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Archivio per la categoria 'StillLife'


mercoledì 10 Dicembre 2008, 16:48

Un sabato No Tav

“Vittorio, anche tu No Tav?” mi ha chiesto sabato pomeriggio un mio vecchio collega di Politecnico, piuttosto stupito nell’incontrarmi davanti alla stazione di Susa mentre il corteo contro la Tav si chiudeva lentamente. Già, perché per anni sono stato un convinto sostenitore della grande opera, tanto da criticare pubblicamente le proteste; perché allora sabato sono andato fino a Susa a manifestare?

Prima di arrivare alla questione, vorrei raccontare dell’ottima impressione che mi ha fatto questo corteo: perché dopo aver tanto sentito parlare dei temibili No Tav, una delle ragioni che mi hanno spinto era la curiosità di vederli con i miei occhi. Sono rimasto colpito da alcune cose; non solo l’assoluta tranquillità di questo corteo, che si è limitato a fare un giretto attorno a Susa, bloccando le statali più che altro per assenza di altre strade, ma non disturbando affatto l’esodo del ponte verso le montagne; ma la totale assenza di strumentalizzazione.

C’erano, è vero, un gruppo di bandiere dei Comunisti Italiani e non più di un paio di bandiere rossonere della FAI, la Federazione Anarchica Italiana; per il resto, però, c’erano soltanto centinaia, migliaia di bandiere bianche, generalmente con la scritta NO TAV, qualcuna NO DAL MOLIN, alcune KEIN BBT (sono quelli del Brennero), varie NO TIR, un po’ contro gli inceneritori. Insomma, non era un corteo politico, organizzato da questo o quel movimento; era veramente un insieme di amici che si ritrovavano – persino io ho trovato i conoscenti più disparati, a partire da vari tifosi granata – e l’atmosfera era comunque festosa.

L’altra cosa che ha colpito è la dimensione del corteo. Quando siamo arrivati eravamo un po’ delusi, all’orario stabilito eravamo in pochi, alla partenza ci saranno state sì e no duemila persone, e durante il primo tratto il morale della folla era basso, con il leader Perino che passava a dire “siamo pochi ma buoni”. Alla fine, però, ci siamo fermati e abbiamo pensato di aspettare cinque minuti per vedere la coda: ebbene, continuava ad arrivare gente, e ancora, e ancora, e siamo rimasti stupiti da quanto si fosse ingrossato. Alla fine ci saranno state sicuramente almeno diecimila persone, forse di più, comunque parecchie di più dello sponsorizzatissimo corteo torinese per la Thyssen-Krupp (non che non fosse un corteo più che meritorio, ma l’analisi di come i giornali hanno trattato le cose mostra una evidente disparità: se la protesta è contro i tedeschi siamo tutti operai, ma se si toccano i poteri forti nostrani la cosa finisce in fondo alla pagina).

Allora, torniamo alla TAV: perché opporsi? Molti dei fattori che consideravo nell’analisi di tre anni fa non sono cambiati; e anche sabato, comunque, c’era del qualunquismo che circolava, un po’ di malcelato luddismo, la critica ai globalizzatori cattivi e il rimpianto dei bei tempi che furono, quando si poteva tutti essere operai in fabbrica a patto di lottare contro i malvagi padroni. A un certo punto hanno riesumato persino Piagnoletto!

Però, rispetto a tre anni fa ci sono delle novità: la prima sono le analisi economiche. Ne trovate sia di francesi che di italiane, riprese da lavoce.info ossia il sito di economisti liberisti più prestigioso d’Italia, insomma non una fanzine eco-leninista. Tutte dicono che l’opera non è giustificata né dalle necessità di traffico, né dai ritorni economici; che il traffico passeggeri è minimo e quello merci può essere tranquillamente assorbito dalla linea tradizionale con lavori molto più immediati ed economici. Non stiamo insomma parlando della Milano-Roma, dove il treno AV può sostituire l’aereo: tra Torino e Lione il traffico è molto minore, e i costi di costruzione sono molto maggiori.

Lo stesso punto di vista ambientale è ingannevole: è vero che investire in una ferrovia potrebbe servire a ridurre il numero dei TIR, anche se questo richiederebbe politiche di imposizione attiva, visto che questi spostamenti di modalità non sono mai avvenuti da soli; ma già ora la linea esistente è tutt’altro che satura, insomma non è che i TIR circolino perché non c’è il treno, ma perché non lo si vuole usare.

La seconda grande novità rispetto a tre anni fa, però, è che nel frattempo l’alta velocità ha cominciato ad esistere; e abbiamo potuto osservare alcune cose. Per esempio, il periodico comunista Il Sole 24 Ore riporta che in Italia l’alta velocità costa quattro volte più che altrove; che sia perché “ci mangiano” o perché le opere da fare vengono gonfiate in modo da tirare più cemento e quindi guadagnarci di più – guardate la quantità mostruosa di giganteschi ponti e massicciate realizzate sulla Torino-Novara, magari per stradine di campagna o per svincoli in mezzo al nulla – il risultato è che le aziende coinvolte si arricchiscono, mentre l’ambiente viene devastato e il bilancio statale viene prosciugato. E le aziende – Fiat, Impregilo, la Rocksoil di Lunardi, le cooperative rosse dell’Emilia – rappresentano il gotha del potere confindustrial-veltrusconiano: di destra, di sinistra e di centro, tutti associati per guadagnare dalla grande opera; Montezemolo ha già lanciato NTV, la nuova società ferroviaria che farà utili facendo sfrecciare i propri treni sui binari pagati da noi.

Il risultato, poi, qual è? Per ora, treni da 25 euro sola andata che viaggiano vuoti tra Torino e Milano, mentre i treni normali scoppiano; al punto che, per mantenere vivo il giochino dell’alta velocità, Trenitalia sta continuamente peggiorando i servizi alternativi – sopprimendo gli intercity, rallentando i regionali e così via – in modo da spingere la gente a usare l’AV non perché gli serva o valga il prezzo, ma per mancanza di alternative diverse da un carro bestiame.

L’ultima grande novità è la crisi: è ormai chiaro che siamo davanti a una crisi strutturale, in cui il modello di crescita basato sul costruire infrastrutture sempre più enormi per spostare arance da Palermo a Bruxelles non regge più; e incidentalmente il nostro Stato non ha più una lira. Possibile che in questa situazione non ci sia un modo più utile di spendere 9,4 miliardi di euro? Davanti alla gente in cassa integrazione e ai servizi sociali che chiudono, questo è davvero un investimento che ha senso, di quelli non rimandabili perché comunque necessari?

Per ora, mi pare di no; e in effetti dai governi italiani che spingono per l’opera, a parte deridere chi si oppone come “antistorico”, “ignorante”, “egoista” o “antidemocratico”, non è che in questi anni siano giunte grandi argomentazioni. E’ facile farsi affascinare dalla modernità, pensare che ciò che è nuovo, veloce, luccicante sia ipso facto buono e utile. Forse però questi ultimi mesi ci hanno insegnato che della modernità a tutti i costi è bene diffidare, specie se è gestita per interesse privato. Con un’altra classe dirigente in Italia, questa è una infrastruttura che si potrebbe anche considerare; così, invece, fa soltanto paura.

[tags]susa, tav, no tav, infrastrutture, trasporti, treni, fiat, impregilo, è tutto un magna magna[/tags]

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sabato 29 Novembre 2008, 12:48

Gramellini e la cultura che cola

Qui, in effetti, ci deve essere qualcosa da capire: dieci giorni fa mi avete dato del gramelliniano in due, e oggi qualcuno mi dice che Buongiorno avrebbe addirittura copiato la mia interpretazione de La cura di Battiato. Ora, mettiamo le cose in chiaro: Gramellini non legge il mio blog, e anche se lo facesse dubito che sarebbe andato a ricordarsi oggi di una riga persa dentro quattro pagine di post di sedici mesi fa; e anche se mai l’avesse fatto, ne sarei soltanto contento ed orgoglioso.

E’ vero se mai l’opposto, cioè che le riflessioni quotidiane di Gramellini sono state una delle maggiori ispirazioni per avere un blog, proprio perché ne condivido l’attenzione agli aspetti meno pubblici e più umani di ciò che succede, e a quelle piccole storie minimaliste che espanse in un film francese ti rompono i maroni all’infinito, ma che contenute in tre paragrafi assumono invece un valore universale ed empatico. Probabilmente è questo il motivo per cui spesso, pur senza mai parlarci, abbiamo le stesse sensazioni.

Del resto, una delle meraviglie della società della comunicazione di massa è proprio come si possano creare relazioni nascoste, ignote agli stessi protagonisti, tra persone diverse che nemmeno si conoscono. Senza dubbio Gramellini, con la visibilità che ha, avrà influenzato le vite di migliaia e migliaia di persone senza nemmeno saperlo; più modestamente, io nel mio piccolo mi stupisco sempre quando trovo qualcuno che conosco di vista, o che non conosco proprio, che mi saluta ed esordisce con un commento a uno dei miei ultimi post.

Per certi versi è addirittura preoccupante, perché la scrittura – almeno quella letteraria – è innanzi tutto un modo per parlare di se stessi con se stessi, e lo schermo del computer amplifica questa sensazione; raramente capita di pensare che qualcuno veramente leggerà quello che stai scrivendo, meno ancora che possa reagire. Eppure, ciò che ognuno di noi scrive in rete cola lentamente nelle persone che leggono, e di lì verso altre persone, con flussi più grandi o più piccoli a seconda del ruolo e della notorietà delle persone, ma lenti e inesorabili in ogni caso.

Non c’è modo di sapere perché in questi giorni Gramellini si sia svegliato con quel pensiero, e probabilmente non lo sa nemmeno lui; il pensiero umano nasce dalla somma di infiniti stimoli attraverso operazioni che noi ancora non comprendiamo bene. Quel che conta è che questi stimoli circolino, per continuare ad irrigare lo sviluppo di nuovo pensiero; ed è per questo che i tentativi di controllare le idee, di attribuirle, di considerarle proprietà di qualcuno sono, oltre che profondamente innaturali, profondamente pericolosi.

[tags]cultura, idee, comunicazione, pensiero, blog, gramellini, battiato, la cura[/tags]

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mercoledì 26 Novembre 2008, 14:02

Educazione algoritmica

Volevo raccontarvi ancora qualcosa sulla conferenza di questi due giorni, ma poi ho acceso il televisore e scoperto che il TG1 (dopo dieci minuti di servizi e interviste alla ggente) rimanda al proprio sito per “il video completo della deposizione di Olindo” (così senza cognome immagino sia un parente del direttore Gianni Riotta) e quindi, di fronte ad argomenti di siffatto peso, mi inchino.

Comunque la conferenza mi ha portato una notizia interessante: gli americani sono candidati all’estinzione. Infatti ho assistito alla presentazione di una dirigente della National Science Foundation, nonché docente alla Carnegie Mellon, che annunciava con grande orgoglio il piano nazionale americano per inserire il pensiero computazionale tra le abilità fondamentali da insegnare ai bambini, insieme a lettura, scrittura e matematica di base.

In pratica, il ragionamento era il seguente: siccome in qualsiasi disciplina scientifica, tecnica ed umanistica del sapere si adottano ormai calcolatori e metodi computazionali per affrontare i problemi, se insegnassimo ai nostri bambini a pensare come un computer loro sarebbero da adulti molto più capaci e competitivi sul mercato del lavoro mondiale. E giù ragionamenti su come insegnare ai bimbi dai 6 ai 12 anni a modularizzare e algoritmizzare, seguiti dalla promessa di grande successo e grande progresso.

Naturalmente, di fronte a una platea di professori europei – metà scienziati e metà filosofi – la cosa ha lasciato tutti con gli occhi a palla; dopodiché hanno cercato gentilmente di far notare alla signora che esistono anche altri modi del pensiero, nonché capacità non razionalizzabili, come l’empatia, la creatività e l’intelligenza emotiva, che forse sono altrettanto importanti. La signora ha risposto che naturalmente si sarebbero sviluppate anche altre capacità (presumo che non si renda conto di come una spinta estremizzata a razionalizzare sia incompatibile con esse) e che comunque la cosa più importante era che i bambini uscissero fuori efficienti. Alla fine è dovuto intervenire il partecipante più di peso, il già citato filosofo tedesco, per dirle che se proprio vogliono vendere computer imparino almeno a distinguere tra una abilità e un modo di pensiero, e rimandandola a leggersi Platone e Leibniz (il filosofo, non la confezione dei biscotti; il chiarimento è per la signora). Così non ho potuto fare la mia osservazione, ossia che – come qualsiasi progettista di sistema sa – in un processo informatizzato gli umani sono essenziali proprio in quelle funzioni dove il pensiero algoritmico non è in grado di affrontare il problema, e che se la mia risorsa umana è una persona che pensa come un computer tanto vale sostituirla direttamente con un computer, che almeno non mangia, non si lamenta e non chiede aumenti.

Per il resto, anche la seconda giornata è stata interessante, per quanto sia capitata anche qui la presentazione troppo verbosa: io mi chiedo come sia possibile che qualcuno, invitato a fare un intervento di quindici minuti, si presenti con una presentazione di 62 (sessantadue!) lucidi, ognuno dei quali con almeno quindici righe di testo ognuna delle quali richiederebbe due minuti di spiegazione. Ecco, forse in questi casi il pensiero algoritmico tornerebbe utile.

La mia presentazione è andata bene; ha lasciato anch’essa un po’ gli occhi a palla, tanto è vero che l’unica domanda è stata di un professore americano che aveva capito esattamente l’opposto (io sostenevo che data la struttura di Internet essa si possa governare solo per consenso, mentre lui aveva capito che io sostenessi, come da pensiero degli hacker americani degli anni ’90, che data la struttura di Internet essa non si possa governare). Alla fine tutti, persino il tedesco, sono venuti a farmi i complimenti e a chiedere ulteriori dettagli (nonché la fatidica domanda “ma tu in che università insegni?”: all’estero è inconcepibile che una persona con esperienza specifica in un campo politologico all’avanguardia non sia stato già conteso da una manciata di atenei), e mi hanno fatto ulteriormente osservare l’abisso culturale tra l’università italiana e quella europea.

Comunque, sono sopravvissuto a tutto, anche all’attentato dei bigné. No, perché nel buffet del pranzo c’erano dei magnifici bigné ripieni di crema al cioccolato, solo che mordendoli con enfasi da un lato il risultato era uno squirt di crema dall’altro, con possibili effetti ferali per giacca, cravatta, pantaloni e scarpe. Ma sono riuscito ad evitare pure questo, e a ritornare a casa sano e salvo.

[tags]conferenze, parigi, scienza, filosofia, educazione, pensiero computazionale, presentazioni, bigné[/tags]

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domenica 23 Novembre 2008, 12:05

In partenza

Sono in partenza per Parigi, per una interessante conferenza organizzata dal Ministero dell’Università francese per discutere del rapporto e del dialogo tra scienziati e società; al suo interno c’è una sezione dedicata alle tecnologie dell’informazione e alle nuove forme di governo e di relazione sociale che esse determinano. Inutile che vi dica che in Italia una conferenza così ce la sogniamo; anche se si facesse qualcosa su questo tema, credo che l’età media degli intervenuti sarebbe sopra i 65 anni, e la maggior parte degli interventi si limiterebbero a esporre teorie che già circolavano nei sacri anni ’70.

Comunque, vi lascio con il link al mio rapporto sul workshop che ho gestito io a Cagliari, all’IGF Italia: il tema era più generico, riguardante le libertà e i contenuti in rete, ma almeno potrete vedermi per una volta in una conferenza, e avere un po’ il polso della situazione italiana.

[tags]conferenze, parigi, cagliari, igf italia[/tags]

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venerdì 21 Novembre 2008, 14:43

Riunioni segrete

Come sanno i miei amici più stretti (o vicini di tavola in presenza di vino), sono da mesi occupato in due progetti segreti che verranno rivelati al momento opportuno, anche se il primo sta andando a rotoli e potrebbe non materializzarsi mai. Comunque, ieri sera ero impegnato in una fondamentale riunione di “progetto segreto #2”, all’interno del quale c’erano state alcune spiacevoli discussioni con conseguente frammentazione del gruppo; abbiamo così deciso di trovarci una sera in compagnia per ristabilire un buon clima davanti a una birra.

L’appuntamento era per le nove a San Salvario, al Biberon, un localino carino da aperitivo, di quelli ggiovani dentro; solo che era strapieno. Così, dopo mezz’oretta di attesa per recuperare tutti i partecipanti, abbiamo cominciato ad aggirarci a piedi per le vie del quartiere cercando un posto dove stare; non c’era molto di aperto, i kebab non ci piacevano, il Damadama era pieno e la pizzeria nella stessa piazza avrebbe avuto un tavolo in un quarto d’ora, ma solo pochi dovevano mangiare. Così, alla fine, stanchi e infreddoliti, abbiamo notato (anche se non è molto appariscente) la ristovineria Zi’ Barba in via Pellico, dove c’erano solo due o tre persone, e ci siamo fiondati dentro.

Effettivamente c’era qualcosa di strano: i tre tizi che c’erano dentro erano tutti grossi, un po’ pelati, di mezza età e molto barbuti. Poi, mentre ci sedevamo, abbiamo cominciato a guardare le pareti e abbiamo notato che erano piene di foto di uomini pelosi, di manifesti di mostre un po’ particolari e di campagne contro l’AIDS. Insomma, a farla breve, noi – gruppo di una dozzina di individui etero di entrambi i sessi – eravamo finiti nell’unico locale gay ursino di tutto il Nordovest.

E così, ho provato l’emozione di vivere in prima persona la famosa scena del Blue Oyster Bar da Scuola di Polizia… cioè no, in realtà non è successo niente, ce ne siamo stati lì a chiacchierare tra noi, loro sono stati molto gentili, abbiamo mangiato e bevuto e così via. Ma è stata lo stesso una scena buffissima, specie considerando che noi ci eravamo trovati con la paura di dover litigare e invece ce ne siamo stati sempre ben calmi e ben seduti, soprattutto ben seduti.

E quindi, per quelli di voi che ancora non avessero ben capito, facciamo tutti insieme un saluto agli amici orsi con il leggendario video di Bear Force One!

[tags]pub, orsi, gay, bear force one, scuola di polizia[/tags]

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sabato 15 Novembre 2008, 23:45

Esoterismo bloggarolo

In queste vacanze ho sperimentato che il misticismo postmoderno dei video di MFP ha effetti tangibili: venerdì, a pranzo, due persone che non leggono il mio blog e che non sapevano nulla dell’ultimo video parlavano di lui; oggi pomeriggio è riuscito addirittura ad evocare il suo obiettivo semovente, in carne ed ossa, in pieno centro di Firenze.

In più, è la prima volta che mi presentano qualcuno qualificandolo come “blogger”: anche questa potrebbe essere una data da segnare sul calendario della Storia!

[tags]blogger, mfp[/tags]

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martedì 11 Novembre 2008, 23:31

Cose fatte stasera

  • La barba
  • Cento metri in retromarcia su via Michele Lessona
  • Una Guinness media
  • Una chiacchierata
  • La cernita per il bucato dei colorati
  • Il primo livello di allenamento per Liu Bei
  • Un intenso ascolto di musica fine anni ’60 a volume impossibile
  • Un ricordo di Toro-Real Madrid e della prima volta in cui andai all’oggi ventenne pub Manhattan (15/4/1992)
  • Una bloggata ermetica

[tags]any tag[/tags]

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domenica 9 Novembre 2008, 21:04

Stanchezza

Oggi è stata una bella giornata, ma non siamo riusciti ad alzarci prima delle 11.

Siamo andati al santuario di Oropa, ma solo per mangiare al ristorante Valfré; che nonostante una pecca terribile, ossia il vino apertamente annacquato, è stato comunque soddisfacente, specialmente la polenta concia, lo spezzatino di cervo e la torta al cioccolato.

Non ero mai stato lassù e avevo sentito parlare del posto per una sola cosa, ossia per la famosa tappa del Giro a base di Pantani; è effettivamente un luogo davvero strano, per la presenza di un enorme santuario in mezzo alle montagne, in parte illuminato e ristrutturato, in parte scrostato e decadente in mezzo alla bruma autunnale. Le immagini crepuscolari però sono state davvero bellissime.

La provincia di Biella (di cui già vi raccontai le leggende erotiche) ha alcune caratteristiche interessanti, tipo che arrivare a Biella è una tortura novecentesca di statali e semafori quasi come arrivare a Cuneo, e che per andare a Oropa bisogna pure attraversare il centro storico, dove hanno un paio di dossi alti così (fare gesto con mani). Alla radio si prende il giornale radio della Lombardia; va bene che il Piemonte orientale ve lo siete già annesso, ma non era certo il caso di dire che il traffico a Pero era piantato a causa della Fiera del Ciclo (e io che ho subito pensato a torrenti di sangue muliebre) e di una misteriosa Sesta Giornata di Milano, che se non fossi appunto stato in clima ciclistico avrei pensato a un supplemento di rivolta centosessant’anni più tardi, con la gente finalmente stufa di Berlusconi.

Resta, però, la stanchezza: sono arrivato a casa e già ho passato mezz’ora a organizzare il prossimo giro, un weekend lungo in Toscana causa riunione di Società Internet e desiderio di fuga. Nel frattempo sono assediato dalle cose da fare, burocratiche, contabili, tecniche, professionali, legali, associative, culturali e così via. Ho come il sospetto che dovrei selezionare meglio ciò a cui mi dedico: per esempio, credere di più in ciò che vorrei veramente fare, e di meno in ciò che gli altri vogliono farmi fare.

[tags]stanchezza, biella, oropa, polenta concia, lombardia, toscana, ciclismo[/tags]

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lunedì 3 Novembre 2008, 21:24

La maledizione del barone Montezuma

Se proprio vi interessa saperlo, in questo momento sono in bagno e festeggio un inatteso crossover tra l’Egitto e Montezuma. Gli è che stasera c’era il ricevimento del lunedì, che si è tenuto in un posto stranissimo nel quartiere elegante e novecentesco di Heliopolis: il Palazzo del Barone, ovvero una affascinante mostruosità costruita per un nobile belga negli anni Venti in “stile orientale”, cioè come un occidentale immaginerebbe un palazzo orientale.

Naturalmente è abbandonato e in decadenza da tempo, e anche piuttosto pericolante; solo che noi eravamo il primo gruppo ad arrivare e non ce l’hanno detto, così varie signore si sono infilate dentro, hanno preso la vecchia scala nel buio più pesto e hanno rischiato di ammazzarsi dal primo piano, prima di scoprire che il ricevimento era in realtà nello spiazzo antistante.

Comunque, a forza di mangiucchiare porcatine di ogni genere e di bere succhi e coca cola, ho avuto un incontro da vicino con i cessi chimici egiziani, trovandomi peraltro nell’insolita situazione in cui la coda era davanti a quelli degli uomini, a dimostrazione di come la governance di Internet sia ancora saldamente in mano al sesso forte (ma debole di stomaco).

Proprio questo mi fa sovvenire del racconto che ci ha fatto durante la cena una coppia del posto, lui italiano e lei egiziana: infatti, lui per poterla sposare ha dovuto non solo convertirsi, ma anche ottenere da un apposito ufficio statale un certificato di conversione all’Islam, a cui è potuto seguire il certificato di matrimonio.

Tale certificato va tenuto da conto: infatti, quando andarono in vacanza a Sharm, l’albergo si rifiutò di dare loro la stanza in quanto non avevano dietro la prova di essere sposati. L’unica via di uscita era quella di dormire in stanze separate, ma (oltre alla mancanza di intimità) si sarebbe dovuto raddoppiare il costo. Alla fine, però, la soluzione si è trovata quando, a forza di escalare la situazione, si è scoperto che il mega-manager dell’albergo era italiano; tra italiani ci si capisce, e quindi il manager dell’albergo ha offerto alla coppia una seconda stanza gratis tra quelle comunque invendute, dando disposizione agli inservienti di chiudere un occhio sulla sua effettiva occupazione…

[tags]viaggi, icann, egitto, cairo, islam, matrimonio[/tags]

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domenica 2 Novembre 2008, 16:29

Cairo di notte

Ieri sera mi sono un po’ rappacificato con Il Cairo: infatti, dopo aver trascorso praticamente tutto il giorno in camera a lavorare a varie cose, avevo voglia di uscire e ho combinato la serata con Roberto Gaetano e famiglia. Io e Roberto frequentiamo ICANN insieme ormai da sei anni, e abbiamo una lunga storia di riunioni e ristoranti in giro per il mondo; peraltro la prima volta che ci incontrammo in Italia fu al meeting ICANN di Roma 2004, ma prima di allora ci eravamo già incontrati in mezzo mondo, nell’ordine prendendo un orrido panino pieno di salse in un bar fighetto di Marina del Rey (Los Angeles, 2000), incontrandoci per completo caso all’uscita di un pub ristorante a Dublino (estate 2001) e poi ancora a Montevideo, Bucarest, Amsterdam, Rio de Janeiro, insomma ovunque ma non in Italia.

Lui, comunque, aveva lì una voglia di ristorante Falfela in centro al Cairo, rimasta dal meeting ICANN del 2000, e così ci siamo fatti chiamare una macchina dall’albergo e siamo andati lì. Il posto è carino, abbastanza tipico, anche se pieno di turisti; ti guardano comunque male, e persiste quella sensazione di non essere poi così benvenuti da queste parti, però il cibo era buono e abbiamo speso una cifra umana, tipo 13 euro a testa, contro i 40 abbondanti di cui ti pelano i ristoranti dell’albergo. Oggi a pranzo con la stessa cifra ho preso un panino e una coca cola!

Soprattutto, ciò che mi ha riconciliato con questa città è stato il giro a piedi per il centro – o meglio, per la parte mondana del centro, la zona novecentesca costruita in stile europeo-newyorchese – dopo cena, a notte avanzata. Quello stesso centro che visto di giorno è squallido e cadente la sera si trasforma in un magico fiume di luci: ci sono insegne ovunque, in latino e in arabo, di ogni colore.

Capisci così che Cairo è la New York del mondo arabo: l’unica vera metropoli del Medio Oriente (tenendone fuori la Turchia). Non che le abbia viste tutte, ma vi garantisco che Tunisi o Marrakech sono completamente diverse, perché non hanno questa dimensione; qui vivono venticinque milioni di persone, e lo si percepisce. In realtà vi sono molti centri, e mi è anche venuta voglia di scoprire come sono di notte i vicoletti del Cairo islamico e della zona della Cittadella (non temete, non la soddisferò). Ma anche solo il centro basso è affascinante: in mezzo a questo fiume di luce vi sono in giro migliaia di persone, che escono ed entrano da locali e caffé. Ci sono negozi di ogni tipo, e si può trovare in fila, spesso ancora aperti, un forno dove un bimbo guarda estasiato un enorme vassoio di biscotti; un venditore di meraviglioso antiquariato in stile orientale; un buco lurido dove riparano motociclette; l’ingresso di un vicolo misterioso che porta in casa di qualcuno, o forse a uno dei tanti mercatini.

Certo, i marciapiedi sono sconnessi e pieni di auto in ogni dove, e a ciascun attraversamento si rischia il game over: credo di aver già scritto l’altra volta che Cairo è un enorme Frogger dal vivo, dove ordinariamente le auto e persino i camion ti sfrecciano a cinque centimetri dalla faccia mentre attraversi, calcolando dinamicamente la tua e la loro posizione, indipendentemente dal colore del semaforo, dai segnali e dalle precedenze. Esitare è fatale, in senso assolutamente stretto: quando parti, vai e prega.

Però, girando a caso per il centro del Cairo, si scoprono angoli di vero mistero; e si finisce per esempio addentro a una lunga fila di taxi che occupa la strada, in coda per fare benzina (24 eurocent al litro) all’unico distributore; oppure in un mercato notturno pieno di gente che compra, dove una parete è occupata da scatole sbugnate e scrostate di monitor LCD da computer, mentre dall’altra un nuovissimo negozio di lampadari sfoggia delle composizioni vetrarie che sembrerebbero barocche e pesanti persino a uno spagnolo.

Certo, quando ti accorgi che è tardi e devi tornare indietro, ti rendi conto che non sai dove sei e che nessuno ha una cartina; ma non importa. Basta camminare un po’ per il mercato, fino a uno spiazzo dove due dei classici taxi bianchi e neri, tenuti insieme dallo scotch, aspettano clienti; il primo tassista non parla altro che dialetto cairota, ma va ad abbrancare il giovanotto che fa da interprete. Citystars – il nome del nuovissimo, periferico complesso dove stiamo noi; e periferico vuol dire una ventina di chilometri di case ininterrotte – è la parola d’ordine; il tassista non è sicuro di aver capito, ma il giovanotto lo istruisce. E così, per quasi un’ora giriamo a caso nella periferia nord del Cairo, pigiati in cinque in una 127 bianconera, in mezzo a dedali di vie e sopraelevate e svolte obbligate, pregando che lui trovi alfine una strada.

Muoversi per l’immensa periferia del Cairo è complicato; i grumi di case sulle colline e sulle dune sono intercalati da enormi vialoni da sei corsie per senso di marcia, sui quali invece che a Frogger si gioca a Out Run. Si inchioda per arretrare e passare dall’altro lato il camion che sta sterzando a destra costringendo a frenare altre due auto che nel frattempo accostano verso un pedone che deve salire evitando l’albero di palme e il tombino rotto con un palo di ferro arrugginito piantato dentro, nel bel mezzo della carreggiata, a dire “qui non si passa”. Abbiamo anche fatto il livello del tunnel: un buco a due corsie lungo quasi quattro chilometri, dal percorso a serpentina, con auto che si sorpassano da entrambe le parti e moto che sorpassano in mezzo, nessun tipo di ventilazione forzata, e una atmosfera gassosa che implica morte certa per asfissia nel caso in cui ti si fermi la macchina lì sotto.

E poi c’è il livello tortuoso: infatti i vialoni non hanno incroci perché sarebbero troppo pericolosi, né semafori perché tanto sarebbero inutili. Se due vie si incrociano e non si può fare un mega-raccordo cementizio, la soluzione è che una delle due vie si scontri con lo spartitraffico dell’altra; quindi chi arriva di lì è costretto a girare a destra, andare avanti per qualche centinaio di metri, poi in mezzo c’è un buco nello spartitraffico che permette una inversione a U, in modo da tornare indietro e poi risvoltare nel proseguimento della via. Insomma, una rotonda schiacciata!

Notevole anche quando la passeggera alla mia sinistra voleva aprire il finestrino: il tassista, mentre con una mano tiene la sigaretta, con l’altra tiene il cellulare e con la terza tiene il volante, con la quarta mano estrae da sopra il parasole la manovella mancante, che infila a forza, girandosi per metà, nel buco del finestrino posteriore sinistro, girando per aprirlo mentre slalomeggia tra le auto per strada e scarica la cenere sull’asfalto.

A un certo punto abbiamo passato senza danno persino il difficilissimo livello “attraversamento dell’autostrada”, in cui due gruppi di pedoni, invisibili nel buio della notte, attraversano le sei corsie del vialone a distanza di esattamente un metro e ottanta l’uno dall’altro, e il tuo tassista lanciato a oltre cento all’ora ci si infila in mezzo, dieci centimetri dal culo dei primi e dieci dalla faccia dei secondi, mentre questi continuano a camminare a velocità regolare, e senza nemmeno rallentare un briciolo la corsa del veicolo. Lì è scoppiato spontaneo l’applauso!

Ma il vero momento magico è stato quando, trovata la strada principale sbarrata, il nostro autista ci ha portati in mezzo a una intera città abbandonata: centinaia di metri di casupole a uno o due piani, eleganti e decorate, apparentemente risalenti a secoli fa, completamente vuote e abbandonate. A un certo punto c’era persino quello che sembrava un caravanserraglio, anch’esso abbandonato; si stagliava contro il cielo illuminato dalla luna e faceva davvero un grande effetto.

E’ stata solo una visione di pochi secondi, presto sottrattaci da un nuovo livello di Out Run; ma è stata sufficiente a farmi pensare che il Cairo abbia dentro di sé molto più di quel che potrebbe sembrare a prima vista.

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