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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


giovedì 1 Luglio 2010, 22:29

Dov’è finita la violenza

Ieri è passato nel silenzio quasi totale un anniversario importante: il cinquantenario dei fatti di Genova del 30 giugno 1960. E questa cosa mi è venuta in mente perché, l’altra sera a cena, un parente che ha vissuto da ragazzo gli anni ’70 mi ha detto “Visto il clima politico ed economico, sono piuttosto stupito, favorevolmente, che nessuno si sia ancora messo a sparare”.

Cinquant’anni fa, a Genova, la violenza eruppe per molto meno; l’Italia non era governata da un pluri-indagato e nemmeno moriva (più) di fame, anzi si era proprio nel punto massimo del “boom economico”. Il carburante della protesta fu la nascita del governo Tambroni, un governo democristiano di minoranza che sopravviveva con il sostegno esterno del MSI; e la scintilla fu la decisione dei missini di tenere il proprio congresso a Genova, riportando in città il famigerato podestà Basile, che l’aveva governata ai tempi del fascismo.

Contro tale decisione, contro un clima di riabilitazione del fascismo, centomila persone scesero in corteo e ci furono gravi incidenti; ovviamente i resoconti anche dopo cinquant’anni non concordano, ma potete leggere la versione dei comunisti (da un sito con falce e martello), la versione dei fascisti (da un blog di destra) e la versione dei fascisti lavati a Fiuggi (da Wikipedia: dove altro si potrebbe trovare una enciclopedia che descriva uno scontro di piazza parlando di “sapiente regia comunista delle manifestazioni”?).

Comunque, l’Italia di allora era pronta a occupare le piazze e scontrarsi violentemente con la polizia anche solo all’idea che i fascisti potessero appoggiare un governo dall’esterno – e con successo, dato che il governo Tambroni cadde dopo meno di tre settimane. Adesso, invece, viviamo in un regime che è oggettivamente mezzo fascista – nell’occupazione del potere, nella censura esplicita dei mezzi di comunicazione di massa, nelle intimidazioni e nele restrizioni verso i magistrati che indagano sugli abusi del potere, nelle minacce ed epurazioni verso chiunque non si allinei – eppure in piazza scendono delle minoranze, e soprattutto queste minoranze vanno lì, ascoltano il comizio di turno – talvolta hai l’impressione che qualcuno faccia i comizi di opposizione per mestiere, perché anche la poltrona di opposizione totale è pur sempre una poltrona – e poi tornano a casa e non succede niente.

Probabilmente è cambiato il mondo; culturalmente, la violenza è sempre meno accettabile ed accettata. Una volta ogni trent’anni si macellavano le generazioni, adesso la guerra diventa uno scandalo anche per una sola vittima; i nostri nonni si ispiravano a Garibaldi, e noi ci ispiriamo a Gandhi; solo trent’anni fa in Commando Schwarzenegger andava in tripla cifra a forza di mitragliatrice, e ora invece persino nei film d’azione non muore più nessuno. E questo, indubbiamente, è un bene… o lo sarebbe se non ci avesse reso (per caso, per strategia?) imbelli, indifesi, sottomessi a un potere che, quando vuole, sa benissimo come usare la violenza e anche come coprirla e farcela accettare.

Per certi versi, la nostra nonviolenza è una forma di codardia, di paura di assumersi le proprie responsabilità di animale in lotta per la sopravvivenza e di rischiare per esse il dolore fisico; per altri è una forma di coraggio, per cercare di vincere le proprie battaglie da essere umano e senza ridiventare belva.

Alla fine, forse non siamo aggressivi perché non abbiamo abbastanza fame. Siamo ancora troppo ricchi e ben pasciuti, abbiamo ancora troppi ninnoli tecnologici e troppi bisogni superflui per arrabbiarci davvero. Quando arriverà la fame vera, probabilmente tornerà anche la violenza.

[tags]genova, 30 giugno 1960, manifestazioni, partigiani, msi, tambroni, destra, sinistra, guerra, violenza, nonviolenza[/tags]

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sabato 26 Giugno 2010, 15:50

L’economia delle TLC spiegata per voi

Stefano Quintarelli ha preparato un bellissimo video che, in poco più di un quarto d’ora, spiega chiaramente e in modo comprensibile a tutti l’attuale situazione di stallo nelle telecomunicazioni italiane, quella per cui, in assenza di scelte politiche forti, siamo destinati a rimanere indietro nell’infrastruttura più cruciale per il nostro sviluppo.

Per sostenere l’economia, la cultura, l’informazione e tutti gli altri settori avanzati da Internet è necessario contemporaneamente dotarsi di una infrastruttura costosa (ma non così tanto) e necessariamente unica per tutti, una rete capillare in fibra ottica, e aprire tale infrastruttura a una vera concorrenza e dunque all’innovazione competitiva continua, anziché vivacchiare in un mercato dominato da Telecom Italia.

Sarebbe un investimento remunerativo (secondo i conti di Quintarelli, la ricaduta per ogni euro investito sarebbe venti volte superiore a quella della TAV Torino-Milano, per esempio) e a cui non vi sono alternative (il wi-max non lo è) ma che l’industria privata non ha né le possibilità né l’interesse di finanziare. Ci vorrebbe un governo lungimirante, come quelli che cinquant’anni fa costruirono le autostrade, cent’anni fa costruirono la rete telefonica e centocinquant’anni fa costruirono la rete ferroviaria – tutte infrastrutture che all’inizio sembravano quasi un lusso, ma senza le quali oggi saremmo ancora nelle capanne di fango. Il problema è che, oggi, un tale governo non si vede all’orizzonte.

[tags]telecomunicazioni, internet, economia, rete, telecom italia, wimax, quintarelli[/tags]

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lunedì 14 Giugno 2010, 19:37

I maleducati

Oggi pomeriggio tornavo a casa col 2 – il bus che in teoria doveva costituire l’ossatura della rete dei trasporti di Torino, e che in pratica non passa mai.

Sono salito dalla porta davanti, occupando l’unico spazietto disponibile: infatti tutta la parte anteriore del bus, proprio dietro l’autista, era occupata da una giovane signora di colore con un passeggino, in cui stava un bambino altrettanto di colore. In pratica non era possibile procedere oltre, e dalla porta rimaneva giusto lo spazio per una persona (me). E ovviamente ho pensato che la signora poteva anche salire dalle porte centrali, dove c’è un apposito spazio per passeggini e carrozzine, invece di infrattarsi nello stretto passaggio anteriore.

Alla fermata successiva si presentano davanti alla porta due signore autoctone sui sessant’anni, ingioiellate, di quelle che non si capisce cosa ci facciano nell’estrema periferia di corso Trapani, così lontano dalla Crocetta. Io penso che, visto che lo spazio è occupato, cammineranno per tre metri per andare a salire dalla porta centrale. E invece no: le due signore piazzano un piede sul bus, si mettono dietro la signora di colore e cominciano a gridare “Permesso! Ma vada un po’ più avanti!”. Il passeggino viene spinto in avanti di venti centimetri, grazie a una ulteriore compressione delle persone dentro il pullman.

Le due signore salgono, il pullman parte, ma loro non sono contente. Continuano a ripetere a voce altissima “Ma non può andare un po’ più avanti?”. Alla quarta volta, neanche ci fossimo messi d’accordo, sia io che la signora sbottiamo dicendo all’unisono che il bus è pieno e non si capisce dove dovrebbe andare il passeggino. A quel punto, forse avendo capito di non essere due contro uno, si zittiscono. In compenso, una delle due si infila tra il passeggino e il gabbiotto dell’autista, mentre l’altra commenta testualmente: “Ah, i bei tempi che furono!”

Dura poco: perché arrivati in piazza Rivoli una delle due deve scendere. Peccato che, sistematasi dietro il passeggino, non riesca più a muoversi: a quel punto chiede alla signora di colore se scende. La signora col passeggino dice di no, e a quel punto l’anziana si arrabbia, perché siamo già alla fermata; praticamente tira un calcio al passeggino cercando di spingerlo fuori dal bus, per poter passare. Dopodiché in qualche modo passa, scende, si gira e fa “Certo che voi siete dei gran maleducati!”, stando bene attenta ad evidenziare il “voi”.

Ecco, sul punto dell’educazione forse avrei qualcosa da ridire… E’ sicuramente vero che i bambini africani non vengono educati a timbrare il biglietto, a salire da davanti per scendere in mezzo (regola peraltro già abolita da anni), e ad alzarsi per far sedere gli anziani; questo perché – forse vi sorprenderà saperlo – in buona parte dell’Africa non esistono i bus urbani come li intendiamo noi (il trasporto pubblico locale, dove motorizzato, è svolto solitamente da furgoncini sovraccarichi) e spesso non esistono nemmeno gli anziani (l’aspettativa di vita media in Nigeria è di 47 anni). In questo senso, gli africani sono certamente maleducati; d’altra parte starebbe a noi educarli quando arrivano qui, spiegandogli come funzionano meccanismi che noi diamo per scontati, ma che scontati non sono.

Quanto alla buona educazione intesa in termini di rapporti e di rispetto per gli altri, forse lì noi abbiamo poco da insegnare.

[tags]torino, immigrazione, autobus, educazione, rispetto[/tags]

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martedì 1 Giugno 2010, 18:59

Non parlarsi, non capirsi, sparare con le parole

Facebook può essere una finestra interessante sul mondo, perché mette insieme, gomito a gomito, le conversazioni di persone diverse. Se i vostri amici sono tutti dello stesso giro le conversazioni saranno simili, ma se avete amici di ambienti, estrazioni e nazionalità diverse, il risultato è spesso vicino al teatro dell’assurdo; fianco a fianco, serissime discussioni sul futuro del mondo e scherzi tra tifosi di calcio; appelli contro l’inceneritore e invocazioni di nuove autostrade; giochini stupidi e trattati di economia.

Mai come in questi due giorni, però, il mio Facebook è stato il simbolo dell’incomunicabilità. Eliminando le discussioni futili, nove thread su dieci sono dedicati ad attaccare Israele, a chiederne la radiazione dal consesso internazionale, a organizzare cortei e manifestazioni, a minacciare di bruciare le ambasciate, a gridare appellativi come pirati, terroristi, nazisti, assassini. Il decimo thread è di amici ebrei o vicini a loro, che si lamentano della campagna mediatica di odio antisemita scatenatasi in tutto il mondo.

Le due posizioni non si parlano, non si capiscono. Le tragedie che si portano appresso finiscono anzi banalizzate nei giochini dell’ideologia italica, nelle provocazioni di Feltri per vendere qualche copia in più (che riprendono peraltro gli editoriali di giornali israeliani) o nei pacati commenti di Diego Novelli (“Un gruppo di criminali governa Israele”) e di Giulietto Chiesa (“Il 31 maggio 2010 Israele ha dimostrato al mondo di essere divenuto il pericolo principale per la pace e la sicurezza del mondo”). Finiscono in una grande fiesta di editoriali da divano.

Io, in Israele, non ci sono mai stato. Ho conosciuto persone che ci hanno vissuto, che venendo da noi ancora si stupiscono di come sia possibile entrare in un centro commerciale senza trovarci un metal detector all’ingresso, e che quando prendono un autobus non riescono a non avere paura di saltare in aria.

E ho un ex compagno di università libanese che ogni tanto mi manda dei bei powerpoint pieni di teste mozzate di bambini palestinesi e altre atrocità del genere; tanti anni fa mi raccontava che quando ammazzarono Rabin (un premio Nobel per la Pace) lui e la sua famiglia andarono a fare caroselli suonando il clacson per il centro di Beirut. E quando giocavamo a Risiko, lui si disinteressava completamente della partita; il suo unico obiettivo era conquistare il Medio Oriente e da lì fare attacchi suicidi, un carrarmatino alla volta, contro i paesi confinanti. (Una volta, un carrarmatino alla volta, distrusse una dozzina di armate del padrone di casa, che lo buttò fuori a calci dall’appartamento: non c’è nulla come Risiko per distruggere le amicizie.)

Un odio così non lo capisco, non è proprio concepibile; e non capisco come si possa essere fiduciosi per la pace. Realisticamente, temo che nulla potrà risolvere questa situazione se non, a scelta, un muro alto alto alto (più alto dei razzi Qassam) oppure l’eliminazione completa dall’area di uno dei due contendenti (e, vista la demografia, non saranno certo gli arabi). Non mi posso permettere di pensare che se fossi israeliano o palestinese sarei senz’altro un pacifista; è troppo facile pensarlo da qui. Dunque, non mi posso nemmeno permettere di giudicare; trovo che la maggior parte delle parole che volano in questi giorni, da parte di persone che hanno responsabilità istituzionali così come da parte di chi fa informazione, siano insensibili, inappropriate e dette con grande leggerezza; e che sparare sentenze, in situazioni di questo tipo, non sia poi troppo lontano dallo sparare pallottole.

[tags]israele, palestina, assalto, gaza, informazione, facebook, politica, medio oriente, feltri, novelli, chiesa, pacifismo[/tags]

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martedì 11 Maggio 2010, 11:31

Ripagare le banche con la loro moneta

Il bello dei dogmi è che, dato che non possono essere messi in discussione, permettono di prevedere con certezza cosa succederà. I dogmi di questi giorni, per la precisione, sono due: il fatto che anche gli Stati, come già le banche, non debbano fallire, e il fatto che l’Europa debba essere unita da una sola moneta. E sono talmente forti che alla fine la Merkel ha accettato di perdere le elezioni in casa propria pur di non doverli rinnegare.

E’ chiaro che noi stiamo stappando champagne: la strada imboccata dall’Europa vuol dire che possiamo continuare a fare debiti in allegria, tanto li pagheranno i tedeschi, gli olandesi, gli austriaci e così via; anzi ora abbiamo tirato dentro pure il Fondo Monetario Internazionale, per cui li pagheranno anche gli americani, i giapponesi e persino i brasiliani, gli indiani e i cinesi. In questo senso, la nostra entrata nell’euro è un capolavoro di pacco all’italiana.

D’altra parte, gli economisti escono da questo fine settimana con le ossa ancora più rotte: per motivi politici, la Banca Centrale Europea ora si metterà a comprare i titoli di Stato del Sud Europa per stabilizzarne il mercato. E con cosa pagherà questi acquisti? Si è parlato di una “tassa europea” di qualche genere, anche se limitata alle transazioni finanziarie; e questa è la via che spiacerebbe di meno ai finanzieri, anche perché sarebbe un ulteriore passo avanti verso l’“unione europea dei banchieri”, accentrando per la prima volta nella Storia il potere di imporre tasse nelle mani dell’Unione e dunque sottraendo ancora un po’ di sovranità agli Stati nazionali. La verità però è un’altra; che, alla fine, se la crisi peggiorerà (e prima o poi i debiti verranno al pettine), l’unica cosa che potrà fare la BCE è stampare euro, facendo crollare il pilastro della politica monetaria europea da quando esiste la valuta unica – quello che gli Stati non possono finanziare la propria allegra spesa pubblica con la stampa di nuova moneta.

Dal punto di vista politico sono due le visioni che si scontrano; da una parte, gli economisti e i liberisti sostengono che la crisi non è causata da loro, ma dai livelli insostenibili di spesa pubblica abbracciati dai politici del Sud Europa a fronte di una crescita insufficiente; dalle baby pensioni calcolate col sistema retributivo, dalla bassa produttività dei lavoratori, dalla eccessiva spesa in cassa integrazione e in incentivi per sostenere aziende decotte e fallimentari, in generale dalla “bella vita” che greci, spagnoli e italiani farebbero. In questa visione l’unica via d’uscita possibile è data da tagli e sacrifici per le persone, e manovre di “copertura” come quella di sabato sono solo l’ennesimo atto irresponsabile da parte di politici populisti.

Dall’altra, c’è la visione anticapitalista per cui la crisi è solo l’ennesimo sussulto di manovre speculative globali, in cui una manciata di banchieri americani prendono di mira questa o quella nazione per arricchirsi sul suo affossamento e poi arricchirsi di nuovo con i soldi pubblici immessi nel sistema per evitarlo; e per cui la colpa della situazione mondiale ricade proprio sugli economisti, sui finanzieri e su tutti coloro che hanno disegnato e gestito l’economia globale per trent’anni, e che non sono in grado di affrontare il cambiamento di scenario dovuto all’esaurimento dello spazio di crescita.

Qual è la verità? Probabilmente sono vere entrambe; è vero che, in Grecia come in Italia, il debito cresce in maniera irresponsabile e molto denaro viene sprecato in privilegi, sprechi e ruberie, espressamente voluti dal sistema politico per motivi di interesse personale o di consenso politico; ed è vero che le ricette “lacrime e sangue” proposte dalla finanza internazionale solitamente vogliono scaricare sulla classe media i sacrifici, a fronte dell’arricchimento e della speculazione di pochi, cercando poi di ritornare al “business as usual” – e chi ha fatto i soldi se li tiene.

Per questo la discussione su chi abbia ragione mi interessa poco; certo l’idea di ripagare Francia e Germania rendendo carta straccia la moneta che hanno fortemente voluto è interessante; sul fatto che ciò possa preludere a un luminoso futuro (o che possa portare ad altro che alla forzata esplosione dell’Unione Europea) sono però molto scettico. La verità è che la nostra economia è un camion fermo col motore fuorigiri, a cui pare avvicinarsi uno tsunami; come ripartire in tempo per evitarlo, e soprattutto in che direzione muoversi, pare non saperlo nessuno.

[tags]economia, banche, europa, euro, bce, grecia, italia, debito pubblico, finanza[/tags]

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mercoledì 28 Aprile 2010, 18:14

Tragedia greca

Penso che abbiate tutti capito perché i tedeschi sono così riluttanti ad assumersi la loro quota del piano di salvataggio del debito pubblico greco, nonostante l’energia con cui vari paesi, noi in testa, facciamo pressione su di loro. Il problema infatti non è la Grecia, ma la consapevolezza che, se questa è la via, poi ai tedeschi toccherà pagare anche il debito pubblico del Portogallo, dell’Italia e forse di qualche altro paese.

Visti con distacco, gli economisti maghi del PIL sembrano prigionieri in un labirinto senza uscita. I debiti pubblici dei paesi mediterranei non possono non essere ripagati, perché altrimenti l’euro si affossa, o in alternativa l’Europa si spezza, o magari entrambe le cose insieme; ma per ripagarli bisogna tirare fuori i soldi da economie già asfittiche e “premiare gli spreconi coi soldi di chi ha risparmiato”. Eppure il dogma è che l’economia deve crescere; per crescere, ogni volta che l’economia ristagna, bisogna indebitare lo Stato; ma se l’economia non è efficiente e non cresce rapidamente, questi debiti non si ripagheranno mai, e continueranno ad aumentare di generazione in generazione fino a divenire sostanzialmente privi di significato.

Già, ma una economia più efficiente significa maggiore produttività, quindi aumento della produzione, quindi un maggior consumo delle risorse naturali; e di risorse naturali ce n’è più poche. In alternativa, maggiore produttività significa produrre le stesse cose con meno lavoro, ossia un aumento della disoccupazione, o con lavoro meno costoso, chiudendo direttamente le fabbriche qua per riaprirle là.

Insomma, dovunque ci si giri si sbatte la testa; la soluzione a tutti i mali, la crescita del PIL che compensa l’aumento di produttività con nuovo lavoro e nuovi consumi, nei paesi sviluppati non pare più possibile; e a dire il vero, a ben guardare, negli ultimi decenni essa si è spesso rivelata possibile soltanto grazie all’aumento del debito pubblico, ossia prendendo a prestito ricchezza dai nostri nipoti per usarla qui, ora, egoisticamente per noi; per continuare a negare la realtà, ovvero che c’è un limite a quanto possiamo sognare di diventare ricchi.

Verrebbe da dirsi che la soluzione è continuare a far finta di niente: la Grecia è indebitata al 120% del PIL? E lasciamola arrivare al 240%, al 360%: che ce frega? Sono numeri privi di significato. Nello specifico rappresentano debiti concreti in cui qualche imbianchino tedesco o qualche compagnia uzbeka o qualche banca brasiliana rischia di perdere i propri risparmi, ma nell’aggregato che cosa sono? Sono un debito che sale per definizione sin da quando è stata inventata la finanza moderna, che non scenderà mai, e che ogni tanto bisogna far finta di voler ripagare, sapendo benissimo che ne abbiamo lasciato accumulare talmente tanto che ciò non è più realisticamente possibile. I soldi depositati dalla compagnia uzbeka nella banca brasiliana non ci sono più, ma tanto mica tutte le compagnie uzbeke li vogliono prelevare; finché non li chiedono indietro, non succede niente.

D’altra parte, è dagli accordi di Bretton Woods che la nostra moneta non corrisponde più alla realtà; è soltanto carta con valore infuso per fiducia, è una forma di religione collettiva. Il valore teorico di tutta la carta che c’è in giro è decine di volte superiore alla ricchezza materiale esistente, il che significa che se veramente provassimo a spenderla tutta insieme, in un momento di emergenza, scopriremmo che i nostri risparmi non valgono niente. Il vero significato del debito pubblico non è economico, ma politico: è il modo con cui chi gestisce la finanza internazionale può ricattare i governi e controllarli. E da quando noi non possiamo nemmeno più stamparci moneta da soli, questa è una forma di ricatto a cui non possiamo sfuggire.

[tags]grecia, italia, germania, debito pubblico, pil, crescita, finanza, moneta, bretton woods, ricatto[/tags]

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sabato 17 Aprile 2010, 18:19

Streaming

Domani la terza riunione del Movimento 5 Stelle Piemonte – dalle 10 fino al pomeriggio – sarà trasmessa in streaming, con la possibilità di commentarla in diretta (e, tramite i commenti, sollevare questioni a chi è là).

Vorrei complimentarmi con il mio stesso gruppo, perché questa è la miglior risposta alle osservazioni che io ho fatto sul mio blog giorni fa. Pur conservando la mia diversa opinione sulle scelte effettuate dal Movimento in materia di organizzazione interna e di procedure di selezione dello staff, è evidente la buona fede del gruppo, che ha messo in piedi uno sforzo organizzativo importante per tenere subito fede alle promesse di trasparenza effettuate in campagna elettorale.

Spero adesso in una buona partecipazione di pubblico, per provare che davvero c’è un interesse non soltanto di principio, ma fattivo, all’esercizio della democrazia partecipativa.

[tags]movimento 5 stelle, trasparenza, democrazia partecipativa[/tags]

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giovedì 8 Aprile 2010, 19:01

Quel posto là

Rivoluzione in Kirghizistan: il popolo è stufo di vivere in uno Stato di cui non si sa nemmeno bene come si scriva il nome.

Si fa per scherzare, ma è indubbio che nell’immaginario degli italiani il mondo sia rimasto fermo agli anni ’80; quelli in cui il pianeta era dominato dagli Stati Uniti, a cui a malapena si contrapponeva un blocco sovietico in decadenza, e nel mezzo stava un’Europa che, almeno culturalmente, era ancora il centro del mondo. Il resto, leones: territori sottosviluppati pieni di gente che, se non moriva di fame, comunque viveva con gli scarti dell’Occidente.

La realtà è andata avanti e ci ha lasciati indietro: ben pochi italiani saprebbero indicare dove sta il Kirghizistan su una carta geografica, e quasi nessuno descrivere i giochi geopolitici in cui si trova in mezzo. Eppure basta mettere il naso fuori dai nostri confini per scoprire che il mondo prende direzioni che noi continuiamo ad ignorare, e si consegna a genti di cui non sappiamo, appunto, nemmeno il nome. Per esempio a Londra, un paio di mesi fa, mentre lasciavamo il nostro albergo centrale e relativamente elegante che potevamo permetterci solo trattandosi di viaggio di lavoro, abbiamo assistito all’arrivo di una comitiva di turisti in tiro, con tanto di guida turistica al seguito, che hanno scaricato tonnellate di valigie prima di requisire tutte le migliori camere e poi chiedere dov’è che si andava a fare shopping; e non erano americani, non erano tedeschi, non erano nemmeno russi o giapponesi; erano kazaki.

Ogni tanto mi diverto ad accendere Sky e a mettere sul canale 530, ossia CCTV-9: il canale internazionale in inglese della televisione di stato cinese. Il loro telegiornale parla del nostro stesso mondo, ma con priorità diverse; non ci sono Berlusconi e Bersani (c’era però la notizia del terzino dell’Inter, Santon, operato al ginocchio) e anche Obama e Sarkozy compaiono solo ogni tanto (le loro mogli mai). Invece, oggi i cinesi mostravano nell’ordine la rivoluzione in Kirghizistan, le elezioni in Sri Lanka e le proteste di piazza in Thailandia (poi c’erano dieci minuti buoni di sfottimento sui problemi di qualità della Toyota, perché si sa, parlar male dei cugini giapponesi è un dovere). I cinesi parlano di un continente come l’Asia che da solo vale metà del mondo, e che si sta progressivamente trasformando nel loro giardinetto di casa, un po’ come il Sud America lo è stato degli Stati Uniti per un secolo (lo è sempre di meno).

Noi insistiamo con le nostre certezze, quelle dell’Italia grande potenza mondiale e meta di immigrazione e investimenti dal mondo. Ormai questo è il passato; gli stranieri non vengono qui a investire, ma a colonizzarci; e la nostra immigrazione si riduce principalmente a un’area vicina culturalmente (Romania) o almeno geograficamente (Africa settentrionale e occidentale), spesso come primo passo verso altri paesi europei più allettanti; al massimo, si viene qui perché siamo i meno capaci a gestire i flussi e a far rispettare le regole. In compenso, alla nostra emigrazione da paese sviluppato degli anni ’50 e ’60 – quando esportavamo soprattutto lavoratori poco qualificati – si è sostituito un pattern di emigrazione di tipo africano, in cui ad emigrare sono i più brillanti e i più attivi.

Eppure, noi vogliamo ancora fare gli americani; e quando ci parlano di Kirghizistan e Kazakistan noi pensiamo alle capanne di fango del film di Borat. Come appunto fanno gli americani, che però, tutto sommato, possono ancora permetterselo. Per noi, invece, è giunta davvero l’ora di mettersi a studiare le cartine.

[tags]geopolitica, globalizzazione, economia, immigrazione, emigrazione, kirghizistan, kazakistan, cina[/tags]

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mercoledì 7 Aprile 2010, 10:14

La lunga via per la democrazia

Ieri sera si è tenuta una interessante riunione del Movimento 5 Stelle Piemonte; e può una riunione del Movimento non essere movimentata? No di certo. Le questioni trattate sono piuttosto importanti e dunque sono meritevoli di una discussione con i miei elettori e con il pubblico sul blog.

Come saprete, uno dei punti fondamentali della nostra idea di politica è quella dell’eletto come “dipendente dei cittadini”; non una persona che una volta eletta ti saluta e per cinque anni fa quel che gli pare, ma una persona che riceve costantemente direttive dall’elettorato.

Purtroppo, in Italia, la Costituzione (pensata in condizioni totalmente diverse, quando il rischio da considerare erano le minacce fasciste ai deputati) prevede la totale libertà di mandato; non è tanto facile vincolare legalmente un eletto. Tuttavia, condividendo la visione di cui sopra, tutti i candidati alle regionali hanno firmato un impegno che li vincola almeno moralmente al ruolo di “dipendente”.

E dato che ogni contratto necessita di una controparte, prima delle elezioni è stata costituita legalmente una associazione di 18 persone, in rappresentanza un po’ di tutti i gruppi del Piemonte, che detiene il potere di controllo dei nostri due consiglieri, e ha il diritto-dovere di decidere sull’uso dei fondi concessi al gruppo e sulle posizioni politiche del movimento in Regione, agendo come organizzatore e intermediario della consultazione continua del pubblico e dei vari “meetup” e liste civiche attivi sul territorio, come previsto appunto dal contratto.

A questo punto, nella prima riunione dell’associazione dopo il voto, si trattava di decidere come farla evolvere: includere altri soci perché fosse più rappresentativa, mettere in piedi gli organi sociali che si sarebbero interfacciati con i due consiglieri e cominciare a discutere la scelta dello staff.

E qui, però, si sono scontrate due visioni opposte del mondo. Io, dopo tanti anni di Nazioni Unite e organizzazioni internazionali, sono un “formalista”; disegno architetture istituzionali a menadito. E dunque, la mia proposta era di ammettere nell’associazione tutte le persone conosciute e attive durante la campagna elettorale, in modo da creare una base di 40-50 iscritti assolutamente fidati; e di far eleggere a loro sia un direttivo, che seguisse le questioni economiche, che un organo politico, in cui fossero equamente rappresentate le varie zone del Piemonte, per discutere con i consiglieri le linee da prendere. (Tenere separati i soldi dalle policy è in genere una buona cosa, è quel che succede ad esempio nelle università con Consiglio d’Amministrazione e Senato Accademico.) Dopodiché, si sarebbe potuto lavorare con calma a una piattaforma di deliberazione partecipativa, da usare almeno per le grandi decisioni, usando nel frattempo il blog come “termometro” delle opinioni del pubblico.

Dall’altra parte però è emersa una posizione diversa: tutte queste regole non servono, complicano le cose e creano uno strato intermedio di burocrati. Manteniamo dunque la gestione dei soldi in mano ai 18 membri iniziali, e lasciamo le scelte politiche a un organismo informale, fuori dall’associazione, deciso dai consiglieri e/o dal gruppetto originario che già decise i candidati; o anche, lasciamo che i consiglieri facciano ciò che vogliono, in quanto sono già vincolati dal programma, possono interpellare la rete e saranno controllati dalla rete stessa. Qualcuno ha addirittura proposto di chiudere l’associazione e lasciare anche la gestione dei soldi in mano ai consiglieri.

Alla fine si è giunti a una votazione, e il gruppo si è diviso in due. Due terzi hanno votato a favore del modello formalizzato che avevo proposto io, mentre un terzo ha votato per svuotare l’associazione il più possibile. Il problema è che questo terzo comprendeva Davide Bono e alcune tra le altre persone più in vista del gruppo, che non l’hanno presa affatto bene; ed è partita un’oretta di discussione e critiche reciproche, piuttosto concitata, prima che l’ora tarda mandasse tutti a dormire.

In realtà, si scontrano due preoccupazioni entrambe legittime. In chi vorrebbe smontare l’associazione, c’è la paura che essa si trasformi in un classico ambiente da vecchio partito, con la gara a far iscrivere gli amici, le lotte per farsi eleggere nel direttivo e così via; e c’è il desiderio di mantenere il controllo nelle mani del gruppetto originario per paura dell’arrivo di malintenzionati e riciclati vari. In chi vuole formalizzare delle regole precise, c’è la paura di perdere il controllo dei propri rappresentanti nelle istituzioni, e che tutte le belle parole sul politico “dipendente dei cittadini” e al servizio del gruppo vengano prontamente rimangiate una volta ottenuta l’elezione; e c’è perplessità di fronte alla resistenza ad allargare tale potere di controllo almeno ad altre persone conosciute ed attive.

Stanotte ho tentato una proposta di mediazione, suggerendo che l’organo politico potrebbe essere nominato non dall’associazione ma dai consiglieri stessi, affidando però all’assemblea associativa un potere di ratifica o bocciatura in blocco (dunque costringendo i consiglieri a sceglierlo in modo ragionevole). Sono alchimie istituzionali anche un po’ astruse, e che vengono viste con crescente fastidio.

Eppure, io resto convinto del fatto che, nonostante la corrente di pensiero “facciamo un po’ quel cazzo che ci pare” che in Italia va per la maggiore, il diritto e le regole vanno di pari passo; non ci sono diritti senza regole, non c’è democrazia senza regole. Capisco la preoccupazione per gli eccessivi formalismi, capisco la cautela nell’evitare dinamiche da corrente politica, ma non si può pensare di fare politica senza meccanismi di decisione politica: ci hanno chiesto per esempio se aderiamo al gay pride, e questo chi lo decide?

Anche l’idea che la rete da sola controlla e smentisce è soltanto un mito. Già abbiamo un problema con Beppe Grillo, a cui bisogna fare un monumento per tante cose, ma con cui vi è il nodo irrisolto per cui ogni tanto si sveglia e dall’alto del suo blog, senza consultarsi con nessuno, scarica un De Magistris o decide che fare dei rimborsi elettorali. Aggiungerci dei Beppe Grilli locali, che senza regole e senza vincoli interpretano l’umore del popolo e decidono da soli quello che gli pare, non è democrazia: oltre ad essere il contrario di ciò che abbiamo promesso agli elettori, è il peggior populismo che potremmo tirar fuori.

E però: ma voi, che ne pensate?

[tags]movimento 5 stelle, politica, beppe grillo, davide bono, organizzazione, vincolo di mandato, qualunquismo[/tags]

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venerdì 2 Aprile 2010, 16:48

La bomba assoluta

Piace a tutti sognare il futuro; fa parte della natura umana. Specialmente quando si è giovani e non ancora feriti, il senso del futuro si accentra su ciò che è più direttamente normale: amarsi, riprodursi, condividere la vita.

Per questo fanno ancora più impressione le immagini delle terroriste bambine di Mosca; perché sono la caricatura innocente e diabolica della vita stessa. Nate e cresciute in terre incancrenite di vendetta, compiono un atto disumano per eccellenza come una strage, spinte da un motore umano per eccellenza come il dolore. Diversamente dall’arroganza amorale di chi uccide per prepotenza e per interesse, uccidono e muoiono per un ideale distorto; che altro non è però che un velo di finzione che ricopre la rabbia di una persona che ha perso tutto, perché ha perso l’amore.

L’odio scava solchi che imbarazzerebbero una bestia; è un sentimento tipico dell’umanità evoluta. Il perdono è un sentimento del cervello, l’odio viene dal profondo del cuore. Senza la saggezza dell’età e del dolore capito, l’odio è fuori controllo, e figlierà altro odio; come il vaso di Pandora, una volta aperto il contenuto maligno si sparge incontrollabilmente in ogni angolo.

Spero che anche chi nelle nostre società, con leggerezza, sparge intolleranza, non ci porti a scoprire che stiamo giocando col fuoco.

[tags]mosca, attentati, terrorismo, odio, intolleranza[/tags]

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