanto, si parli ancora di angoli di mondo dimenticati. Se l’Iraq e l’Afghanistan sono ogni giorno sui nostri media – a ricordarci di quanto sia “opportuno” investire un sacco di soldi in armamenti per evitare che i cattivi terroristi ci attacchino -, se della Birmania e del Tibet ci si ricorda soprattutto quando c’è da criticare un po’ la Cina, se del Darfur si parla ogni tanto quando se ne occupa qualche rockstar, il Sahara Occidentale è dimenticato sin dagli anni ’70. Provate a chiedere all’italiano medio qualcosa su questa nazione: se riuscirà a capire dov’è è solo perché il nome è autoesplicativo, ma di lì in poi sarà buio pesto.

Il Sahara Occidentale, con l’eccezione di qualche isoletta qua e là, è secondo le Nazioni Unite l’ultima colonia rimanente sulla faccia della Terra; l’ultimo territorio a non essere mai uscito dal periodo dell’occupazione coloniale. Esso, infatti, fu una colonia spagnola fino a metà anni ’70, quando gli spagnoli se ne andarono precipitosamente; un verdetto della Corte di Giustizia Internazionale respinse le pretese dei vicini Marocco e Mauritania e stabilì che il Sahara Occidentale era un territorio autonomo con diritto all’autodeterminazione, come richiesto dal Fronte Polisario, il locale movimento per l’indipendenza del popolo sahrawi – i berberi del deserto.

Tuttavia, prima che le cose potessero assestarsi il vicino Marocco invase e si annesse l’intera nazione, compresa una parte prima occupata dai mauritani, dando il via a una guerra civile che si trascinò fino al 1991, quando un armistizio cristallizzò la situazione: il Marocco controlla tutta la costa e le zone economicamente significative (le uniche due industrie sono la pesca e l’estrazione dei fosfati) mentre i sahariani sono relegati nell’interno del Sahara, dietro un muro di sabbia e mine costruito dai marocchini. Di fatto, il governo sahariano in esilio e il suo popolo vivono a Tindouf, una città-campo profughi nel deserto algerino. Gli accordi del 1991 prevedevano un referendum per l’indipendenza, che però i marocchini non hanno mai organizzato, anche perché non si è mai raggiunto l’accordo su chi dovesse votare – se solo i sahariani, o anche le frotte di coloni nel frattempo spediti dal Marocco a stabilirsi nel Sahara Occidentale occupato.

Io mi sono interessato alla questione nel 2007, quando ero nel Board di ICANN; era giunta infatti dai rappresentanti del Fronte Polisario la richiesta di ottenere l’assegnazione del dominio .eh. Il Sahara Occidentale, infatti, è riconosciuto come territorio indipendente e ha il suo bravo codice nella lista ISO 3166-1: dunque qualcuno avrà ben il diritto di usarlo… Appena la cosa venne fuori, subito il governo del Marocco si oppose veementemente: per il Marocco quelle sono terre loro (e il Polisario è un gruppo di terroristi). La richiesta dei sahariani, non a torto, si basava anche su questo: se il Sahara marocchino non è un territorio occupato ma una parte integrante del Marocco, allora non c’era contesa, e il dominio .eh poteva tranquillamente essere attivato per la parte di Sahara controllata dal Polisario.

L’ICANN si è sempre difeso dalle accuse di parzialità su questioni come questa (inevitabilmente caldissime dal punto di vista politico) aggrappandosi appunto alla lista ISO: in altre parole, sono cavoli dell’ISO (che a sua volta si appoggia a definizioni e risoluzioni delle Nazioni Unite) definire cosa sia una nazione o territorio autonomo e cosa no. Dopodiché, ICANN sostanzialmente concede la delegazione al primo che si presenta, purché non sorgano contestazioni a livello locale, nel qual caso gli si dice “parlatevi e venite quando vi siete messi d’accordo”. Dunque, in apparenza non dovevano esserci grandi problemi nel riconoscere un dominio Internet nazionale al “territorio della nazione sahariana”, senza per questo dover prendere posizione su quale territorio effettivamente esso sia.

Eppure, c’erano due piccoli ma fondamentali problemi. Il primo è che il Marocco è un grande alleato degli Stati Uniti, che a loro volta hanno un potere di influenza morale e materiale non trascurabile su ICANN. Il secondo è che la comunità di ICANN è interessata soprattutto alla tranquilla sopravvivenza della rete e degli affari ad essa connessi, e quasi nessuno aveva voglia di infilarsi in casini politici potenzialmente distruttivi solo per i diritti di, letteralmente, “quattro beduini” (come li apostrofò qualcuno). Al Board fu consigliato di rifiutare qualsiasi contatto con i sahariani; io ci parlai lo stesso, insieme a qualche altro più sensibile ai problemi di democrazia e libertà, come il mio collega cileno ex esule a Parigi; presi le loro parti e questo mi costò un cazziatone nientepopodimenoche da Vint Cerf. Alla fine, anche il governo marocchino presentò una richiesta per ottenere il dominio .eh; ICANN ebbe così un valido motivo per rifiutarsi di assegnare il dominio a chicchessia.

Cosa deve fare un popolo per farsi notare dalla CNN? Alla fine, qualche mese fa, dopo trentacinque anni di lotta e vent’anni di silenzio, i sahariani hanno mobilitato ventimila persone, che si sono accampate nel deserto della zona occupata, vicino alla teorica capitale, chiedendo il referendum per l’autodeterminazione. L’esercito marocchino ha sfollato il campo con la violenza. Per un attimo, il mondo si è ricordato della loro esistenza; ma solo per un attimo. Da domani, ritorneranno nascosti nel deserto, dietro il muro di sabbia e di bit.

[tags]sahara occidentale, marocco, colonie, nazioni unite, polisario, icann, domini internet, .eh, stati uniti, geopolitica[/tags]

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venerdì 12 Novembre 2010, 16:07

Gli stranieri alle elezioni comunali

Un’altra notizia che ha tenuto banco sulla cronaca locale in settimana è stata quella della ragazza di origine romena che fa da guida turistica alla mostra di Palazzo Reale.

Un signore ha scritto a Specchio dei Tempi dicendo sostanzialmente: “l’altro giorno a Palazzo Reale mi sono trovato una guida romena, possibile che nessun italiano voglia più fare nemmeno questi lavori?”. Era una critica ai “bamboccioni” italiani e non tanto al fatto che fosse stata assunta una guida romena; peccato che una affermazione del genere tradisca un pregiudizio sottile, quello per cui un lavoro – specialmente un lavoro culturale, ma non fa differenza – possa essere fatto da uno straniero soltanto se non c’è nessun italiano che lo vuole fare. L’idea che la ragazza romena potesse essersi presentata ai colloqui e potesse essere risultata più capace e preparata degli aspiranti italiani proprio non aveva sfiorato il lettore.

Naturalmente il dibattito è stato caldo: tanti si sono indignati, tanto che La Stampa ha dovuto bilanciare la questione con una intervista alla ragazza, ma altrettanti hanno sostenuto che aveva ragione il lettore, che gli stranieri non dovrebbero avere un lavoro se prima non è stato rifiutato dagli italiani, che le reazioni alla lettera perplesse o addirittura indignate erano opera dei “soliti sinistrorsi”. C’è un chiaro problema di portafoglio: di fronte alla crisi, ben indottrinati dai media, gli italiani si lanciano nella guerra contro i poveri, anziché in quella contro i loro sfruttatori. Ma non è solo questione di portafoglio: qualche giorno fa parlavo con una signora di una certa età e di ottima posizione sociale, e per dieci minuti mi ha detto che “i non italiani dovrebbero stare a casa loro” e “gli altri Paesi europei sono costretti perché avevano le colonie, ma noi che possiamo dovremmo mandarli via”.

Eppure è chiaro che in una società cosmopolita e globalizzata le frontiere non funzionano più. Io (come già dissi) non sono certo a favore dell’immigrazione incontrollata e sregolata, né di una totale libertà di movimento delle persone (o delle merci), perché a fronte delle differenze globali mi pare una ricetta sicura per il disastro; eppure non posso nemmeno concepire un mondo basato sui nazionalismi e sulle autarchie, come era fino a qualche decennio fa.

Al contrario, io vorrei che Torino fosse un centro di attrazione di persone da tutto il mondo, selezionandole in positivo; accogliendo le persone capaci, aperte e volenterose e respingendo quelle che non si integrano o che delinquono. La strada per la convivenza civile, infatti, è l’uguaglianza di trattamento: chi vive qui deve rispettare le regole e pagare le tasse torinesi, e deve essere trattato allo stesso modo indipendentemente dall’origine.

Per questo trovo molto giusto che – come da norma europea – tutti i cittadini europei con residenza a Torino possano votare alle prossime elezioni comunali. E’ facile, ma richiede un’azione da parte loro: devono registrarsi presso l’ufficio elettorale del Comune, inviando una richiesta via fax con copia di un documento o presentandosi di persona. I romeni costituiscono ormai una fetta importante della nostra città, non solo numericamente, ma anche culturalmente; fatevi un giro al mercato coperto di corso Racconigi se non ci credete. Sarebbe bello se la guida romena, così come molti suoi connazionali, partecipassero attivamente anche alla vita politica della città in cui vivono: sarebbe un segnale di quanto ormai si ritengano non “immigrati romeni”, ma “torinesi romeni”.

[tags]torino, elezioni comunali, immigrazione, romania, razzismo, pregiudizi, discriminazione, guida turistica, palazzo reale, la stampa, nazionalismo, globalizzazione[/tags]

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mercoledì 3 Novembre 2010, 18:19

A volte ritornano

Sapete che da queste parti non siamo certo teneri con la busiarda, volgarmente detta La Stampa. Tuttavia, vorrei rendere onore al merito e segnalare lo spettacolare servizio inaugurato da pochi giorni: l’archivio storico di tutte le edizioni del giornale, parola per parola, dal 1867 fino al 2005, liberamente consultabile (spero per sempre).

Internet è una miniera di informazioni, ma con un grande limite: si trova tutto di ciò che è avvenuto negli ultimi dieci anni, ma molto poco di ciò che è avvenuto prima. Un servizio come quello de La Stampa apre dunque al pubblico una nuova dimensione di accesso all’informazione storica, una dimensione che prima era disponibile solo agli archivisti e a chi si prendesse la briga di setacciare tonnellate di microfilm. Quello che colpisce di più non è tanto la possibilità di recuperare la cronaca della storia, gli articoli sull’inizio e sulla fine delle guerre e dei grandi eventi del secolo scorso, che tanto sono riprodotti ovunque; è la possibilità di recuperare la cronaca spicciola di tempi ormai remoti, di scoprire dettagli di vita quotidiana di cent’anni fa altrimenti completamente perduti, e persino di indagare sulla vostra famiglia.

Mi è bastato un quarto d’ora di ricerche per scoprire, per esempio, che il mio nonno calciatore della Juve rifilò due gol al Toro in un derby dell’aprile 1922 finito 3-1 per loro; o per ritrovare un trafiletto sulla vendita di un quadro da parte del mio bisnonno pittore nel 1920. Anche voi potreste scoprire che i vostri antenati prima o poi sono finiti sul giornale, e ritrovare informazioni e vicende che non conoscevate.

Più inquietante, ecco, è veder ritornare anche i dettagli di tutto ciò che avete fatto voi in passato. Non ci è voluto molto per ritrovare l’articolo qui sotto, risalente al 1992: era il 22 luglio, un periodo in cui i giornali non hanno molto da scrivere, e La Stampa pensò bene di riempire la prima pagina della cronaca di Torino con un articolo sui giovani virgulti che avevano preso i migliori voti alla maturità; nella mia classe c’erano quattro 60/60 di cui tre con lode, e la cosa non passò inosservata. Solo che noi neomaturati eravamo già bellamente fuggiti in vacanza di branco a Diano Marina; e all’epoca non esistevano i cellulari, né altri mezzi di comunicazione che non fossero la classica telefonata dalla cabina sul lungomare, rigorosamente con i gettoni telefonici, rigorosamente dopo le 22 quando la tariffa della teleselezione calava drasticamente.

Dunque noi scoprimmo il misfatto a giochi conclusi, e così si materializzò quello che è indubbiamente l’incubo di ogni adolescente: finire descritto sul giornale, con tanto di foto, tramite un’intervista alla mamma.

maturita1992.png

[tags]la stampa, archivio, storia, cronaca, torino, maturità[/tags]

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lunedì 18 Ottobre 2010, 11:44

La vera finzione

Ho scoperto per la prima volta il lavoro degli Yes Men molti anni fa, ai tempi della loro burla ai danni della Dow Chemical. Per chi non lo sapesse, la Dow è uno dei grandi colossi multinazionali della chimica, ed è anche la proprietaria della Union Carbide, l’azienda il cui stabilimento di Bhopal, in India, provocò nel 1984 uno dei maggiori disastri artificiali della storia.

Migliaia di persone – le stime variano da 2.000 a 25.000 – morirono per una nube tossica sprigionata dallo stabilimento che, essendo in definitiva chiusura, era privo di molte misure di sicurezza (mi ricorda qualcosa). Altre decine di migliaia di persone furono rese invalide, nacquero deformi e così via. Su pressione del governo americano, i successivi processi furono depotenziati e la Union Carbide si limitò a pagare 470 milioni di dollari al governo indiano, una cifra decisamente ridotta per un disastro del genere, mentre le vittime ricevettero, quando andò bene, un sacchetto di perline (molti non ricevettero nulla). La Dow e la Union Carbide hanno sempre rifiutato qualsiasi ulteriore risarcimento, ma in maniera non esplicita: dilazionando, nascondendosi dietro gli avvocati, rifiutando i processi in India e così via.

Nel 2004, gli Yes Men – un duo di attivisti americani che nel tempo si è costruito un seguito di centinaia di aiutanti – decisero di riaccendere l’attenzione sul caso, con una burla mediatica provocatoria ma anche molto interessante per capire il nostro mondo. Prima, su un finto sito web in tutto simile a quello vero, la Dow annunciò ufficialmente di non avere alcuna intenzione di farsi carico dei danni; e non successe niente. Nessuno protestò, nessun giornalista fece articoli, nulla. Poi, con un colpo di fortuna, la BBC cercò di contattare la Dow per invitare un rappresentante a parlare di Bhopal in occasione del ventesimo anniversario – e scrisse al sito sbagliato.

Uno dei due, dunque, si travestì da portavoce della Dow, e si presentò negli studi per una intervista alla BBC. All’inizio pensavano di andare lì e dire la verità, cioè che alla Dow non frega nulla di risarcire adeguatamente i danni che ha causato, ma ormai avevano capito che la verità non interessava a nessuno: dunque dissero una bugia. In diretta su BBC World, il finto portavoce della Dow annunciò che l’azienda aveva finalmente deciso di stanziare i 12 miliardi di dollari necessari per un risarcimento decente.

Questa sì che era una notizia; tutte le agenzie la batterono, e dovettero poi dunque anche pubblicare, un paio d’ore dopo, la smentita della Dow (quella vera), che ammetteva di non avere nessuna intenzione di risarcire le vittime; e il mondo si ricordò di Bhopal.

La questione arrivò alle mie orecchie perché una delle linee di attacco della Dow fu quella che queste persone non avevano il diritto di registrare dowethics.com, visto che “dow” era un marchio registrato. La Dow è molto potente – riuscì persino a far censurare un articolo scientifico da uno dei maggiori editori scientifici del pianeta – ma l’America su queste cose è un grande Paese, per cui il sito, a norma di primo emendamento, è ancora lì (in Italia non credo che sarebbe potuto succedere).

Da allora seguo gli Yes Men, ed è per questo che stamattina, quando mi è arrivata una mail firmata dall’ufficio stampa della Chevron in cui il gigante petrolifero annuncia la campagna pubblicitaria “We Agree” e si prende l’impegno di farsi carico dei danni che causa al pianeta, ho sorriso amaramente. La burla è molto ben fatta: questo è il finto sito delle relazioni pubbliche della Chevron – notate come tutti i link rimandino al sito vero, rendendo la burla invisibile a chi non è allenato – e questo è il finto sito della campagna pubblicitaria. Vediamo se qualcuno ci casca ancora, o se anche la Chevron sarà costretta a smentire pubblicamente di volersi assumere le proprie responsabilità…

[tags]yes men, burle, multinazionali, protesta, responsabilità sociale, dow, union carbide, bbc, bhopal, chevron[/tags]

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mercoledì 13 Ottobre 2010, 11:14

C’è amore in Europa

Penso che ormai sia chiaro che gli incidenti di ieri sera allo stadio di Genova (qui le immagini delle cariche nel piazzale di Marassi) hanno poco a che fare col calcio, e molto a che fare con la politica interna della Serbia, dove i nazionalisti all’opposizione cercano di far cadere il governo, favorevole all’integrazione nell’Unione Europea, destabilizzando lo Stato e rinfocolando l’odio etnico. Si potrebbe parlare quasi di “marcia su Genova”, come seguito degli scontri violentissimi con cui queste stesse persone tre giorni fa hanno cercato di impedire il gay pride di Belgrado. Ovviamente quanto successo ieri era ampiamente prevedibile e c’è da chiedersi come mai non sia stato prevenuto; la cosa più interessante per me però è stata leggere i commenti “dal basso” a questo video su Youtube, il primo pubblicato ieri sera.

Il sentimento di base è, ovviamente, quello di amore e amicizia per il popolo serbo:

SERBI DEL CAZZO AL ROGO!!!!!!!!!! FANCULO A TUTTA LA SERBIA E A TUTTI GLI EXTRACEE ROMPI CAZZO COME VOI!!!!!!!!!!!

Nessun Italiano si è cagato sotto porci comunisti schifosi!!!!! Dateci modo di scannare questi bastardi e vi assicuro che li affoghiamo nel loro sangue. P.s. Non hanno nessun diritto di essere di destra l’unica destra al mondo è quella italiana fascista!!!

hahahahhahaa a poveri pezzenti senza coglioni meno male che vi dobbiamo dimostrare un cazzo visto che ogni tanto qualche essere proveniente dal vostro Est Europa del cazzo lo togliamo di mezzo definitivamente, ladri magnaccia voi e succhiacazzi le vostre donne ma che campate a fare aveva ragione quel signore con i baffetti a bruciarvi…. A ZINGARI CORNUTI DATEVI IN CULO. Poi piangete sui TG io no cativo…io lavora io fame ma morite a merde.

Che razza da eliminare, questi nascono proprio cani…. L’est europa andrebbe cancellato, tanto so tutti uguali se ne salva 1 su 10 schifosi.

torna a casa tua stronzo , in italia non c’è posto per voi, il mio sentimento per la serbia è come il sentimento che aveva hitler per gli ebrei , serbi tutti nei forni

Riaprite auschwitz per sti cazzo di zingari serbi, voterò anche il berlusca se serve

CACCIA AL BERSAGLIO CON LO ZINGARO BASTARDO! (due “mi piace”)

QUEL COGLIONE CHE POI FACEVA IL SALUTO ROMANO!!!!!!!!!!!!!!! SE SI RIVOLTAVA ADOLF DALLA TOMBA LO BRUCIAVA VIVO!!!!!!!!!!!!!!!!! CHISSA I MEDIA DELLA TV TEDESCA QUANDO VEDEVANO QUEL VIDEO COME SE LA RIDEVANO QUANDO VEDEVANO QUELL’HANDICAPATO FACENDO IL SALUTO ROMANO POI FAI IL SALUTO ROMANO CONTRO GLI ITALIANI?????? CHE POPOLAZIONE COMICA IL SERBO SONO IO SERBO RAZZA INFERIORE CHE SONO RAZZISTA CON TE NON TU CON ME!!!!!!!!!!!!!!!!!

la razza serba una razza di bastardi tutti figli della stessa puttana

Alcuni si spingono poi ad approfondire il vero problema della giornata: dove sono gli ultrà genovesi? Nelle logiche ultrà, ieri i supporter di Genoa e Sampdoria hanno fatto una figura di merda gigantesca: non esiste che una tifoseria ospite di qualsiasi genere venga a “spadroneggiare” nel tuo stadio e nella tua città. Infatti, durante la serata, un centinaio di ultrà delle due squadre, messe da parte le rivalità, si sono radunati davanti allo stadio in attesa dei serbi, finché la Digos non li ha fatti andar via. Dunque ci sono decine di commenti come questi:

bastardi rom del cazzo!se questa partita si fosse giocata al massimino di catania li avremmo massacrati a sti 4 pagliacci.

al nord italia questi fanno il cazzo che vogliono…sarebbero scesi da roma in giù non dico che le prendevano ma almeno gli si teneva testa

VERGOGNA! LO STADIO MARASSI LASCIATO IN MANO AGLI ZINGARI SLAVI….VERGOGNA! DOVE CAZZO STANNO GLI ULTRAS GENOVESI…DOVE CAZZO STANNO…

STE MERDE… SOLO LE LAME SOLO LE LAME SOLO LE LAME I SERBI SOLO CON LE LAME A ROMA NON FACEVANO TANTO I CAZZONI STE MERDE!!!

A NAPOLI SI DIREBBE..I SERBI HANNO FATTO I GALLI N’COPP A MUNNNEZZA! CIOE’ HANNO FATTO CASINO IN UN POSTO TUTTO SOMMATO TRANQUILLO DOVE C’ERANO PERSONE PERBENE E CIVILI……..MA UNA COSA LA DEVO DIRE SE QUELLI LI ERANO A NAPOLI ERANO PROPRIO A CONTATTO CON LA CURVA A, CHE SIGNIFICA CAMORRA E DELINQUENZA E LI CI SCAPPAVANO TANTI MORTI SAREBBERO CORSI A PIEDI IN SERBIA….ANZI A NUOTO!

Questi commenti sono insomma sulla falsariga di “genovesi codardi che non avete difeso il suolo patrio, a Roma / Napoli / Bari / Catania noi li avremmo menati e accoltellati senza tante storie”.

Seguono poi, in misura minore, i commenti di esaltazione per lo spirito libero dei tifosi serbi:

Grande lezione serba di come vanno affrontati i poliziotti,perchè quando un’italiano di 55 anni che paga le tasse protesta con un manifesto in mano,e un fischietto in bocca,la pula il fischietto glielo fa ingoiare e il manifesto glielo ficca in quel posto a suon di manganellate.I serbi hanno ottenuto la loro tanto biasimata sospensione della partita in 2 ore,mentre noi in mesi e mesi di proteste,abbiamo preso solo mazzate.

Onore alla serbia,almeno hanno le palle;qua siamo invasi da parassiti che portano al degrado e nessuno si ribella,la violenza fa pure bene al calcio!

A questo punto appare un serbo (per correttezza, ce ne sono anche altri che si sono scusati e vergognati) e reagisce così:

ITALIA DI MERDAAA!!!!!!!SIETE TUTTI FIGLI DI PUTTANA,CAGASOTTO,DITE TANTO CHE SIAMO ZINGARI E BISOGNEREBBE AMMAZZARLI,…DAI VEDIAMO SE AVETE I COGLIONI,SAPETE SOLTANTO PARLA FOTTUTI ROTTI IN CULO,SCHIAVI DI BERLUSCONI E DI QUESTO STATO DI MERDA,L’UNICA COSA CHE SAPETE FARE è MANGIARE LA PASTA E LA PIZZA,SIETE UN POPOLO DI SCHIAVI E DI CAGASOTTO,DI FRONTE HA UNA CAZZATA DEL GENERE TUTTI A DIRE DI STERMINARE DI AMMAZZARE,E QUANDO C’E QUALCOSA DI SERIO TUTTI INDIFFERENTI…. NEANCHE 200 ULTRAS SERBI,IL POPOLO ITALIANO SI è CAGATO NEI PANTALONI!!!MERDACCIE ANDATE A MANGIARE LA PASTA!!!SRBIJA ZAUVEK….JEBEM VAS VASU SMRDIVU MAJKU ITALIJANSKU!!!SVI ITALIANI STE PEDERI….SIETE TUTTI ITALIANI FINOCCHI DI MERDA!!!KOSOVO JE SRBIJA!!!cccc

Ma non è da solo, perché nel frattempo sono arrivati anche gli albanesi d’Italia a mettere in chiaro alcune cosette:

tu leone di tastiera all andata dai con tutta napoli a belgrado ke vi rispediscono a carne mascinata in nelalvostra discarica….il vero bastone per loro sono solo i albanesi perche non li metono mai nell grupo insieme questa di stasera era una risposta ai tifosi albanesi che hanno manifestato allo stadio di tirana albania etnica che cancella dalla fachia della terra la serbia.li bruchia perche la albania si sta fachendo grande..fuck gypsys serbs IL LOVE ALBANIANS

sollo noi albanesi conosciamo le bugie di questi zingari sollo noi riusciamo a farli abbassare la testa . ci hanno fregatto una volta , mai piu!

si certo i serbi sonno forti ,pericolosi,non conoscono la paura, non sapette cosa hanno fatto in guerra, io lo so cosa hanno fatto ,hanno ucciso donne, bambini ,vecchi a migliaia e gente che non si aspettava pugnalate alle spalle, ma quando si scontravano con l’UCK i serbi avevan i pantaloni bagnati perche sappevano che li avremo squartati da vivi come poi hanno fatto .

Per concludere, a un certo punto – dopo che è stato spiegato che il gesto delle tre dita fatto dai serbi si riferisce alla trinità e a “Dio, patria e zar, e non vuol certo dire “perdiamo tre a zero a tavolino” come hanno sostenuto i preparatissimi commentatori della Rai; e dato che nessuno ha capito che “zar” è il titolo onorifico dei re slavi di qualsiasi nazionalità e non vuol dire che i serbi amerebbero stare sotto i russi – arriva anche un povero russo e si dissocia:

Russia no centra con Serbia ignorante!fili bastardi sono tuoi no fili di mia Santa Madre Russia no permetere piu di parlare di Russia con Serbi per noi Russi Serbia puo brucciare domani noi siamo stanco soportare problemi di vostri Paesi.no potete parlare male di Russia anche in cosa che no centra Russi.basta

Che dire: l’integrazione europea ha un grande futuro.

P.S. Nel frattempo, fatemi esprimere la mia solidarietà al povero ciclista protagonista di una delle scene più buffe degli ultimi anni. Lui, però, non si sarà divertito.

[tags]calcio, ultras, nazionale, italia, serbia, marassi, genova, albania, russia, razzismo, fascismo, integrazione[/tags]

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lunedì 11 Ottobre 2010, 17:49

Le bombe su Pechino

È stato interessante leggere in questi giorni le reazioni all’attribuzione del Nobel per la Pace al dissidente cinese Liu Xiaobo (buona parte delle quali non sono nemmeno riuscite a scrivere il suo nome correttamente, per non parlare della pronuncia… quella corretta è qualcosa tipo liou sciaobuo). Sono state, quasi totalmente, reazioni di solidarietà al detenuto e di critica al governo cinese. Detto dunque che la detenzione di una persona per le sue idee è inaccettabile e che la Cina nel campo dei diritti umani ha ancora molto da fare, vorrei però permettermi di andare un pochino più a fondo su cosa significhi veramente questo premio.

Perché, infatti, dare il premio proprio a un dissidente cinese? Nel mondo esistono centinaia di nazioni che incarcerano o uccidono i dissidenti politici e i giornalisti scomodi. La Cina, per esempio, è il Paese al mondo che ha incarcerato più giornalisti (attualmente ce ne sono 24), ma, stando ai dati del Committee to Protect Journalists (una specie di Amnesty International per i giornalisti, forse la fonte più autorevole in materia al mondo), solo due giornalisti sono stati uccisi in Cina negli ultimi vent’anni, contro i più di cento ammazzati in Russia, spesso dai servizi segreti o dalla polizia.

Dunque la scelta di “mirare” alla Cina, da parte dei norvegesi, è stata ben precisa; lo ammettono loro stessi nelle motivazioni, dicendo che “Il nuovo status della Cina nel mondo impone l’assunzione di accresciute responsabilità”. E’ dunque ben chiaro che il Premio Nobel per la Pace non viene assegnato su criteri oggettivi, ma per motivi politici: è uno strumento per esercitare pressione su questo o quel Paese a fin di bene, minacciando in caso contrario di danneggiarne l’immagine.

Il problema, come sempre, è la definizione di “a fin di bene”. Già, perché nella diplomazia internazionale, piaccia o no, il “bene” non esiste; esistono solo gli interessi delle singole nazioni, e non succede mai che una nazione agisca altro che per essi (al massimo, può fare un beau geste per motivi di immagine e di prestigio, vedi le cancellazioni dei debiti del Terzo Mondo). Il Nobel per la Pace va dunque letto su due piani separati: l’uno, quello del riconoscimento alla persona e al suo caso, è incontestabile, ma l’altro, quello della diplomazia, è ben altra cosa.

Non può certo essere preso sul serio, in termini di diplomazia internazionale, un premio che pretenderebbe di essere super partes, ma che solo l’anno scorso è stato bellamente assegnato al Presidente della nazione più bellicosa del pianeta, un Presidente tuttora impegnato nell’invasione militare di due nazioni sovrane (con noi italiani nel codazzo). Sfugge un po’ la logica per cui il governo cinese che incarcera qualche decina di dissidenti è male, mentre il governo americano che invade Iraq e Afghanistan facendo centinaia di migliaia di vittime è bene, anzi va premiato perché porta la pace.

Veniamo ora ad alcune altre scomode verità. La prima riguarda l’effetto del premio Nobel: la logica nel darlo, si dice, è esercitare pressione sul governo cinese perché liberi Liu e aumenti la libertà di espressione. Ora, soltanto un ignorante potrebbe pensare una cosa del genere; è noto che la prima regola nel trattare con gli orientali è non far loro mai, mai, mai perdere la faccia in pubblico. Di fronte a uno schiaffo simile, il governo cinese non potrà mostrarsi debole e chinare la testa: perderebbe la faccia. Farà il minimo che sarà costretto a fare e poi, appena possibile, restituirà il favore con un altro schiaffo (per esempio rifiutandosi di rivalutare lo yuan rispetto al dollaro e inguaiando ancora di più l’economia statunitense). Le relazioni tra Occidente e Cina non miglioreranno, ma peggioreranno, e con esse la situazione dei dissidenti interni. Se veramente si fosse voluto aiutare Liu, sarebbe stato molto più utile negoziare la sua liberazione diplomaticamente e in privato.

La seconda riguarda la democrazia in Cina. Noi, essendoci spesi a “esportare la democrazia”, siamo abituati a considerarla come un valore assoluto, dimenticando che essa in Occidente è il risultato di un processo di progressiva responsabilizzazione dei singoli che è iniziato nel Medioevo e che è durato parecchi secoli; un processo che la Cina, come la Russia e altre parti del mondo, non hanno mai attraversato fino ad ora. In più, la Cina è un paese immenso, popolato da 56 etnie (alcune zone ricordano la ex Jugoslavia); un paese in cui la densità di popolazione in alcune zone rende le folle totalmente ingestibili; un paese dalle disuguaglianze sociali mostruose, in cui convivono fianco a fianco l’imprenditore miliardario su Ferrari e il contadino che lavora la terra con le mani; un paese in cui nessuno è mai stato abituato a fare altro che obbedire. La verità, dunque, è che l’unico esito di una introduzione troppo rapida della democrazia in Cina sarebbe il caos – esattamente come è avvenuto in Russia dopo il 1989 (per restaurare l’ordine c’è voluta la quasi-dittatura di Putin).

Queste due verità sono perfettamente note a tutti i professionisti delle relazioni internazionali, a cui è chiaro che questo premio è dato non per il popolo cinese ma sulla sua pelle, con lo scopo di mettere in difficoltà il loro governo, usando cinicamente l’argomento dei diritti umani. Sul piano della comunicazione di massa, poi, questo premio ha un ulteriore vantaggio: la Cina è, non da ora, il comodo capro espiatorio di tutti i problemi economici dell’Occidente. Vivi da schiavo, sei sempre più povero, hai sempre meno diritti? La colpa non è di noi governanti occidentali che stiamo eliminando alla base il welfare, depredando la cosa pubblica e spendendo i soldi di tutti per i nostri comodi, la colpa è dei cattivi cinesi.

Credo che vi sia ormai chiaro come venga usato in questi anni il Premio Nobel per la Pace: come oggetto contundente in una guerra globale. Gli americani non possono mandare i bombardieri su Pechino come hanno fatto con Baghdad e Kabul, perché la Cina è troppo grossa e potente e anche troppo furba per offrire un pretesto; e allora provano a fermare la sua ascesa cercando di provocare disordine al suo interno e di mettere in difficoltà i suoi alleati in giro per il mondo, soffiando su un sentimento anti-cinese costruito ad arte dai media della macchina di propaganda dei poteri forti occidentali… gli stessi media che, per esempio, insistono tanto sul debito pubblico dei “PIGS” in modo da nascondere il fatto che, se invece andiamo a guardare il debito complessivo nazionale verso l’estero – pubblico e privato – le nazioni in testa sono, guarda che coincidenza, ben altre.

Però stammi bene, Liu, che ad Oslo sono tutti preoccupati per te!

[tags]cina, stati uniti, liu xiaobo, premio nobel, ordine mondiale, guerra, economia, libertà[/tags]

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sabato 9 Ottobre 2010, 19:49

La bomba nell’altra

Ai militari morti in guerra in Afghanistan dentro il classico blindato italiano di cartone, oltre che il dovuto rispetto, è dovuta anche la verità. La canzone dei Negrita che gira da mesi nel circuito underground, ovviamente senza godere di visibilità sui media (pur avendo già sostituito nel ritornello “la Bibbia” con “il libro” per urtare di meno), potrebbe essere un buon inizio di un ricordo meno ipocrita; e non per mancare di rispetto all’insegnamento cristiano, ma anzi per provare a rispettarlo davvero.

[tags]afghanistan, militari, attentato, negrita, religione, papa ratzinger, berlusconi, bush, petrolio, bibbia, bomba[/tags]

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mercoledì 6 Ottobre 2010, 15:05

Il costo dei bit

Ieri pomeriggio vari giornali hanno pubblicato con evidenza la notizia di una riduzione dei costi bancari: prelievi dal bancomat e pagamenti Rid costeranno meno, e la cosa, in tempi di crisi, non può che fare piacere.

Certo, leggendo l’inizio dell’articolo viene subito qualche dubbio: “In arrivo tagli fino al 36% per le commissioni interbancarie”. Non siete buoni consumatori se non sapete che quando vi dicono “fino al” stanno cercando di allettarvi con vantaggi invariabilmente molto più consistenti rispetto a quelli che si applicheranno al vostro caso; certo, in teoria un giornale dovrebbe fare informazione e non marketing… in teoria.

E infatti, leggendo bene si scopre che il taglio del 36% riguarda solo la commissione tra banche per i Rid, ovvero l’addebito in bolletta nel caso in cui la vostra banca sia diversa da quella del vostro creditore. La commissione in questione scende a 16 centesimi di euro, una concessione già un po’ dubbia se si considera il fatto che l’Europa ne impone l’azzeramento a partire dal 2012; ma anche allora, specifica l’articolo, verrà comunque addebitato il prezzo del “servizio di allineamento elettronico archivi” pari a 7 centesimi. Beh, direte voi, se è un servizio a pagamento potrò disdirlo, no? Non lo so, ma sono pronto a scommettere che non troverete una banca disposta a farvi il Rid, gratuito per legge, senza che voi compriate l’allineamento elettronico degli archivi. Mica vorrete che i loro archivi restino disallineati, no? D’altra parte mi sfugge come si possa completare una transazione tra due parti senza aggiornare allo stesso modo i loro archivi: è un po’ come dire che il biglietto del pullman è gratis ma il servizio di apertura porte per farti scendere è a pagamento.

Peggio ancora se esploriamo le altre “riduzioni”: la commissione per il Pagobancomat scende di “oltre il 4%” (addirittura!), da 13 a 12 centesimi; quella per i prelievi Bancomat scende da 58 a 56 centesimi. Troppa grazia, vero? E poi, queste sono commissioni interbancarie (pagate da banca a banca) e voglio vedere quante banche trasferiranno gli sconti ai prezzi praticati ai clienti.

Vale la pena di fermarsi un attimo a pensare: per che cosa stiamo pagando queste cifre? Per quanto ci sia dietro un pochino di investimento (nel caso del Bancomat c’è da pagare il costo iniziale della macchinetta, oltre ai dieci minuti di lavoro di un dipendente della filiale per riempirlo regolarmente di denaro), si tratta di servizi sostanzialmente virtuali. Un addebito Rid è, sostanzialmente, un aggiornamento di due cifre in due database, togliendo tot soldi da un conto e aggiungendoli sull’altro – una operazione che un computer fa in una frazione di secondo. Il costo di queste operazioni non è proprio zero, ma non è molto di più.

Tutto questo mi ricorda uno dei grandi business del terzo millennio: gli SMS. Forse non tutti sanno che gli SMS sono messaggi di pochi byte che non usano nemmeno i canali di trasmissione della voce, ma vengono inviati sulla rete di segnalazione, ovvero su quei canali di comunicazione che l’operatore cellulare usa per gestire le varie celle della rete, tracciare gli utenti e aprire le chiamate (questo spiega perché spesso gli SMS funzionino anche quando non si riesce a chiamare). In altre parole, i messaggi viaggiano su una infrastruttura che già esiste, sfruttando il fatto che essa rimarrebbe vuota per gran parte del tempo. Il costo di un SMS per l’operatore può tranquillamente essere equiparato a zero; è vero che è necessario qualche server e un po’ di elaborazione, ma il relativo costo, spalmato sui miliardi di SMS che circolano, è trascurabile – tanto è vero che, nei primissimi anni della telefonia mobile, gli SMS erano gratis.

Il prezzo pagato per trasmettere un SMS è dunque da considerarsi stratosferico, e fissato da una sola cosa: dalla possibilità del cartello degli operatori di chiedere più o meno il prezzo che vogliono. Non si spiegherebbe se no come mai, per esempio, mandare un SMS dalla Lituania all’Italia costi 11 centesimi: per molti utenti, meno di quanto costa mandarlo dall’Italia. In realtà, costa 11 centesimi solo perché esiste una disposizione europea che fissa tale cifra come prezzo massimo per gli SMS in roaming intra-europeo – altrimenti, come una volta, ne costerebbe tranquillamente 20 o 50.

In una economia di prodotti immateriali, talvolta (non sempre, ovvio) producibili a costo sostanzialmente nullo, il ruolo dei governi e degli enti regolatori diventa fondamentale: sono gli unici che possono assicurarsi che la cornucopia magica della riproduzione digitale vada a vantaggio della società e non solo a vantaggio di poche grandi aziende. La realtà, purtroppo, è ben diversa. Per esempio, a livello nazionale, la competenza sul prezzo degli SMS è dell’AGCOM: possiamo augurarci buona fortuna.

[tags]economia, immateriale, banche, bancomat, prezzi, sms, cellulari, oligopolio, regolazione[/tags]

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lunedì 27 Settembre 2010, 19:17

Dopo Cesena, il sole

L’evento di Cesena è andato oltre le mie aspettative, lo dico subito: come sapete temevo di finire sotto la pioggia nel pantano a sorbirmi musica poco interessante, e invece… invece sono stati davvero due giorni indimenticabili, baciati dal sole e dall’energia naturale e rinnovabile delle persone. Aveva ragione Beppe: per un Movimento fuori dagli schemi è stato davvero meglio fare una festa così, con una marea di gente contenta solo per essere lì con altra gente che condivide la stessa visione del mondo e la stessa voglia di cambiamento, piuttosto che organizzare una serie di incontri e dibattiti nello stile della politica tradizionale.

Che poi, come saprete, gli incontri li abbiamo organizzati, e sono andati bene, e sono stati interessanti, e però… a un certo punto, di fronte all’ennesima discussione sulla teoria della politica partecipativa, credo di aver visto la luce… e sono tornato sotto il palco ad ascoltare la musica in mezzo a decine di migliaia di persone. Perché sì, le teorie sono importanti, le idee sono importanti, l’organizzazione è importante; ma prima ancora è importante l’empatia, il sentirsi parte del tutto, un pezzo di una armonia. Sì, è importante la politica, entrare nelle istituzioni per cambiarle, ma prima ancora è importante non perdere il contatto tra noi, non isolarci, non venire così presi dalle discussioni politiche da perdere di vista che il cambiamento più importante è quello culturale, è lo stare insieme con un sorriso – un atto assolutamente rivoluzionario, in una società che ci vuole soli e inermi di fronte al controllo e alla schiavitù morbida del consumo.

A Cesena si è ricreata per due giorni quell’atmosfera magica che già ci aveva avvolto verso la fine della campagna per le elezioni regionali; quella in cui tutti condividono l’obiettivo, in cui non esiste io che non sia parte del noi, del grande flusso delle cose. Spero che quella atmosfera possa arrivare un po’ anche qui a Torino, dove il clima, a livello di Movimento cittadino, è alle volte tutt’altro. Spero che, se proveremo a cimentarci con il cambiare la città, lo faremo sul serio: portando migliaia di persone in piazza per un mondo nuovo, invece di chiuderci in una stanza a parlare di politica litigando pure tra di noi; perché davvero ho la sensazione che la politica, senza l’energia del sogno, potrà soltanto farci marcire.

Volevo comunque ringraziare tutti quelli che ho conosciuto o ritrovato e con cui ho scambiato due chiacchiere, e perdonatemi se in certi momenti ero fuso dalla stanchezza, se magari non vi riconosco al volo, se non sento bene cosa dite. Vorrei applaudire vari artisti, alcuni hanno davvero spaccato (cito i Linea 77 e il Teatro degli Orrori, ma ce ne sarebbero tantissimi, e non li ho nemmeno sentiti tutti, anzi non perdonerò la discussione che mi ha fatto perdere l’esibizione di The Niro). Mi piacerebbe montare un filmato del dietro le quinte, per farvi vedere cosa è stato davvero – dall’incontro di wrestling con la bici del consigliere Bono da mettere sulla cappelliera del treno, fino alla cura maniacale della raccolta differenziata (però dalle nostre tende non c’erano i bidoni, maledetti! ho dovuto trasportare tutto per un pezzo).

Intanto, comincio con questo: i primi dieci minuti del concerto “after hours” organizzato dal Movimento 5 Stelle Piemonte (cioè da Paolo Vinci, l’unica persona veramente indispensabile senza cui il Movimento piemontese non sarebbe mai esistito). A forza di portarsi a spalle casse e mixer, Paolo è riuscito a far esibire a Woodstock 5 Stelle nientepopodimeno che Tony Troja (che poi, partecipando alle nostre discussioni e girando per la festa, si è rivelato davvero un grande). E’ stato un momento di felicità condivisa; e in fondo è noto da tempo che solo una risata li potrà seppellire.

[tags]woodstock 5 stelle, w5s, cesena, beppe grillo, movimento 5 stelle, tony troja, linea 77, teatro degli orrori, politica, energia[/tags]

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