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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


martedì 12 Dicembre 2006, 23:14

ICT a Torino

Stamattina sono andato a parlare a questo convegno, non come guru della rete (ammesso che io lo possa essere…) ma come responsabile di uno dei progetti. La prima metà della mattinata è stata durissima, essendo andato a dormire tardi; dopo il coffee break però mi sono ripreso, e anche il mio intervento è andato bene.

Ho ascoltato con piacere la presentazione del direttore del CSP, Claudio Inguaggiato, non solo per l’insistenza sui modelli di condivisione libera del software prodotto dalle piccole aziende ICT torinesi, ma per la nota sull’importanza di costruire reti non solo di condivisione ma anche di competizione: in un ambiente dove girano proposte di legge che prevedono di dare soldi pubblici alle università e alle associazioni no profit per scrivere software, non fa mai male ricordare che è almeno da quindici anni che le industrie di servizi nazionalizzate sono (per fortuna) un ricordo del passato.

E’ stato più preoccupante, invece, vedere la slide con le povere aziende in mezzo e una pletora infinita di organismi pubblici e parapubblici che in teoria dovrebbero aiutarle a crescere, ma di cui in pratica, a naso, la gran parte si limita ad autoperpetuarsi (considerato anche che i pagamenti dei finanziamenti per i nostri progetti sono in ritardo di un anno, a differenza di quelli dei dirigenti dei vari enti…). Così come è stato preoccupante sentire aziende di ICT selezionate tra le eccellenze cittadine dichiarare che il progetto è stato bello perchè ha permesso loro di scoprire questo coso di cui avevano sentito parlare ma che non avevano mai usato, “Linux”. E per finire, per l’intero corso del convegno (nonostante avessi già fatto notare la cosa in passato) si è usato il termine “open source” per indicare il software libero, con allegra incoscienza della differenza.

Ad ogni modo, è stata una esperienza piacevole, e vorrei che a Torino si facessero più progetti così; magari meno focalizzati sullo sviluppo di tecnologia – che ormai si reperisce facilmente in rete – e più sullo sviluppo di reti di aziende, e di canali commerciali collettivi per tutti quei servizi informatici che Torino produce, ma che non è attrezzata per vendere in modo sistematico e di massa.

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sabato 9 Dicembre 2006, 16:52

Efficienza aziendale

Oggi sono qui, piantato in questo Marriott d’aeroporto, passando pigramente la giornata tra Internet, il letto e il buffet. Il tempo è grigio, e soprattutto non avevo nessuna intenzione di smazzarmi la faticaccia di tornare in centro città (come minimo quaranta minuti di taxi più mezz’ora di metro) con il rischio magari di rimanere di nuovo ingorgato; così ho chiesto gentilmente all’albergo di poter fare il check-out alle tre del pomeriggio, ricevendo un’altrettanto gentile assenso (ho specificato “gratis”, speriamo bene…).

Tra le pigre attività di questa mattinata, c’è stato il notare sul comodino un libro intitolato Marriott’s Way: oltre alla bibbia, la generosa catena che conta oltre duemila alberghi in giro per il mondo ti fornisce anche la propria bibbia corporate. Si tratta ovviamente di uno di quei libri che i vecchi tycoon sulla via della pensione fanno scrivere a qualche ghost writer, per magnificare i grandi risultati della loro vita manageriale e della loro azienda; tempo fa ne avevo ricevuto in omaggio uno del capo di McDonald’s Italia, che poneva le cose in umili termini come “Sono partito dalla mia città con una valigia di cartone comprata all’Upim, ci sono tornato vent’anni dopo e mi sono comprato l’Upim”. Eppure, c’è sempre qualcosa di interessante in questi racconti, se li si depura dell’agiografia gratuita.

Nel caso del signor Marriott, della trentina di pagine che ho letto distrattamente mi ha colpito l’insistenza sul farsi da sè – e vabbe’, so’ americani – con i racconti di lui che attacca i quadri negli alberghi, aiuta a incollare il pavimento e va personalmente a fare il servizio in camera per imparare come funziona. Però mi ha colpito anche un’altra cosa, cioè la visione paternalistica ma anche molto umana del rapporto con i propri dipendenti.

In pratica, dice lui, in un albergo o in un ristorante gli impiegati determinano la gran parte della qualità del servizio; non si può quindi pensare che se gli impiegati sono infelici o scontenti il servizio possa essere buono, e questo anche se l’infelicità è dovuta alla vita privata. E quindi, negli Stati Uniti la Marriott ha messo in piedi un numero verde riservato ai dipendenti, chiamabile in qualsiasi momento, a cui rispondono psicologi che danno supporto su qualsiasi cosa.

Noi cresciamo con l’idea che l’assistenza sociale sia sempre a carico dello Stato, ma è interessante notare come ogni tanto, per puri fini utilitaristici, possa anche non essere così, eppure funzionare lo stesso.

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lunedì 4 Dicembre 2006, 18:27

Un blog per ogni cosa

Purtroppo, qui a San Paolo manca Jacqueline Morris, di Trinidad & Tobago – una delle persone più intelligenti e gentili che conosco – che rappresenta l’America Latina nell’ALAC. Suo padre ha avuto un serio incidente d’auto poco prima che lei dovesse partire, e così ha dovuto annullare il viaggio per assisterlo in ospedale, in condizioni critiche.

Quel che volevo raccontare, però, è ciò che ha fatto dopo: i Caraibi sono una delle parti del mondo dove le persone sono ancora veramente interessate l’una all’altra, e le richieste di informazioni erano abbondanti e incessanti. E così, Jackie ha aperto un blog su cui possiamo leggere gli aggiornamenti sulle condizioni di suo padre, con tanto di bollettini medici e resoconti dettagliati, senza costringerla a ripeterle mille volte.

A prima vista può sembrare una cosa strana, forse inappropriata per informazioni così private, e invece è una grande idea: una dimostrazione del modo creativo in cui, anche in casi così particolari e tristi, si può usare la rete.

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venerdì 1 Dicembre 2006, 19:05

Ratzinger e lo stile

Come sapete, io non ho certo lesinato critiche a Papa Ratzinger, anzi. Eppure, credo che le ondate di sdegno islamico seguite al suo strampalato discorso di Ratisbona, così come le parodie di Crozza, gli abbiano fatto bene. Del resto, al di là dei dogmi teoretici della Chiesa Cattolica, in tutti i lavori c’è bisogno di un periodo di rodaggio per capire bene come funzionano; e a maggior ragione in quello di Papa.

Mi sembra quindi giusto per una volta esprimere la mia soddisfazione per la sua idea di dire una preghiera dentro la meravigliosa Moschea Blu, come a suggerire, in un audacissimo strappo anche con se stesso, che il Dio delle religioni monoteistiche è uno solo, comunque lo si chiami e in qualsiasi luogo e forma lo si preghi. Un po’ come un sito Web che cambia automaticamente aspetto sostituendogli il foglio di stile, anche se il codice HTML e la logica di funzionamento rimangono sempre gli stessi.

Se poi, già che c’è, Ratzi aprisse il foglio di stile “chiesacattolica.css” e attenuasse un po’ certi colori forti su temi come l’aborto e l’omosessualità, saremmo anche più contenti. Per ora, però, diamogli il riconoscimento che si merita.

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mercoledì 15 Novembre 2006, 10:42

Piccoli siti chiudono

ArchivioToro era un sito eccezionale. Messo in piedi a manina da un ragazzo di Saluzzo, riportava tutti i risultati di tutte le partite del Toro dal 1906 a oggi, i marcatori, gli spettatori, i giocatori, una marea di altri dati statistici. Il ragazzo è un ottimo web designer ma non è un tecnico, per cui si era fatto veramente tutto il sito a mano, compilandolo pagina per pagina, senza nemmeno un database alle spalle, con un lavoro certosino di anni.

Da un paio di settimane, il sito è chiuso. Ufficialmente non se ne sa nulla, ma pare che qualcuno – non il Torino FC, ma piuttosto qualcuno che in passato aveva già pubblicato libri di statistiche sul calcio – abbia mandato una diffida legale, sostenendo che i risultati delle partite di calcio del Toro sono di sua proprietà. Mi sembra concettualmente ridicolo e difficile da sostenere, ma capisco come un ragazzo che fa questo per hobby e a proprie spese abbia preferito chiudere il sito.

E io, come al solito, resto a bocca aperta, e mi chiedo che ne sarà di noi se questo genere di attitudine alla “proprietà intellettuale” venisse confermato.

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sabato 11 Novembre 2006, 16:40

Elogio della censura consapevole

Sono sicuro che il film di Borat, appena uscito con gran successo nei paesi anglosassoni, è divertentissimo. Seguo gli sketch di Baron Cohen da tempo, tramite amici che vivono in Inghilterra, o tramite la rete. Avevo visto in diretta l’apparizione di Borat agli MTV EuroAwards di un anno fa, spanciandomi dalle risate. (Per i pochi che non lo conoscono, Baron Cohen è un comico inglese di grande successo, in particolare con i personaggi di Ali G, un rapper nero e coatto, e appunto di Borat Sagdiyev, un ingenuo e volgare giornalista del Kazakistan alla scoperta dell’Occidente.)

Il film è basato su una serie di “candid camera” in cui Borat raggira americani di ogni genere, da politici e star televisive fino all’uomo della strada, con una serie di comportamenti provocatori, battute razziste, sessiste e omofobe, volgarità di ogni genere, presentate come il normale comportamento dei kazaki. Per questo le esibizioni di Borat provocano regolari proteste diplomatiche del governo di Astana; difatti i kazaki – che sono, tra l’altro, uno dei popoli più variegati dell’ex Urss – vengono rappresentati come una schiatta di bifolchi ignoranti, arretrati e maschilisti, che vivono come bestie, e i cui vanti secondo Borat sarebbero “le prostitute più pulite di tutta l’Asia Centrale” e la bevanda nazionale a base di piscio di cavallo (vedi il trailer). Eppure, in Occidente Borat è un idolo dei giovani.

Bene, dunque? Voi sapete che io ho sempre un’opinione su tutto, ma questo film mi ha spiazzato. Non riesco a capire se è una intelligente provocazione contro l’ignoranza degli americani, o una squallida operazione commerciale per fare dei soldi schernendo un popolo remoto e rinforzando pregiudizi di vario genere. Non riesco a capire se farà del bene al Kazakistan, costringendolo a confrontarsi con la propria immagine internazionale e insieme promuovendolo agli occhi del mondo, o se diventerà un tormento decennale per qualsiasi kazako all’estero. E così, mi sono chiesto se dovremmo esaltarlo, o censurarlo del tutto, come si apprestano a fare la Russia e tutti i paesi dell’Asia Centrale.

Il confine tra libertà di espressione e licenza socialmente inaccettabile è sempre molto difficile da tracciare, perchè si sposta con l’evoluzione della cultura di ciascuna società; è sempre successo e sempre succederà che vi siano individui che rompono le regole e spostano i confini, ma anche che pagano questa scelta con l’ostracismo, magari per essere rivalutati a posteriori. L’errore sta nel pensare che tutto questo sia ingiusto, anzichè naturale, e che possa non esserci un confine, insomma che libertà di espressione significhi che qualsiasi espressione è lecita.

Si tratta di una questione di principio piuttosto seria, perchè rappresenta forse il principale elemento di incomprensione tra la cultura occidentale e quei due mondi, quello islamico e quello asiatico centrale e orientale, che sono i soli nella storia a non essere stati culturalmente colonizzati a forza dagli europei, e che includono però quattro dei sei miliardi di esseri umani.

Solo nella nostra cultura, e solo negli ultimi quarant’anni, è stato progressivamente abolito il cosiddetto senso del pudore collettivo, ossia l’idea che esistano argomenti, comportamenti ed opinioni che deve essere vietato esporre in pubblico. La facilità con cui si parla e si mostra il sesso in pubblico, che per la nostra società occidentale è una conquista libertaria di cui andare fieri, per il resto del mondo è una barbarie cruda e offensiva. La volgarità, la blasfemia – intesa non come offesa a un dio, ma come mancanza di rispetto per le convinzioni religiose di altre persone -, l’aggressività diretta a chi la pensa diversamente – con tanto di risse – che occupano in permanenza la nostra TV, che noi magari deploriamo ma che poi guardiamo con divertimento o comunque come una libertà tollerabile, ci rendono lascivi, perversi e depravati agli occhi di altre culture, che non hanno nessuna intenzione di adeguarsi.

Questo genere di comportamenti è tutto intorno a noi. In alcuni casi scatta ancora un po’ di deplorazione, come nel caso del videogioco in cui bambine di pochi anni seppelliscono viva una coetanea, recentemente assurto all’onore delle cronache; in altri, non è ammesso nemmeno porre il problema.

L’altra sera, ad esempio, ho assistito a uno spettacolo teatrale (peraltro molto bello) intitolato Elogio della sbronza consapevole, in cui per novanta minuti si spiegava quant’è bello e poetico ubriacarsi volontariamente; la semplice espressione di un dubbio sul fatto che fosse giusto proporre un messaggio del genere (perdipiù finanziato con soldi pubblici) ha provocato imbarazzo, risate di scherno, accuse di bigottismo o tout court di fascismo. Come se l’artista, pur di fare uno spettacolo di successo, avesse il diritto di fregarsene delle conseguenze sociali ed umane del proprio lavoro; come se si potesse assumere che tutti gli spettatori siano in grado di elaborare criticamente il messaggio, in una società di bambini precocemente esposti ai media e di adulti ignoranti ed eternamente immaturi.

Nel caso di Borat, vediamo alcune di queste conseguenze. Gli zingari in Germania hanno protestato per le battute razziste nei propri confronti e hanno ricevuto indietro sonore pernacchie. Alcune delle persone raggirate nel film hanno perso il lavoro e talvolta la fiducia in se stessi. Una bambina kazaka di sette anni, adottata in America, è scoppiata in lacrime sentendo Borat definire il Kazakistan in TV come “un paese da cui nessuno vorrebbe adottare un bambino”.

Tutto questo, a che pro? Borat non fa scherno dei razzisti per contestare il loro razzismo, come sosterrebbero i cultori della “libera espressione”: Borat dileggia chiunque, sia i razzisti che le vittime del loro razzismo, dall’americano medio al kazako medio passando per donne ed ebrei. Egli è un antisociale che se la prende con tutti, probabilmente per sentirsi superiore: un perfetto esempio di persona priva di empatia e di rispetto per gli altri, in un mondo che ha un disperato bisogno di costruire una cultura di rispetto reciproco della diversità, per riuscire a sopravvivere tutti insieme senza spararsi addosso. Una persona del genere andrebbe curata, non certo messa sugli schermi di tutto il mondo come modello di comportamento.

Il problema fondamentale è che in una cultura priva di valori etici e in cui lo scopo della vita di molte persone è più o meno esplicitamente l’arricchimento economico, qualsiasi cosa diviene lecita pur di fare soldi: anche il cosiddetto principio di Paris Hilton, per cui, dato che l’importante per vendere è che se ne parli, e che la violazione del senso del pudore fa sicuramente parlare la gente, si può costruire una fortuna economica sulla violazione del senso del pudore: sulla volgarità, sul sesso esibito, sulla blasfemia, sul razzismo, sull’aggressione verbale verso gli altri, sul prendere in giro i più deboli.

So di dire una cosa che va profondamente contro la nostra cultura, ma del fatto che questo comportamento debba essere permesso dalla legge, o che questo renda arretrate e bigotte le società che invece lo puniscono duramente, non sono affatto convinto. Sono invece sicuro che Voltaire, quando disse di essere disposto a morire per permettere l’espressione delle idee altrui, non si riferiva affatto a tutto questo.

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domenica 5 Novembre 2006, 13:29

Saddamorì

La notizia del giorno è ovviamente la pena di morte sentenziata per Saddam Hussein dal suo tribunale iracheno.

Chi ha seguito le notizie a intermittenza di questo processo sa che, come sempre in questi casi, ci sono dubbi sulla sua serietà dal punto di vista legale; Saddam è rimasto senza avvocato per un anno e tre avvocati della difesa sono stati assassinati via via. Ci sono invece pochi dubbi sul fatto che il regime di Saddam fosse sanguinoso e autoritario, e che abbia commesso crimini di massa; crimini che, peraltro, hanno platealmente commesso anche i nuovi potenti di Baghdad e le stesse truppe occidentali di occupazione.

E’ difficile dall’Occidente capire la mentalità dei paesi arabi; sono paesi in cui sia la repressione violenta, sia la censura, sia il conformismo verso una rigida morale collettiva fanno parte della cultura generale, ed è sottile, spesso impalpabile, il confine tra le nostre pretese di un maggior rispetto dei diritti umani e il puro e semplice colonialismo culturale. Proprio come successe in Europa dopo la seconda guerra mondiale, solo una maturazione complessiva della popolazione locale può produrre un progresso stabile verso una cultura di pace e di tolleranza.

In quest’ottica, se è positivo il fatto che il processo sia avvenuto localmente, resta da capire a cosa servirà questa pena, ammesso che resti dopo i vari appelli e che si riesca a farla applicare: anche perchè tutti sanno che il vero motivo per cui Saddam deve morire è appagare la mentalità pistolera dei telespettatori texani, e risollevare i dubbi destini politici dei neoconservatori americani. Il problema vero è tutto lì: nel fatto che, a differenza dell’olocausto europeo, Pearl Harbor prima e le Twin Towers poi non sono state devastazioni sufficienti per impregnare la cultura americana dell’idea che la violenza legale e militare, pur necessaria in situazioni contingenti, non porta mai ad alcun progresso nella pacificazione e nella crescita del mondo.

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venerdì 3 Novembre 2006, 20:03

No, non è la Rai

È invece la BBC, che ha parlato del workshop che ho moderato ad Atene, e della nostra proposta della “Costituzione di Internet”. Se aspettate la Rai… mi hanno detto che ne ha parlato TGR Neapolis, facendo vedere qualche immagine presa da Internet. L’unico giornalista italiano ad Atene era Arturo Di Corinto per l’Unità.

Ad ogni modo, qualsiasi segnalazione di copertura sui media, dell’IGF in generale o della nostra iniziativa in particolare, sarà benvenuta!

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venerdì 27 Ottobre 2006, 12:46

Madonna, salvami l’anima

L’adozione è un argomento controverso: prima il caso della bambina bielorussa adottata mediante rapimento da una coppia di Genova, poi il caso del bambino malawense (malawiano? malawico?) adottato mediante rapimento da Luisa Veronica Ciccone, in arte Madonna.

Nel primo caso, si sono spesi fiumi d’inchiostro per discutere tra favorevoli e contrari, con una preoccupante tendenza a giustificare il rapimento sulla base dell’assunto che due genitori chiaramente ossessionati dall’idea di possedere una figlia (in senso proprio, anche se non biblico: hanno approcciato l’intero caso come quello di un pacchetto dell’ufficio postale da nascondere nell’armadio per non doverlo restituire) fossero comunque meglio della vita originale in Bielorussia, che con quel nome lì evoca solo gulag e verdura bollita.

Quando è apparsa sulla scena a fare la stessa cosa una famosa rockstar, i giudizi si sono subito rovesciati: lo fa per egoismo, è superficiale, è presuntuosa. Ci sono delle diversità tra i due casi, ed è bene non accomunarli; nello specifico, ogni bambino e ogni adozione sono una storia a sè che merita attenzione specifica. Allo stesso tempo, ho trovato illuminante l’intervento del padre africano, che ha detto una semplice verità: io non ho i soldi per far crescere questo bambino, di lui che me ne faccio?

Non so, anche se lo ritengo probabile, se la signora Ciccone abbia adeguatamente compensato il suddetto padre; o comprato il bambino, se preferite. Di sicuro, non ci sono state valutazioni psicologiche e procedure giudiziarie. Eppure, questo caso ha dimostrato una delle verità elementari della società umana: che qualsiasi cosa, anche un bambino, anche l’amore, ha un prezzo in denaro.

Nessuno di noi venderebbe un figlio; eppure anche le cronache italiane sono piene di casi di bimbi ceduti da famiglie degradate delle nostre periferie. Il punto quindi non è se si possa o meno cedere un figlio per questioni di soldi, ma è quanta fame hai; esistono una quantità di fame e una corrispondente quantità di denaro sufficienti a passare sopra anche ai sentimenti più profondi. (Stavo anche per dire che nessuno si sposerebbe solo per denaro, ma le cronache sono piene di matrimoni tra belle ragazze e vecchi miliardari bavosi, e recentemente – la conquista della parità – anche tra bei ragazzi e vecchie miliardarie bavose.)

Forse è per questo che tutti i benpensanti del pianeta se la sono presa con Madonna. Perchè a tutti noi piace credere alle fiabe, quelle in cui Lucia mica la dà a don Rodrigo, e alla fine si sposa con Renzo; ci danno speranza, ci fanno sentire migliori. Ci piacerebbe che il padre africano lavorasse giorno e notte (peraltro, probabilmente lo fa già) pur di non dare via suo figlio, e sputasse sull’assegno della ricca miliardaria, perchè a chi interessa una vita improvvisamente agiata, se in cambio si deve rinunciare a uno dei propri figlioletti?

Già, a chi? Ho visto troppe persone chiedere a Madonna di recitare il ruolo della strega cattiva, per sentirsi più buone; e scandalizzarsi con un “io non l’avrei mai fatto”, che, a parità di condizioni, sarebbe tutto da provare. Madonna, salvami l’anima.

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sabato 21 Ottobre 2006, 14:52

Processo al SUV

Ogni tanto noto insospettabili cedimenti nelle persone più impensate. In questo caso, mi sono stupito nel leggere .mau. dare peso alle lamentele dell’unica categoria neotassata su cui tutta l’Italia (tranne ovviamente gli interessati) è d’accordo, quella dei possessori di SUV. L’argomento sarebbe che si tratterebbe di una categoria mal definita, e che a quel punto non si capisce perchè non supertassare allo stesso modo tutte le auto di elevata potenza o di elevato costo. Mi sembra quindi necessario raccogliere esplicitamente i numerosi capi d’accusa contro questo tipo di veicolo.

Adotterò per primo quello più debole o comunque più opinabile: il fatto che sia sufficiente girare per le nostre città per osservare l’anomala quantità di cattivi comportamenti tra i guidatori di SUV. Se per tutti noi il SUV è sinonimo di parcheggi irregolari, sosta in doppia fila in posti impossibili, utilizzo dell’auto anche per fare cento metri, manovre assurde di ogni genere, tagli di strada e inversioni vietate, o siamo tutti vittima di una allucinazione collettiva, o qualcosa di statisticamente vero c’è.

Del resto, venendo a criteri più oggettivi, è indubbio che la caratteristica di questi veicoli di essere sostanzialmente dei fuoristrada permetta loro anche in città di salire su gradini e marciapiedi. In zone poco parcheggiabili, è assolutamente la norma trovare SUV parcheggiati sugli scivoli, sui marciapiedi, sulle piste ciclabili, persino su aiuole e giardinetti.

Dal punto di vista del parcheggio, poi, hanno un altro problema: sono grossi. Nei parcheggi a pettine, ad esempio, stanno in larghezza tra le due righe di pochi centimetri: di fatto, se gli parcheggi vicino, nè tu nè lui riuscite più a salire in macchina. Di norma, portano via due posti invece di uno. Se parcheggiano normalmente a bordo strada, sporgono in larghezza e ostruiscono la visibilità. E quando escono, non si fanno tanti problemi a toccarti o bollarti la macchina, tanto loro sono più grossi.

Quello della visibilità è un altro grosso problema che i SUV causano nelle nostre città intasate. Se sei dietro a uno di loro, non vedi nulla. Se quello davanti a lui inchioda, lui può inchiodare, ma tu gli finisci matematicamente dentro. Se lui (come abitudine) scarta all’ultimo secondo per evitare un ciclista o un pedone, tu rischi di non riuscire a fare lo stesso. Nelle strade strette di molti centri storici, l’arrivo di un SUV costringe i passanti a buttarsi nei portoni per non essere presi sotto.

Ma anche se eliminassimo tutti questi problemi, ne rimarrebbe ancora uno che direi insuperabile: il consumo (e quindi, l’inquinamento). Non è affatto vero che a parità di potenza consumo e inquinamento siano uguali, e quindi un’auto sportiva e un SUV andrebbero supertassate allo stesso modo. Io sono andato su Quattroruote a cercare qualche dato: anche confrontando veicoli dello stesso costruttore e quindi con motori certamente simili, ad esempio la sportiva BMW Z4 e il SUV BMW X5, in due allestimenti di potenza quasi uguale, la seconda (che, pur con 10 kW di potenza in più, ha una velocità massima di 30 km/h inferiore, ed è del 10% più lenta in partenza da fermo) consuma in città 18,2 litri di benzina per 100 km, contro i 12 della prima. Fa un buon 50% di consumo in più, anche rispetto a una “normale” auto di lusso di pari potenza.

Non provate nemmeno a fare il confronto non dico con una utilitaria, ma anche solo con una berlina di classe media. Rispetto a una Ford Focus, l’X5 consuma il doppio; rispetto alla Grande Punto, 2,3 volte; rispetto alla Nuova Panda, 2,5 volte. E tutto questo facendo sempre confronti con modelli a benzina; rispetto a una Nuova Panda con motore turbodiesel Multijet, il consumo è quasi il quadruplo – e per la maggior parte degli usi urbani, dove le persone viaggiano quasi sempre da sole e le velocità sono limitate per forza, la comodità dei due mezzi è quasi la stessa.

Tutta questa benzina bruciata in più si ripercuote non solo in inquinamento aggiuntivo nelle nostre città, con conseguenti targhe alterne e più malattie per tutti e non solo per loro, ma in un aumento generalizzato del prezzo del petrolio: si calcola che il consumo dei SUV a livello mondiale sia pari all’intera produzione dell’Arabia Saudita. Tutto questo petrolio consumato inutilmente fa salire il prezzo del carburante per tutti, compresi i contadini del Terzo Mondo.

A questo punto, se uno proprio vuole utilizzare un veicolo pesante, ingombrante, pericoloso per gli altri, socialmente costoso, e soprattutto molto più inquinante degli altri a parità di prestazioni, faccia pure; ma paghi una tassa extra per compensare di tutti questi danni alla collettività. Io trovo anzi che ci sarebbero molte buone ragioni perchè nei centri urbani i SUV fossero vietati del tutto. Esattamente come sta accadendo per le vecchie e inquinanti auto Euro 0 e Euro 1, che però sono tutte di anziani e poveracci.

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