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sabato 23 Agosto 2008, 11:37

Dalai chi?

Sapete che sulla questione relativa a Cina, Tibet e diritti umani ho il mio punto di vista, che non è particolarmente allineato con il pensiero unico che ha dominato i giornali e i blog italiani negli ultimi mesi. Mi sembra che troppi in Italia – dove, solo in quest’ultima estate, sono stati assolti o quasi i poliziotti che avevano sequestrato e massacrato di botte gli oppositori politici del nostro governo a Bolzaneto, si sono moltiplicate le retate di stranieri e gli attacchi razzisti ed è stata intensificata l’attività di filtraggio di siti Internet – utilizzino la questione dei diritti umani in Cina per sentirsi più buoni, e per evitare di guardare in casa propria; da parte dei politici, poi, cavalcare i sentimenti anticinesi è un buon modo per distrarre l’opinione pubblica, e magari trovare anche un comodo capro espiatorio per il fallimento economico del nostro Paese.

Comunque, ricordate le settimane che hanno preceduto le Olimpiadi? Sembrava che si stesse andando in guerra: non passava giorno senza che i giornali italiani si interrogassero su come dovessero comportarsi i nostri atleti, riportando gli appelli di politici e intellettuali al boicottaggio e alla protesta. Per un po’, il Dalai Lama ha avuto sui nostri media quasi lo stesso spazio del Papa: bastava che ruttasse e finiva in prima pagina. Le previsioni erano apocalittiche: si anticipavano grandi manifestazioni represse nel sangue, censure continue alle riprese televisive, gare continuamente interrotte dalle proteste e atleti squalificati per aver espresso le proprie opinioni. In più, per buona misura, si prevedeva anche che gli impianti sarebbero stati deserti causa mancanza di cultura sportiva dei cinesi, e che atleti e spettatori sarebbero soffocati per l’inquinamento.

La realtà, ovviamente, è stata ben diversa, cominciando dalla cerimonia inaugurale che nessuno ha boicottato – tranne Berlusconi perché non c’aveva voglia – e che tutto è stata meno che la celebrazione di un regime, lasciando con un palmo di naso tutti i critici che erano lì pronti a gridare alla scandalosa autocelebrazione della dittatura (sono comunque riusciti a criticare lo stesso la cerimonia per il motivo opposto, “non c’erano Mao e il comunismo”). Anzi, la cerimonia ha cercato di comunicare tutta la diversità e la profondità della Cina, con l’esibizione dei bambini delle diverse etnie (Tibet compreso) e facendo notare che la cultura cinese è ben più complessa di un mezzo secolo di comunismo.

Per il primo paio di giorni qualche protesta c’è stata, da parte di gruppi di due o tre esagitati che si sono pagati il biglietto aereo da Londra o da New York per sventolare uno striscione e finire presi a lazzi, a sputi o a schiaffi – a seconda dell’umore – nemmeno dalla polizia, ma dai passanti cinesi che si trovavano lì in quel momento. Per il resto, le gare sono state belle, l’aria pulita – spesso con tanto di cieli azzurri – e gli stadi quasi sempre pieni e calorosi, con ovvia preferenza per gli sport popolari tra i locali. Nessun atleta si è sognato di protestare in gara, esattamente come dovrebbe essere in un’Olimpiade, dove persino russi e georgiani hanno gareggiato insieme in giorni di vera guerra senza andare mai oltre qualche mala parola; il massimo scandalo, a parte qualche caso marginale di doping, è stato lo svedese che ha gettato via il bronzo alla premiazione per protesta contro l’arbitraggio. Ciò nonostante, nelle interviste gli atleti hanno detto ciò che volevano e nessuno li ha limitati; alcuni hanno ribadito le critiche della vigilia, altri si sono resi conto che, tutto sommato, la Cina non era poi così brutta come la si dipinge.

Il terrorismo c’è stato, ma non è avvenuto in Tibet; sono stati gli uiguri, etnia turcofona dell’estremo ovest della Cina, anch’essa indipendentista ma che, non essendo foraggiata dagli americani ed essendo addirittura musulmana, non trova altrettanto spazio sui nostri media.

All’inizio, il Dalai Lama ha elargito sante parole di pace: ha fatto gli auguri e i complimenti alla Cina, e si è messo ad aspettare. E non è successo niente: dopo tre giorni, i giornali parlavano solo più di gare e di successi sportivi. Dopo la prima settimana, il Tibet era al massimo un asterisco in fondo alla generale ammirazione per la riuscita delle Olimpiadi; niente proteste e niente clamore, anzi quel poco di esposizione da violenza che c’era se l’erano fregato gli uiguri di cui sopra e pure Putin e Bush nel Caucaso (dove, incidentalmente, l’offensiva georgiana contro gli independentisti osseti ha fatto in pochi giorni cento volte le vittime degli scontri etnici di Lhasa a marzo). E’ chiaro che così non andava bene.

Così, nella seconda settimana il Dalai Lama ha cambiato tono, e ha cominciato ad alzare la voce. Nessuno però sembrava più interessato, e così Sua Santità si è ridotta a un vecchio trucco da politico democristiano: l’intervista bomba con smentita. Mercoledì, infatti, è andato a dire a Le Monde che i cinesi avrebbero appena ucciso 140 persone in Tibet sparando sulla folla. I politici, i bloggherz – segnalo in particolare l’ineffabile Adinolfi – e i media allineati gli sono subito andati dietro, montando il caso e indignandosi a comando. I giornalisti veri hanno alzato un sopracciglio: 140 morti? In un momento in cui la Cina è sotto gli occhi del mondo? Con migliaia di giornalisti stranieri in giro per il Paese e in attesa soltanto di un caso clamoroso da riportare?

Infatti, puntuale il giorno dopo è arrivata la smentita: scusate, non ho detto ciò che ho detto – ma intanto ha riconquistato le prime pagine, e ha reinnescato il meccanismo.

Riparte quindi l’italico teatrino: primo La Russa, che dalla sua poltrona romana invita di nuovo gli atleti italiani a protestare. Ma il meglio lo dà Margherita Granbassi, schermitrice italiana appena ritornata da Pechino con una medaglia di bronzo.

La Granbassi, dopo aver passato una settimana a chiedere di non pagare le tasse, cambia argomento e passa al Tibet. Esordisce dicendoci che avrebbe volentieri boicottato le Olimpiadi (però non l’ha fatto). Quindi, dopo essere andata, aver gareggiato, aver preso la medaglia e aver avuto il suo momento di gloria senza minimamente fare nulla per il Tibet, torna in Italia e solo allora si ricorda di dire agli atleti italiani che sono ancora a Pechino che (loro) devono protestare. Aggiunge che le Olimpiadi sono state uno scandalo e che addirittura sono stati utilizzati lavoratori schiavizzati e sfruttati per realizzare le medaglie (tra cui la sua di bronzo che si tiene ben stretta al collo).

Eccezionale, infine, è l’accusa alla televisione cinese (con due settimane di ritardo) di censura dello striscione (nemmeno legato al Tibet) da lei esibito nella cerimonia inaugurale, quando la regia televisiva è internazionale e quando è noto che durante la cerimonia di apertura è vietato esibire qualsiasi cosa che non siano le bandiere nazionali, figuriamoci il classico lenzuolo “ciao mamma” scritto a pennarello, che peraltro solo un italiano potrebbe avere l’idea di sventolare in una simile occasione senza sentirsi ridicolo.

A quel punto, qualcuno deve averle fatto notare che parlare è facile ma forse è anche il caso di agire di conseguenza, e lei ha provveduto: oggi annuncia che donerà al Dalai Lama la sua maschera di gara. Addirittura! Che durissimo gesto di protesta! Di restituire la medaglia, naturalmente, non se ne parla nemmeno.

Ora, di fronte a un simile miracolo di ipocrisia – in buona fede, ma pur sempre ipocrisia – che cosa si può dire? Il problema del Tibet esiste; anzi, è possibile che ci siano stati veramente degli scontri, così come è possibile che in extremis qualche protesta avvenga anche all’Olimpiade. Il problema del Tibet, però, è lo stesso dell’Ossezia, del Kosovo, della Cecenia, dell’Irlanda del Nord, dei Paesi Baschi, del Kashmir, del Kurdistan, insomma di qualsiasi parte del mondo dove si trovino due etnie diverse che non riescono a vivere insieme (o, più spesso, che includono minoranze estremiste che non vogliono vivere insieme). In questi casi, gli scontri, le provocazioni e le violenze avvengono sempre da entrambe le parti; quando questi problemi si sono risolti senza lo sterminio o la cacciata di una delle due etnie, è perché le due etnie hanno isolato gli estremisti e hanno imparato ad accettarsi e a convivere.

Per questo motivo, quando l’Occidente prende nettamente le parti di una delle due etnie – spesso per via di interessi geopolitici, economici e militari, come in Kosovo e in Ossezia – fa quasi sempre danno; molto più utile è comportarsi con moderazione e tenere aperto il dialogo con entrambe. Ma fallo capire all’italiano medio.

[tags]cina, tibet, diritti umani, dalai lama, olimpiadi, la russa, granbassi[/tags]

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venerdì 22 Agosto 2008, 11:28

Tutti gli sport olimpici che non avremmo mai voluto vedere

Ecco una piccola guida agli sport minori: quelli che, alle Olimpiadi, non si capisce bene cosa ci facciano.

Beach volley. Fu introdotto alle Olimpiadi di Atlanta e già per questo motivo dovrebbe venire qualche dubbio. Comunque, è uno sport dimenticato, dagli alti valori tecnici e umani, che merita la più ampia promozione; o almeno così sembra aver deciso la Rai, che tagliuzza o oscura le partite dell’Italia calcistica, pallavolistica o pallanuotistica, ma non si è persa un Brasile-Georgia di beach volley. A qualsiasi ora, sugli schermi degli italiani c’era un pezzo di spiaggia nel centro di Pechino con due culi di brasiliane in bella mostra: ah, il messaggio olimpico. Più preoccupante il fatto che, per metà del tempo, ci fossero in realtà due culi di brasiliani.

Triathlon, Pentathlon, Eptathlon…. Questi sport avevano senso cent’anni fa, quando si era tutti dilettanti. Al giorno d’oggi, per gareggiare decentemente su 200 metri di nuoto o 1500 metri di pista bisogna fare soltanto quello per dieci anni, per cui non si capisce che senso possa avere il riproporre, un paio di giorni dopo le rispettive finali di disciplina disputate a livello stratosferico, cinque o dieci eventi olimpici disputati alla carlona. Aggiungeteci che, essendo impossibile capire dalle immagini chi sta vincendo, è un evento emozionante come un rebus in cirillico: non stupisce che nessuno lo degni di uno sguardo, anzi che nello stadio dell’atletica, dopo che sono passati i multiatleti, esca lo staff di Usain Bolt a spruzzare il disinfettante.

Nuoto sincronizzato. Più che uno sport, è un numero da circo: infatti è talmente pregno di valori sportivi che, chissà come mai, esiste solo per le donne. Ecco, in effetti ho pensato ai giri di gambe del nuoto sincronizzato eseguiti con i tronconi pelosi degli atleti maschi: ora vado a vomitare. Nel frattempo, qualcuno dica al CIO che i film di Esther Williams sono fuori moda da almeno cinquant’anni; e lo dica anche alla Rai, che ha trasmesso tutte le gare dall’inizio alla fine senza tagliarne nemmeno un secondo. Più che per sportivi, mi sa che ci prendono per allupati.

Badminton. Alzi la mano chi sa cos’è. Se non lo sapete, ve lo dico io: è una specialità imposta alle Olimpiadi da Al Qaeda, sotto minaccia di attentati, per fare in modo che Pakistan e Afghanistan possano vincere delle medaglie. Quest’anno gli è andata male, e per questo Bin Laden ha già mandato un ultimatum agli inglesi: dalle prossime Olimpiadi, si dovrà introdurre la specialità del getto del terrorista suicida, nelle categorie da 100, 500 e 1000 grammi di tritolo. Tre ori sicuri.

BMX. Vi ricordate quando da bambini venne la moda delle biciclettine con cui andare ai giardinetti, schiantarsi contro un palo e finire al pronto soccorso? Ecco, ora è sport olimpico. Pare che, dalle Olimpiadi di Londra, gli affiancheranno anche le evoluzioni in altalena e la copiatura del compito in classe.

Canoa canadese. E’ una presa per il culo del canottaggio e della canoa insieme, in cui gli atleti si mettono nella posizione di Maciste quando, con un ginocchio per terra e l’altro piegato, si aggrappa alle colonne del palazzo del cattivo centurione Caio Giulio Stronzolo e le tira giù; dopodichè cominciano a pagaiare furiosamente come se stessero spalando quintali di merda, mentre la canoa si muove di un millimetro alla volta. E’ una tortura per gli atleti e anche per il pubblico, perché vedi questo sforzo immane e vorresti dirgli “ma siediti e mettiti comodo, dai!”. Si parla di sostituirlo con una prova in cui gli atleti devono svuotare dall’acqua il campo di gara del canottaggio con un cucchiaio.

Taekwondo. Vabbe’, come si può presentare uno sport il cui nome fa rima con “scrondo”? Sostituitelo con la boxe thailandese, almeno si vede un po’ di sangue.

Equitazione. E’ lo sport in cui fanno correre dei cavalli su un percorso ad ostacoli aspettando che si schiantino, in modo da poter poi riassumere il tutto in stacchettini buffi di cinque secondi da mandare tra una partita di beach volley e una gara di nuoto sincronizzato. Almeno, questo è ciò che pensa la Rai.

Ping pong. O meglio, tennis tavolo, come lo chiamano i diversamente abili e gli operatori ecologici. Ma noi, che abbiamo sempre giocato a ping pong nei pomeriggi di vacanza faticando a tenere la palla in campo per più di tre colpi, restiamo sempre ammaliati da questi minuscoli cinesi che giocano a qualcosa che, rispetto al nostro gioco, ha in comune soltanto il nome e le regole. Certo, sarebbe più bello da guardare se ogni tanto si riuscisse a vedere la pallina.

Tennis. Non so se ve lo ricordate; è quello sport che si pratica con due racchette su campi rossicci di terra e che in Italia è stato abolito negli anni ’80. Pare che alle Olimpiadi ci siano due o tre tizi che arrivano con un aereo privato, affittano un castello, poi vengono portati con una Rolls-Royce sul campo rossiccio dove prendono a pallate in testa un egiziano qualsiasi, e infine ricevono una medaglia d’oro o d’argento, come premio al loro sportivo dilettantismo. Loro le mettono lì in bacheca, accanto alla foto dei loro primi dieci milioni di dollari, e risalgono sull’aereo privato. Perlomeno, il calcio ha il buon gusto di mandare gli juniores.

P.S. Non c’entra molto, ma – anche se ne abbiamo già parlato – vorrei segnalare i “giornalisti” Rai che stamattina hanno commentato la gara del K2-1000 maschile, dove c’era un equipaggio italiano qualificato col quinto tempo e presentato come “senza speranza”; infatti la gara è stata vinta da due tedeschi che a duecento metri dalla fine hanno tirato fuori un Evinrude da 200 cavalli, l’hanno appeso dietro alla loro canoa e hanno salutato tutti al doppio della velocità. Così i commentatori si sono esaltati e hanno passato tutto il finale di gara a gridare “Germania! Germania davanti alla Danimarca! Ecco arriva la Germania!” Poi, a gara finita da almeno dieci secondi, hanno aggiunto “E terzi… terzi…”; e solo allora, leggendo il tabellone, si sono accorti che terza era arrivata l’Italia, che a tre quarti di gara era quinta e che ha fatto una rimonta entusiasmante e incredibile, prendendo la medaglia per dieci centimetri (ho urlato persino io, anzi durante il finale si sentivano persino gli allenatori nostrani che gridavano dalla riva “Dai che prendete il bronzo!”, solo i commentatori non hanno notato nulla). Come ciliegina, hanno poi mandato un giornalista a intervistare i due appena scesi dalla barca, il quale ha esclamato con entusiasmo “Allora, avete onorato quella che è una delle barche storiche del canottaggio italiano!”, costringendo il neomedagliato a guardarlo storto e a correggerlo: “…canoa…”. Veramente senza parole.

[tags]olimpiadi, sport, rai, giornalisti, beach volley, pentathlon, nuoto, badminton, bmx, canoa, taekwondo, equitazione, ping pong, tennis, canottaggio[/tags]

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giovedì 21 Agosto 2008, 09:55

Soffia l’allegria!

“Soffia l’allegria!” è lo slogan delle manifestazioni culturali estive con cui Saint-Vincent, ex meta del turismo intellettual-danaroso ora in crisi d’identità, cerca di mantenere vivo il proprio appeal. Certo però che se il suddetto slogan viene riportato in fondo al manifesto che annuncia un evento come questo, l’effetto non può che essere piuttosto comico…

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P.S. E’ domani sera: secondo voi, è il caso che vada a sentire?

[tags]saint vincent, cultura, crepet, allegria[/tags]

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mercoledì 20 Agosto 2008, 14:57

Il servizio pubblico informa

Se per caso anche voi, come me, avete visto il TG1 delle 13:30 di oggi, potrebbe avervi colpito un lungo servizio dedicato alla vicenda del professor Claudio Riolo, politologo dell’Università di Palermo, che dopo quattordici anni di battaglia giudiziaria ha avuto ragione dalla Corte di Giustizia Europea, a cui aveva denunciato l’Italia. Il professore, racconta il servizio, aveva scritto sul periodico Narcomafie un articolo “critico” verso “un ex presidente della provincia di Palermo”, ed era stato per questo condannato dal tribunale di Palermo per diffamazione; la corte europea ha riconosciuto che la diffamazione era in realtà legittima critica delle azioni di un politico, e che l’Italia, condannando Riolo, ha violato la libertà di espressione riconosciutagli dal diritto internazionale.

Tutto bene, festeggiamo? Sì, però il TG1, nonostante l’esteso servizio con tanto di intervista al professore, si è “dimenticato” di riportare alcuni piccoli dettagli; e potevamo noi, dotati di buona volontà, non supplire a questo “errore” certamente del tutto involontario?

Per cominciare, l’“ex presidente della provincia di Palermo” ha un nome, cognome e partito: è Francesco Musotto, ex socialista, all’epoca dei fatti in Forza Italia. Oltre a “dimenticarsi” di fare il nome, il TG1 si è anche completamente “dimenticato” di raccontarci quali fossero le “critiche” contenute nell’articolo. Per esempio, il TG1 si è “scordato” di dire che l’argomento dell’articolo era la strage di Capaci; e che la “critica” per cui il professore era stato condannato dagli inflessibili giudici palermitani consisteva nel paragone tra Musotto e mister Hyde, in quanto egli da un lato presiedeva la provincia di Palermo e rappresentava le istituzioni, e dall’altro, nella sua professione di avvocato, difendeva uno degli imputati per la suddetta strage, strage che ovviamente è attribuita alla mafia. Il TG1 si è poi dimenticato di aggiungere che il suddetto Musotto fu processato per concorso esterno in associazione mafiosa, e che la sentenza, pur assolvendolo, dichiara probabile che egli sia stato eletto con voti mafiosi (tra l’altro fu poi aperto contro Musotto un ulteriore procedimento per voto di scambio) e documenta che la sua villa fu frequentata da mafiosi e usata per nascondervi delle armi, tanto da condannare suo fratello (si sa che in Forza Italia l’adorazione del capo è fondamentale, quindi va di moda avere un fratello che si becca le condanne). Infine, il TG1 non ha riportato le motivazioni della decisione della corte europea, che ritiene che la condanna, pur giustificata in base alle leggi italiane, rappresenti una limitazione della libertà di espressione oltre ciò che – come dicono le convenzioni internazionali – è “necessario in una società democratica”, e insomma che le leggi italiane sulla diffamazione e la loro applicazione da parte dei nostri tribunali siano troppo favorevoli ai politici e troppo poco a chi li critica.

Ci spiace che il TG1, un telegiornale solitamente così attendibile e scevro da qualsiasi servilismo nei confronti dei politici, si sia sfortunatamente macchiato di qualche piccola omissione; ma non temete, che il servizio pubblico lo facciamo noi della rete!

[tags]tg1, politica, informazione, giustizia, riolo, musotto, palermo, capaci[/tags]

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martedì 19 Agosto 2008, 11:32

Cervinia

Ieri sono stato per la prima volta a Cervinia, un posto di cui tutti dicono sempre un gran bene: del resto, se c’ha la casa Mike Bongiorno

In effetti una cosa eccellente a Cervinia c’è: era buona la pizza al taglio che abbiamo mangiato per pranzo, sulla via principale, accanto all’ufficio postale. Si sa che il vero segreto per fare buoni il pane e la pizza non è la farina, ma l’acqua; per questo motivo, in montagna è difficile mangiare pizza cattiva. Comunque, abbiamo apprezzato.

Il resto, invece, lascia perplessi. Il posto, in termini naturali, è bellissimo: una ampia conca soleggiata circondata da montagne altissime, con in mezzo il Cervino, da cui scendono ruscelli e cascatelle in mezzo ai prati, mentre verso la valle incominciano le foreste. Peccato che ci abbiano trasferito in mezzo un pezzo di città di raro squallore, che si avvicina molto alle vette di bruttezza di Bardonecchia.

Non è solo questione dell’effetto che fanno dei palazzi di tre, cinque, dieci piani nel bel mezzo di un prato d’alta montagna; è che i palazzi in questione sono per buona parte vecchi e cadenti. Uno non si immaginerebbe che in una località chic ed esclusiva – se non altro perché la quantità di appartamenti disponibile è ampia ma comunque non infinita – ci siano vecchi palazzoni anni ’50 con le ringhiere arrugginite e il cemento che si sbriciola; abbiamo persino visto un paio di case chiaramente in abbandono, con i vetri rotti e l’interno pieno di scritte. Per non parlare della partenza della funivia: un edificio bombardato, con il piano superiore diroccato e un’ala di cui resta soltanto un muro, e dall’interno sporco, che sembra mai più ripulito dalla seconda guerra mondiale; all’ingresso c’è persino un cartellone vintage, primi anni ’60, che segnala l’apertura o chiusura delle varie funivie con delle lucette semaforiche recuperate direttamente da un garage sotterraneo di Milano Lambrate.

Lo scempio sarebbe comunque tollerabile se fosse limitato all’interno della conca; e invece no. Basta girarsi verso est, la parte delle piste, per vedere palazzoni di ogni genere spuntare orrendamente tra i boschi e in mezzo ai pendii; a seconda della zona, si può ammirare il peggio dell’architettura anni ’50, il peggio dell’architettura anni ’60, il peggio dell’architettura anni ’70 e il peggio dell’architettura anni ’80. Come se non bastasse, il Cervino è incorniciato dalle gru: difatti – nonostante in Val d’Aosta sia vietato costruire nuovi edifici sopra una certa quota d’altezza – devono aver trovato qualche scappatoia, o qualche gancio politico, e così stanno ancora costruendo condomini sempre più in alto sulla montagna, naturalmente tutti con un ufficio vendite il cui numero di telefono inizia per 02 o al massimo 03.

Abbiamo capito l’aria che tirava quando, durante la nostra passeggiata sul lato ovest della conca (quello meno deturpato), abbiamo incrociato un tizio che nel tipico dialetto locale ci ha chiesto: “Uè, figa, ma questa è già Cervinia? Ma dov’è la strada che va a duemilaeotto?”. Praticamente, voleva arrivare con la sua macchinetta dritto dritto sulla cima del Cervino o quasi, e non si convinceva che in montagna, oltre una certa quota, si debba andare a piedi.

Alla fine, la natura è talmente magnifica che la passeggiata è stata bellissima lo stesso. Certo è che, a Cervinia, l’uomo si è messo di grande impegno a devastare la montagna.

[tags]cervinia, val d’aosta, pizza, turismo, deturpazioni, milanesi[/tags]

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lunedì 18 Agosto 2008, 18:09

Consigli per le sagre (2)

Per quest’anno ormai è finita, ma sabato sera abbiamo provato per voi una ulteriore sagra: per la precisione, la Sagra del Cinghiale di Pontey (AO), anche se sarebbe più corretto definirla la Sagra della Coda di Pontey (AO). Infatti, siamo giunti sul posto alle 19:20 – prendendocela anche un po’ comoda, temendo di arrivare troppo presto – e ci siamo trovati in mezzo a un ingorgo da festa di San Giovanni a Torino, con grumi di auto che si inerpicavano su per una stradina per parcheggiare accanto al campo sportivo, dove si tiene la fiera, e poi sopra e su per i monti in ogni tornante e angolo disponibile.

Così, dopo aver parcheggiato, alle 19:35 ci siamo messi in coda; una coda che attraversava tutto il tendone della sagra, poi usciva da un angolo e lo costeggiava per un ulteriore lato, e poi si sfrangiava nel mezzo del campo di calcio. I più esperti si erano dotati di generi di conforto, ma noi non eravamo preparati e siamo così rimasti in piedi praticamente per un’ora e mezza, sbucando davanti al punto di distribuzione del cibo alle 21:00 precise.

Gli è infatti che qui sono valligiani; invece di adottare, come in qualsiasi altra sagra, una coda per la cassa e poi una coda per la distribuzione del cibo – o ancora meglio un servizio al tavolo come a Cortanze -, questi hanno pensato bene di fare un’unica fila modello self service, in cui si prendono i piatti man mano che si scorre e si paga alla fine. Il problema è che i piatti sono cucinati al momento, per cui, su sette o otto pietanze, ce n’è sempre una che è in cottura: a quel punto, invece di far scorrere quelli che non la vogliono, al primo avventore che la richiede tutta la coda si ferma completamente per tre o quattro minuti, in attesa che arrivi la pietanza mancante. Insomma, solo a servire la coda ci sono una decina di volontari del posto, ma per la maggior parte del tempo otto o nove di loro sono lì con le mani in mano a guardare l’unico che deve servire il suo piatto. Aggiungeteci che non sono molto pratici (vabbe’, è una sagra) né molto oculati nelle scelte – mitica la “grigliatina”, piatto che costringe chi lo serve a prendere sei o sette pezzettini di carne inseguendoli uno per uno per il tegame e mettendoci mezzo minuto – e il risultato è un vero disastro.

La coda ha però avuto almeno il vantaggio di farci ammirare due tipi da leggenda: lui, cinquantacinquenne vestito da vela (in piena montagna?) e tutto sportivo; lei, squinzia quarantacinquenne un po’ passatella, tipo “so’ donna dell’omo vero”. Si sono infilati bellamente poco davanti a noi approfittando di una distrazione, poi hanno passato un’ora e mezza in coda affiancati senza dirsi una parola, nemmeno ciao: un grande rapporto! Alla fine dubitavamo persino che stessero insieme, e invece no, perché verso la fine hanno conversato per trenta secondi, argomento “cosa prendiamo”. E poi sono riusciti a prendere l’antipasto (l’unica cosa quasi priva di cinghiale) e la grigliata, schivando le cose più buone. Mah.

Bene, direte voi, dopo tutta questa coda – che mi ha permesso di pianificare abbondantemente le critiche da fare sul blog e le lettere di lamentela da inviare all’edizione locale della Stampa – il giudizio non potrà che essere negativo? E invece no: perché il cibo era davvero ottimo, con punte di eccellenza. Per qualcosa meno di venti euro a testa abbiamo preso un primo, un secondo e un dolce, più vino o acqua; le porzioni erano abbondanti e soprattutto buone. Sia i ravioli al cinghiale che la pasta al forno al ragù di cinghiale erano ottimi, ma la cosa davvero eccezionale era il cinghiale al civet con polenta, con la carne tenerissima e il sugo speziato al punto giusto. La grigliatina di cinghiale, in confronto, era soltanto passabile, consistendo di due bistecchine con l’osso e tre-quattro salsiccette, buone ma non indimenticabili. Infine, il dolce: la torta di pere e cioccolato era buonissima, ma la crema di Cogne – una crema pasticcera con dentro pepite di cioccolato fondente, da mangiare con un torcetto che era burro croccante – era davvero speciale.

Appuntamento quindi al Ferragosto dell’anno prossimo, rigorosamente non oltre le 18:45, che così magari in un’oretta ce la facciamo.

[tags]sagre, pontey, valle d’aosta, cinghiale[/tags]

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domenica 17 Agosto 2008, 13:23

La Rai massacra le Olimpiadi

Lamentarsi della Rai è uno sport nazionale; eppure, se basta aprire un qualsiasi blog, giornale o sito sportivo in questi giorni per leggere pagine e pagine di insulti alla nostra emittente di Stato, quindi qualcosa che non va ci deve pur essere; se mi passate la lunghezza, vi spiego le mie continue frustrazioni.

Diamogli pure l’attenuante che trasmettere in televisione una Olimpiade è difficile: quasi in qualsiasi momento si svolgono una decina di gare, e pur privilegiando quelle in cui vi siano italiani in gara (criterio già di per sé discutibile, ma comunque il più sensato in funzione delle aspettative degli spettatori, che per il 90% degli sport olimpici non sanno nemmeno le regole e arrivano al massimo a distinguere tra “quell’italiano lì” e “gli avversari”) capitano continuamente dilemmi orribili: trasmetto la scherma o la pallanuoto?

Per fortuna siamo nel 2008, e la Rai non è più limitata dai classici tre canali. In pratica, aiutata anche dal fatto che le gare si svolgono dall’alba fino al primo pomeriggio – fasce televisivamente non certo cruciali -, la Rai può dedicare alle Olimpiadi due canali: RaiDue (analogico e digitale terrestre) e RaiSportPiù (digitale terrestre e satellitare in chiaro), più otto diversi stream via Internet per coprire tutto il resto.

Sarebbe meraviglioso, se a gestire la programmazione non ci fossero gli ineffabili strateghi della redazione sportiva Rai.

Già, perché una persona sana di mente, quando ci sono due eventi contemporanei egualmente importanti, li manderebbe uno su un canale e uno sull’altro, magari mettendo su RaiDue gli sport più popolari e su RaiSportPiù – che comunque, tra digitale, satellite e Internet, è visibile dall’80% degli italiani – quelli un po’ più di nicchia.

Invece no: per metà del tempo, RaiDue e RaiSportPiù trasmettono la stessa cosa. Ma proprio la stessa! Qualcuno deve aver pensato che il target olimpico – che per la Rai apparentemente non è fatto di giovani, ma di vecchine col televisore in bianco e nero – non sia in grado di usare un canale digitale o satellitare: per cui, si manda un evento sul digitale, mentre su RaiDue si manda lo stesso evento, però in un riquadro che occupa due terzi dello schermo, mentre in un angolino c’è un altro riquadro minuscolo dove probabilmente sta venendo trasmessa l’altra gara importante del momento, solo che ci vorrebbe una lente di ingrandimento per individuare gli atleti e distinguerli dallo sfondo.

Dopodiché, su RaiDue comincia l’invenzione più assurda: il “ping pong”. Inteso non come disciplina olimpica (anche perché sulla Rai non si è vista manco mezza immagine del ping pong inteso come disciplina olimpica) ma come tentativo di trasmettere contemporaneamente due eventi, rovinandoli entrambi. Già, perché se tu sei preso da una partita di pallavolo nel suo momento clou, non è che di botto puoi resettare le emozioni ed appassionarti alla lotta greco-romana, e poi tre minuti dopo tornare sulla pallavolo (essendoti perso metà delle azioni migliori) e ritrovare l’eccitazione di prima, ma solo per altri due minuti, fino al successivo cambio di evento.

Facciamo l’esempio di ieri: in contemporanea si svolgevano una finale di consolazione della scherma, dove l’Italia avrebbe vinto il bronzo anche a mani legate, e il quarto di finale del calcio, Italia-Belgio a eliminazione diretta, chi vince è medaglia quasi certa, chi perde è fuori. Cosa avrebbe fatto una persona normale? Avrebbe mandato il calcio su RaiDue – ricordando che in Italia il pubblico del calcio è ampiamente superiore a quello di tutti gli altri sport messi assieme – e la scherma su RaiSportPiù.

Purtroppo, però, a RaiSport il calcio sta chiaramente sulle balle. Sarà che devono parlarne già per tutto l’anno; sarà che in questi giorni tutti i presidenti delle federazioni sportive italiane passano il tempo a sfruttare le proprie raccomandazioni politiche per ottenere che i propri sport minori – che, ricordiamo, si chiamano così perché di loro non frega niente a nessuno, anzi in certi casi non si capisce nemmeno come facciano a definirli sport – passino una buona volta su RaiDue. Sarà che i giornalisti Rai, invece di dedicarsi a fare servizio pubblico e quindi mostrare alla gente ciò che vuole vedere, si sentono aulici educatori che devono sfruttare il momento per far capire al popolo italiano quanto siano nobili la corsa nei sacchi olimpici o il tiro al piccione olimpico. Ma c’è, alla Rai, un evidente razzismo anticalcistico.

Già qualche giorno fa hanno stupito il Paese non trasmettendo Italia-Corea di calcio, per mandare invece in onda una interessantissima semifinale di spada tra un francese e un ungherese. Per mezz’ora tutta Italia ha zappato freneticamente su ogni canale disponibile, cercando di capire dov’era che davano la partita. Solo allora, dopo il primo milione di telefonate di protesta, alla Rai si sono degnati di mandare una sovraimpressione per dire che l’avrebbero trasmessa al termine della scherma; così, due ore dopo, hanno mandato in registrata non la partita, ma una sintesi, in cui ogni tanto, improvvisamente e senza avvertire, sparivano dieci minuti di gioco. Fine del servizio pubblico e italiani imbufaliti.

Si sperava che avessero imparato dai propri errori; e invece, niente. Ieri, qualche milione di italiani voleva vedere la partita, che è stata bellissima, combattuta, piena di colpi di scena, con cinque gol e due espulsi; e poi, ce n’erano una decina – tutti parenti delle atlete italiane in campo – che volevano vedere una finalina per la medaglia di bronzo dall’esito scontato (dopo due minuti l’Italia vinceva 9-2…). Comunque, avendo due canali, non c’è problema: si manda il calcio su uno e la scherma sull’altro, giusto?

No. La Rai ha mandato: sul digitale, solo la scherma; su RaiDue, un “ping pong” fatto di due terzi di scherma e un terzo di calcio. Per due terzi del tempo, a reti unificate andava in onda la scherma, che tra l’altro è lo spettacolo meno televisivo del mondo: ci sono due tizi bardati che saltellano per trenta secondi, dopo di che si buttano l’uno addosso all’altro e non si capisce niente, poi per quaranta secondi tutti guardano il soffitto mentre l’arbitro esamina la moviola, e poi l’arbitro dà un punto a uno dei due a caso, o più spesso dice “nulla di fatto” (ma in francese, che in inglese sarebbe troppo comprensibile) e si ricomincia. Forse Massimo De Luca e soci speravano di appassionare “a tradimento” gli italiani alla scherma; il risultato però è che gli italiani hanno passato il tempo a bestemmiargli dietro, mentre emozioni calcistiche di vario genere scorrevano via in un riquadrino per trasmettere invece su tutti i canali un arbitro che guarda un televisore. Invece che appassionarci, ora odiamo tutti la scherma: speriamo che alle prossime Olimpiadi la aboliscano, così magari ci faranno vedere la partita.

Ma non è un problema che riguarda solo il calcio: stamattina c’erano una eliminatoria di pallavolo, un quarto di finale di pallanuoto, e poi il canottaggio, con gare per la maggior parte senza italiani, e la vela. Pallavolo e pallanuoto sono tra gli sport maggiori in Italia, gli altri no; quindi si potevano mandare le due partite sui due canali e magari interromperle per qualche minuto per le sole finali di canottaggio degli italiani, mandando poi la vela alla fine, in differita ma per intero.

Invece no: il satellite è stato interamente dedicato al canottaggio; una mattinata piena di finali di sconosciuti e senza mezzo italiano, a parte un quarto d’ora, di uno sport che riscuote un interesse numericamente comparabile a Protestantesimo e dove quest’anno l’Italia ha pure fatto sonoramente schifo (altro che Abbagnale). Se calcoliamo cosa costa un canale digitale e satellitare, la Rai avrebbe speso di meno pagando il viaggio a Pechino a tutti gli italiani interessati alle gare.

Dall’altra parte, pigiati insieme, pallavolo e pallanuoto più pure un po’ di vela. Ora, la pallavolo è stata interessante fino al secondo set, poi le italiane sono chiaramente crollate, e comunque non c’era la qualificazione in palio. La pallanuoto, invece, è stata epica, con la zona medaglie in gioco, e l’Italia sempre a inseguire fino a raggiungere il pareggio su rigore a quattro secondi dalla fine, poi i supplementari tesissimi e la sconfitta finale ai rigori. Dunque, capito come girava, io avrei dato spazio alla pallanuoto e rimandato la fine del volley ad una eventuale differita; invece no. Avendo distribuito i minutaggi su RaiDue tra i vari sport col manuale Cencelli, mentre in piscina lottavano e prendevano pali noi ci siamo subiti lunghi periodi di brasiliane che schiacciano in faccia alle italiane con qualsiasi parte del corpo (oltretutto erano pure le uniche brasiliane brutte di tutto il Brasile). Poi, grazie a Dio, il volley è finito (non senza che ci avessero fatto vedere l’imperdibile punto del 25-16) e… è arrivato il canottaggio. Che già andava in onda sull’altro canale.

Allora, ancora ancora posso capire il farmi vedere la gara in cui gli italiani favoriti perdono ma prendono l’argento. Ma poi, hanno cominciato con la vela. Inquadrando un mare in tempesta dove non si vedeva niente. In una gara dove non si capiva nemmeno come facessero le classifiche, e l’Italia risultava una volta prima, una volta quinta, anzi no, forse è seconda, boh. A un certo punto si sono inventati il teatro dell’assurdo: per accontentare tutti, mandavano l’audio della vela ma le immagini della pallanuoto. Con il commentatore della vela che gridava “Ecco che scuffiano! Che immagini eccezionali in diretta!”, ma sullo schermo si vedevano i culi delle pallanuotiste che andavano a bordo vasca per il time-out, gli unici 60 secondi che si potevano anche non trasmettere.

La clamorosa rimonta finale delle azzurre in vasca si è vista sì e no per un terzo. Il secondo e decisivo supplementare non si è visto proprio, perché dovevano mandare in diretta, attenzione, non la gara di canottaggio, ma minuti e minuti di interviste finali con i nostri ansimanti che gridavano “Ciao mamma, sono arrivato due!”, che peraltro stavano già andando in onda sull’altro canale, e che era proprio fondamentale mandare in diretta anche su RaiDue. E poi, il finale della vela, con i due commentatori che dopo mezz’ora ancora non avevano capito una mazza di cosa stesse succedendo, e hanno gridato “Ecco! Arriva l’Italia, è argento, è argento!”, mentre le immagini mostravano solo la nebbia, e alla fine si è scoperto che l’Italia era quarta.

Bene, potrei andare avanti ancora per pagine – menzione speciale per l’idea di portare da Roma a Pechino ben otto editorialisti come Velasco e Chechi, apposta per farli parlare in diretta nello speciale di prima serata italiana ovvero dalle 3 alle 5 del mattino cinesi: immaginate che brio in trasmissione – ma mi fermo qui. Ci siamo capiti.

P.S. E Internet, direte voi? Almeno chi ha la banda larga potrà vedere quel che vuole, no? Beh, no: gli otto canali streaming funzionano solo con Windows Media, e comunque sono sempre piantati per mancanza di banda. Sul blog ufficiale, RaiSport ha scritto che “è colpa vostra perché vi collegate in troppi”. A nome del pubblico, scusate se esistiamo.

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sabato 16 Agosto 2008, 11:09

La seconda guerra fredda

Nonostante la sua accurata programmazione all’interno della settimana olimpica, la crisi georgiana ha, alla fine, avuto un buon risalto sui nostri mezzi di comunicazione. Comunque, noi italiani siamo sempre un po’ troppo buonisti, per cui i nostri reportage di guerra si concentrano sul far vedere le vecchiette che sfollano e sul gossip politico internazionale; quasi mai, quando c’è una guerra, si riesce a capire perché è scoppiata.

La Georgia è teatro di scontri costanti sin dal collasso dell’impero sovietico; si può dire che, sin dal 1991, non sia mai stata veramente in pace. Naturalmente, i media italiani non ne hanno praticamente mai parlato, se non qualche volta quando, nell’ultimo paio d’anni, i georgiani si sono lamentati del fatto che i russi gli stessero tagliando gli approvvigionamenti alimentari; per il resto, la Georgia è esistita sui nostri schermi solo per qualche sporadica apparizione come squadra materasso nei gironi europei del calcio.

Il Caucaso è una regione complicata quanto i Balcani; esattamente come nei Balcani, vi sono etnie e sotto-etnie che si guardano male da centinaia di anni, complici differenze di lingua, di religione e di provenienza storica. I russi hanno sempre adottato una politica di “divide et impera”, suddividendo il territorio e le sue etnie tra vari Stati indipendenti che però, a loro volta, erano formati da federazioni di repubbliche autonome, di modo che i costanti scontri tra i vari Stati della regione, sommati a quelli interni tra le varie repubbliche dello stesso Stato, rendessero impossibile una rivolta del Caucaso contro Mosca.

Quando l’impero sovietico collassò e la Georgia si rese indipendente, le due repubbliche autonome dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia dichiararono a loro volta l’indipendenza dalla Georgia; la prima per riunirsi all’Ossezia del Nord, che è una repubblica autonoma di pari etnia ma situata all’interno della Russia; la seconda invece era comunque a prevalenza etnica georgiana, ma per un gioco politico i suoi dirigenti cercarono l’autonomia, e negli anni finirono per ribaltare la distribuzione etnica. Di fatto, la situazione di questi due territori è da vent’anni quella che era del Kosovo fino a poco tempo fa: una indipendenza di fatto, protetta da forze armate di interposizione (che nel caso specifico erano un po’ locali, un po’ georgiane e un po’ russe), però non riconosciuta da nessuno e internazionalmente non valida; allo stesso tempo, tenuta in piedi dagli aiuti e dal potere politico di Mosca, che è giunta persino a concedere con larghezza passaporti russi agli osseti del sud in modo da poter giustificare il proprio intervento “a difesa di propri cittadini”.

Quando, qualche mese fa, su pressione degli americani (di cui la Serbia è nemica e il Kosovo è satellite) il mondo decise di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, era facile prevedere che tutte le secessioni del mondo si sarebbero presto messe in coda. Il presidente georgiano Saakashvili, un semi-dittatore amico degli americani, ha deciso così di agire d’anticipo: ha cercato di riconquistare con la forza le due repubbliche secessioniste prima che potessero procedere sulla via dell’indipendenza ufficiale. Mosca ha reagito, e si è arrivati così allo scontro di questa settimana.

All’inizio non si capiva bene cosa stesse succedendo, ma poi la cosa è stata chiara: si tratta del primo episodio caldo di una nuova edizione della guerra fredda tra la Russia e gli Stati Uniti. Qualche sospetto è venuto quando si è scoperto che i militari georgiani si muovevano su jeep americane nuove di pacca, mentre l’esercito osseto rispondeva con aerei russi su cui la bandiera di Mosca era stata cancellata con la gomma cinque minuti prima. Quando, nemmeno tre giorni dopo l’inizio del conflitto, gli americani hanno annunciato che una colonna di marines “umanitari” era già pronta allo sbarco sulle coste del Mar Nero, ecco, è parso chiaro come tutto questo fosse, dal lato georgian-americano, preparato da mesi.

Già, ma perché? Non vi è dubbio che si tratti di una piccola guerra militare, ma di una grande guerra mediatica; mitico quando entrambi i lati hanno proclamato un cessate il fuoco unilaterale davanti alle telecamere, per poi continuare a darsele di santa ragione. Il motivo è che gli Stati Uniti devono legittimare il proprio espansionismo nel Caucaso: continuando a ragionare con la mentalità della guerra fredda, vogliono andare a controllare i russi direttamente in casa loro. Vanno letti in quest’ottica sia gli annunci sparati secondo cui “la Russia si è posta al di fuori della legittimità internazionale” (che detto da gente che negli ultimi vent’anni ha invaso due o tre nazioni sovrane fa letteralmente pisciare dalle risate), sia quelli secondo cui la Georgia e l’Ucraina entreranno presto nella NATO, sia l’ultimo annuncio, quello che prevede l’installazione di missili americani in Polonia, praticamente alle porte di Mosca.

Quest’ultima notizia è passata un po’ sotto silenzio, ma è ancora più preoccupante, per due motivi: il primo è che per Mosca è una chiara provocazione che non passerà ignorata. Il secondo è che rappresenta l’ennesimo schiaffo della Polonia all’Unione Europea, visto che la politica estera dell’Unione andrebbe decisa insieme e che dubito molto che l’Europa abbia alcun interesse a schierarsi così apertamente contro la Russia. Arrivati da poco, i polacchi si sono subito distinti per aver preso l’Unione come un bancomat: ringraziano tanto per gli aiuti economici, ma quando c’è da fare qualsiasi concessione o da ragionare su interessi comuni fanno sempre e soltanto i fatti loro.

Proprio il ruolo dell’Europa in questa vicenda è, al solito, controverso. E’ andata un po’ meglio del solito, visto che Sarkozy ha avuto il buon senso di muoversi subito e accreditarsi fin dal principio come il massimo mediatore; peraltro anche questo potrebbe essere stato uno sviluppo calcolato in anticipo, visto che Sarkozy e Putin si piacciono (tra veri uomini ci si capisce). Dopodiché, però, l’Unione si è dimostrata al solito incapace di pesare davvero; il conflitto alle porte ha causato il solito megaincontro svogliato dei ministri europei, in cui si è distinto alla grande il nostro Frattini non andandoci nemmeno: per lui, la ripartenza della Guerra Fredda non è un motivo sufficiente per interrompere le vacanze alle Maldive.

Una Europa seria avrebbe la capacità, la credibilità e il peso per appendere al muro entrambe le superpotenze, spiegandogli che non è assolutamente il caso che si pestino nel giardino di casa nostra. Purtroppo, l’Europa è ancora un supercondominio dove tutti stanno insieme a parole, ma poi sono troppo impegnati a litigare sul conto della pulizia scale per riuscire a presentarsi seriamente all’esterno.

E ora, cosa succederà? Non so, non sono un esperto, ma Mosca ha il coltello dalla parte del manico; non solo può lasciare al freddo mezza Europa, ma ha mostrato peso militare e ha ricacciato i georgian-americani più indietro di prima. Gli americani, invece, sono un gigante dai piedi d’argilla: continuano a comportarsi come se fossero i padroni del mondo, grazie al loro indubbio dominio militare, ma hanno le pezze al culo, sono pieni di debiti quasi come gli italiani e la loro economia ha un futuro piuttosto dubbio. Se a russi e cinesi girasse di smettere di comprare i loro debiti, gli americani chiuderebbero baracca entro breve.

Per questo motivo, la seconda guerra fredda potrebbe finire molto diversamente dalla prima. La prima guerra fredda è stata vinta dagli americani sul piano economico, sfruttando il limite teorico del comunismo: l’incapacità di un sistema economico a pianificazione centrale ad evolversi a velocità comparabile con uno basato sulla libera iniziativa personale. Ora, però, Russia e Cina hanno capito il trucco; da quando Putin ha preso a mazzate nei denti la mafia che era fiorita tra una ciucca di Eltsin e l’altra, l’economia russa ha cominciato a galoppare; della Cina già sappiamo. Chissà che questi paesi non vincano la seconda guerra fredda sfruttando il limite teorico del capitalismo: l’incapacità di un sistema basato sulla libertà personale di sfruttare la propria manodopera quanto un sistema autoritario e collettivista.

Nessuno sa, in tutto questo, quale sarà il ruolo dell’Europa: per ora essa sta mettendo insieme il peggio dei sistemi capitalisti con il peggio di quelli socialisti, unendo bassa innovazione e bassa produttività e finendo dritta verso la recessione; e non è stata in grado di giocare il ruolo politico che invece le spetterebbe. Forse, tra un’edizione e l’altra di “scriviamo un incomprensibile trattato di duecentocinquanta pagine per poi farcelo bocciare da questo o quel paese membro”, sarebbe il caso di arrivare a una proposta chiara e convincente su questi piccoli particolari.

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venerdì 15 Agosto 2008, 10:51

Ferragosto

Oggi è Ferragosto, e volevo rivolgere un pensiero a come sono cambiate le nostre vacanze estive. Quando eravamo ragazzi – meno di vent’anni fa – quasi tutte le famiglie passavano in vacanza un mese o più, al mare o in montagna; magari dai parenti o in campeggio per ridurre i costi, ma quasi tutti cercavano di lasciare la città per parecchie settimane, lasciando magari solo il capofamiglia a fare un po’ di su e giù se proprio non poteva prendere tutte le ferie.

Al mare in Liguria, la folla di torinesi era tale che spesso ritrovavi qualche vicino di cortile o di scuola; sembrava un po’ una succursale della città. La vacanza passava tra spiaggia, letto, giochi di vario genere e giusto qualche gitarella ogni tanto; da ragazzi ogni tanto si aveva da studiare, ma il grosso del tempo era riposo.

La sera, poi, si usciva e si andava a prendere il gelato – generalmente confezionato, dal tabaccaio – seguendo gli ultimi trend pubblicizzati su Topolino: ogni anno uscivano mirabolanti invenzioni, come il Calippo o il gelato di biscotto rotondo coi pezzetti di cioccolato, che per l’Italia degli anni ’80 era un lusso inimmaginabile. E poi si andava a fare la coda alla cabina telefonica, per chiamare i parenti; la coda alla cabina era un altro momento di socializzazione, mentre si cercavano di mettere insieme i gettoni telefonici: un oggetto oscuro e anche economicamente misterioso, visto che ogni tanto ne raddoppiavano di botto il valore e ognuno di noi si ritrovava per magia più ricco di qualche centinaio di lire, mentre l’azienda telefonica faceva fortune, solo che allora si chiamava SIP ed era dello Stato, quindi non faceva differenza.

Oggi, le vacanze sono diventate un altro lavoro; si sono accorciate e addensate. Si sta via otto giorni, nei quali però la spiaggia vietatissima è, a meno che non sia in un altro continente e non venga accompagnata da discoteche fino alle tre di notte e giornate di “sport” inventati da un australiano ubriaco, tipo il windsurf appesi coi denti a un cavo trainato da quattro bufali di mare in calore. In alternativa, bisogna salire su un aereo low-cost per poi affittare un’auto e vedere un intero Paese a tappe forzate, duecento chilometri al giorno con pause foto contingentate di dieci minuti ogni ora, esattamente come i turisti giapponesi che da ragazzi prendevamo in giro. Naturalmente, l’organizzazione di questo tour de force richiede ulteriore lavoro, per cui i mesi precedenti la vacanza si riempiono di ulteriori attività preparatorie; si arriva in vacanza stanchi e si torna più stanchi di prima.

Le cabine telefoniche non esistono quasi più, se non in qualche frazione sfigata e dimenticata da Dio; ormai c’è il cellulare, grazie al quale – dopo soli dieci minuti di danze voodoo per trovare campo – siamo sempre reperibili per qualsiasi rottura di scatole, anche dall’altro capo del mondo. In compenso, la SIP è diventata Telecom e fa arricchire alle nostre spalle, a turno, tutti i capitalisti raccomandati d’Italia. I gelati sono preparati a mano secondo le “antiche ricette di una volta” (il che, a rigor di logica, dovrebbe voler dire che hanno riaperto gli stabilimenti Sanson ed Eldorado, e invece non è così), costano tre euro a cono e quando te li vendono te li fanno pesare come a dirti “ringrazia che, per ora, puoi ancora permetterti un gelato”.

In effetti, anche io sono arrivato in montagna pensando che avrei comunque, ogni tanto, fatto qualche lavoretto, di quelli che durante l’anno proprio non ci stanno. Invece sto passando le giornate a dormire e guardare la televisione, e ne sono proprio fiero.

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giovedì 14 Agosto 2008, 15:01

Atlete

Ho scoperto un buon motivo per guardare le Olimpiadi: si vedono certe facce…

Ad esempio, stamattina una nostra atleta si è scontrata contro una brasiliana per il torneo di judo femminile categoria 78 kg. Solo che la brasiliana si è in realtà rivelata essere un ex trans ora divenuto orso bruno, con qualche grumo di capelli ancora appiccicato in testa, e una testolina minuscola su un corpo gigantesco a forma di sacco di patate da cinque quintali. Appena la nostra si è avvicinata, la brasiliana l’ha sollevata e l’ha scaraventata a terra, poi le si è rotolata sopra esclamando “Grunf”, con la femminilità di Bud Spencer quando, ai bei tempi, si arrabbiava.

Anche la finale del tiro è stata interessante. La nostra, che poi ha vinto l’oro, sembrava una sciampista della bassa veneta appena uscita dal parrucchiere, tutta in tiro come se stesse per andare a far compere alla profumeria Unix di Marostica (VI). Tra le avversarie, però, c’era una cinese con lo sguardo assassino; ma veramente assassino, tanto da terrorizzare anche attraverso lo schermo. Con un fucile in braccio, aveva negli occhi quell’espressione che diceva “sì, ho un fucile, ma anche se non ce l’avessi potrei accecarti con un colpo di kung fu, quindi strapparti la lingua e usarla per legarti le palle e poi staccartele a morsi”. Credo che io, fossi stato lì, le avrei data vinta la gara per il terrore; e invece è arrivata ultima. Ma pensa te.

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