Meno clic e più welfare
Della vicenda di Paola Caruso, giornalista precaria del Corriere della Sera che ha iniziato lo sciopero della fame e della sete per farsi assumere, hanno parlato un po’ tutti in questi giorni. Lei stessa spiega così la sua situazione: “da 7 anni lavoro per il Corriere e dal 2007 sono una co.co.co. annuale… Aspetto da tempo un contratto migliore… La scorsa settimana si è liberato un posto… Ho pensato: “Ecco la mia occasione”. Neanche per sogno. Il posto è andato a un pivello della scuola di giornalismo”. E’ la storia di tanti italiani precari tra i venti e i quarant’anni, e infatti sul momento c’è stata un’ondata di simpatia e di clic su “Mi piace”, e la sua iniziativa è stata promossa da Macchianera e rilanciata dai maggiori blog italiani, da Gilioli a Mantellini. Poi però sono cominciate le critiche – le meglio argomentate che ho trovato sono questa e questa.
Trovo ragionevole quasi tutto quel che è stato detto, da una parte e dall’altra. E’ vero che le aspettative della signora Caruso sono quantomeno irrealistiche: il Corriere della Sera, come tutti i quotidiani cartacei, è in stato di crisi e fa fatica a pagare gli stipendi, figuriamoci a regolarizzare i precari; anche a me magari piacerebbe fare l’astronauta assunto a tempo indeterminato, ma di questi tempi non conosco nessuno che assuma astronauti; e l’argomento per cui “sono in coda da sette anni dunque ora tocca a me” è una cosa che proprio non condivido, dato che molte delle disgrazie italiane derivano proprio dall’idea che non conti il merito ma lo “stare in coda”; concetti come “si è liberato un posto” (indipendentemente da requisiti, mansioni, capacità necessarie ecc.) ricordano più le corti dei feudatari, che fanno e disfanno le fortune dei sudditi, che una società moderna; il fatto di essere rimasti lì fermi per sette anni, invece che trovarsi nuove attività e condizioni migliori da soli, secondo me è un demerito e non un merito; infatti, tanta gente nella stessa situazione ha semplicemente aguzzato l’ingegno e si è sbattuta fino a venirne fuori; ed è pure vero che la gara alla protesta più clamorosa non mi piace, se no finiremo a dare il lavoro a chi grida più forte.
Però… c’è anche il però. Però non si può pensare che una persona che lavora da sette anni, anche non fosse così brillante da meritare un contratto principesco, possa restare all’infinito senza alcuna certezza. E non si può pensare che le difficoltà di un intero settore vengano scaricate soltanto su alcuni, sui più giovani e deboli, mentre magari a fianco c’è la grande firma che prende migliaia di euro al mese ma si rifiuta di adattare il suo pezzo per la versione Web o di leggere i commenti dei lettori perché “da contratto non sta tra le mie mansioni” (pensate voi all’equivalente sul vostro posto di lavoro).
Dunque è sbagliato pensare di affrontare questa questione guardando il caso singolo, ed è invece necessario guardarla a livello di sistema. Per quanto pochi soldi ci siano nella nostra economia, non è accettabile che essi siano distribuiti in maniera totalmente iniqua, garantendo a certe professioni, generazioni e classi delle garanzie che spesso sconfinano nel privilegio, e costringendo gli altri ad accettare qualsiasi trattamento pur di lavorare. Mi spiace che tante persone reagiscano con “zitta e lavora”: certo, in Italia dobbiamo lavorare meglio e di più, dobbiamo rimboccarci le maniche per ricostruire un Paese, ma prima dobbiamo essere sicuri che lo facciano tutti, con equità di trattamento.
Molte proposte secondo me intelligenti circolano da anni: quella di un unico contratto per tutti i lavori di concetto, senza fare figli e figliastri a seconda del settore; quella di abolire la selva di tipologie di contratto (indeterminato, determinato, co.pro, partite IVA che fanno fattura sempre alla stessa azienda…) e averne uno solo, in cui le garanzie sul posto di lavoro aumentano con l’esperienza e la qualifica, ma non sono legate al “salto” da precario ad assunto; quella di un sistema di assistenza a chi perde il lavoro che non dipenda dal tipo di contratto, ma che garantisca un reddito pieno per il tempo necessario a cercare un nuovo lavoro, esaurendosi poi progressivamente per evitare di creare disoccupati di professione; quella di un sistema pensionistico basato finalmente solo sui soldi versati da ognuno, con una integrazione ai minimi finanziata con la fiscalità generale e non con i contributi degli altri lavoratori, e magari anche con un contributo di solidarietà a carico delle pensioni più elevate, specialmente quando, grazie al vecchio sistema retributivo, sono superiori ai contributi effettivamente versati.
Sono idee, sono da elaborare, da verificare… ma almeno sono possibilità per un cambiamento vero. Altrimenti, se stiamo tutti a lamentarci e al contempo stiamo tutti arroccati su ogni briciola di “diritto acquisito”, non succederà mai niente, se non una disperata guerra tra poveri.
[tags]paola caruso, corriere della sera, precariato, giornalismo, economia, welfare, pensioni, contratti, contributi[/tags]