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sabato 26 Luglio 2008, 08:54

Giocando coi computer

Siccome oggi sono in viaggio, vi lascio sul blog qualcosa da scoprire: un videogioco per PC di qualche anno fa. Si chiama Big Rigs: Over The Road Racing, e, come racconta la scatola, permette al giocatore di compiere una folle corsa per le strade degli Stati Uniti alla guida di un enorme camion, con lo scopo di consegnare il carico prima degli avversari e a qualsiasi costo, evitando gli inseguimenti della polizia.

Peccato che, una volta aperto, si scopra che il gioco ha alcuni piccoli problemi. Per esempio, il camion, apparentemente renderizzato da un Atari 2600, non ha alcun carico da consegnare, nè è possibile ottenerne uno. Questo comunque non impedisce al giocatore di gareggiare, visto che il suo camion può comunque completare il percorso e, nel caso arrivi primo, vincere la coppa:

Yourewinner-38601.jpg

Certo, la vittoria è un po’ sgrammaticata, perché in inglese come in italiano ci vorrebbe un qualche tipo di articolo o pronome prima di “winner”; ma volete mettere la soddisfazione di alzare la coppa? ammesso che ci riusciate, naturalmente, visto che come si vede dall’immagine la coppa ha tre maniglie, forse quattro, e deve quindi essere stata progettata per un camionista alieno.

Comunque, alle volte la vittoria sarà più facile di come sembra, perché il controllo di posizione è buggato e, nei circuiti circolari, la vittoria vi verrà assegnata prima ancora che partiate. Ma anche se doveste disputare veramente la gara, non preoccupatevi: potete tranquillamente tirare diritto, visto che gli ostacoli – case, pali, staccionate, muri… – apparentemente sono inconsistenti, e il vostro camion potrà passarci tranquillamente attraverso. Certo, ciò è problematico per i ponti, visto che anche se li imboccate sprofonderete e discenderete il costone della valle, ma poi lo potrete risalire senza problemi: difatti, il vostro bestione si inerpica senza minimamente rallentare su qualsiasi pendenza del terreno, anche verticale. State solo attenti a non oltrepassare le montagne che cingono lo scenario di gioco, perché finireste per addentrarvi all’infinito dentro un inquietante nulla grigio. Se però foste in ritardo, avete comunque un trucco a vostra disposizione: infilando la retromarcia, il vostro camion comincerà ad accelerare, ed accelerare, ed accelerare, arrivando a indietreggiare a una velocità (secondo il display del gioco) di diversi milioni di chilometri all’ora; ma basterà rilasciare il tasto perchè il camion si fermi di botto.

In ogni modo, anche tutti questi piccoli dettagli saranno insufficienti a mettervi in difficoltà: perché, vedete, c’è anche il problema che manca l’intelligenza artificiale dell’unico altro concorrente della gara, per cui esso rimarrà fermo prima della linea di partenza, permettendovi agevolmente di vincere in qualsiasi caso, vista anche la totale assenza di altri veicoli, tra cui la millantata polizia; e di ripetere l’esperienza nei ben cinque circuiti del gioco, anzi quattro perché selezionando il quinto il gioco si pianta e ritorna al menu iniziale.

Crediateci o no, non è uno scherzo: questo gioco è stato veramente collocato sugli scaffali dei negozi nel Natale del 2003, e distribuito addirittura da Activision (che ormai, detto fra noi, è diventata una classica EvilMegaCorp: basta vedere come ha devastato Guitar Hero da quando l’ha preso in mano). Pare abbia anche venduto discretamente, se non altro per le palle marchettare stampate sulla confezione.

C’è chi dice che sia stato un esperimento, per vedere quante copie di un gioco non funzionante si potevano vendere semplicemente con il marketing e la spinta sui canali distributivi; o addirittura che sia stata una geniale mossa commerciale per realizzare un gioco talmente brutto da far parlare di sé (infatti ha vinto premi a mani basse come peggior gioco di tutti i tempi: qui la leggendaria video-recensione di GameSpot) e quindi da venire acquistato per tale motivo.

La realtà è che la compagnia che lo ha prodotto, tale StellarStone, si vanta del proprio modello di business: affittare ad aziende occidentali giovani programmatori russi per un costo che è una frazione del normale. In pratica, la realizzazione del gioco è stata subappaltata in Russia con un budget con cui, al giorno d’oggi, si fa a malapena il sito Web di una salumeria; naturalmente il risultato non è stato particolarmente aderente alle aspettative, ma in fondo ai manager non importava, tanto bastava mettere la scatola sugli scaffali e qualcuno l’avrebbe comprato lo stesso.

E’ veramente incredibile pensare che ci possa essere qualcuno, nei paesi sviluppati, che basa il proprio business sulla competitività dei propri prodotti software, ma che poi per risparmiare va a dare in outsourcing l’implementazione a sconosciuti sviluppatori del secondo e terzo mondo, solo perché costano di meno e promettono di realizzare lo stesso prodotto per un quarto del prezzo. E’ solo alla fine che si scopre che, purtroppo, non è lo stesso prodotto.

E’ davvero incredibile, eppure è la politica che adottano i tre quarti delle software house italiane che conosco direttamente, comprese quelle con piani di competizione mondiale…

[tags]videogiochi, big rigs, peggior gioco di tutti i tempi, outsourcing, programmazione[/tags]

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venerdì 25 Luglio 2008, 19:21

Qui mancano gli standard

Sto partendo per un viaggio di 12 giorni (più due di viaggio): quattro giorni in ognuna di tre diverse città.

L’intervallo di temperature previsto nelle tre città è:

  • Dublino: minima 12 gradi, massima 18 gradi;
  • Sapporo: minima 19 gradi, massima 26 gradi;
  • Tokyo: minima 26 gradi, massima 33 gradi.

E in più devo anche calcolare una escursione sulle pendici del monte Fuji, a oltre duemila metri di altezza. A Dublino farò una riunione d’affari, ma anche una escursione collinare con probabile fango; a Sapporo devo tenere un discorso; a Tokyo farò il turista, ma forse riceverò anche un invito a cena.

Ora… ma come faccio io a far entrare in una sola valigia il guardaroba adatto per tutto ciò? Posso fare qualche compromesso, ma insomma, cari stranieri, mettetevi d’accordo: sarebbe il caso di adottare finalmente una temperatura standard uguale per tutto il mondo.

[tags]viaggi, temperature, valigie[/tags]

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venerdì 25 Luglio 2008, 12:48

Perdere le cose

Fervono i preparativi per il mio viaggio pluri-continentale – parto domani mattina presto – e così stamattina, esaurite le ultime incombenze come la chiusura contabile mensile, ho cominciato a smazzare la checklist delle cose da fare prima di partire, che al punto numero uno reca: “passaporto”.

Ossia, tirar fuori il passaporto ed essere sicuri di portarlo con sé; non è bello arrivare fino in Giappone e poi venire rispediti indietro per mancanza del documento.

In realtà, il motivo per cui questa cosa era in cima alla mia lista era che già da qualche giorno si era sviluppata in me una sottile inquietudine. Già, perché le ultime volte che ho aperto il cassetto dei documenti, il passaporto non c’era; non è un caso così strano, perché quando uno arriva a casa dopo un lungo viaggio ha solo voglia di sbattersi sul letto o sul divano, e non certo di risistemare tutto; a partire dal giorno dopo, poi, si viene sopraffatti dal lavoro arretrato. Succede quindi che il passaporto resti per un po’ in altri posti; sulla scrivania, o nelle tasche della giacca, o nel marsupio; fino a quando, vedendolo lì, lo prendo e lo metto a posto.

In questo caso, però, l’ultimo viaggio era stato tre settimane fa ed è un tempo piuttosto lungo; era strano che il passaporto non fosse tornato nel cassetto. Così stamattina ho cominciato a cercarlo; ho perquisito il cassetto, ma niente; ho provato gli altri cassetti, senza risultato; ho smosso le varie pile di carte e documenti che occupano il davanzale della finestra, la superficie del comò, la scrivania, un angolo del divano, ma ancora niente. Ho guardato nelle tasche di tutte le giacche che avevo a Parigi, ma non c’era nulla se non un paio di scontrini e un biglietto del metrò. Ho provato a guardare dentro la valigia, negli altri armadi, sul mobile del tinello, in mezzo ai libri, insomma un po’ dappertutto; ho persino ricontrollato il marsupio, come se avessi potuto lasciarci dentro il passaporto per tre settimane senza mai vederlo.

Poi, non avendo trovato nulla, ho rifatto tutto il giro una seconda volta; ancora niente. Qui ho cominciato ad avere un attacco di panico; a domandarmi se sia possibile in Italia rifare il passaporto in un pomeriggio, a qualsiasi costo (seeh); a immaginarmi scene lacrimose di me che imploro un arcigno doganiere nipponico di lasciarmi entrare nel paese con la carta d’identità.

Alla fine, comunque, ho avuto l’illuminazione: ho notato in un angolo della scrivania la borsa della macchina fotografica; l’ho aperta e il passaporto era lì, infilato nella fessura che sta tra lo scomparto della macchina e il retro della borsa. Solo allora mi sono ricordato che a Parigi non avevo portato il marsupio ma la giacca, ma al ritorno, visto il caldo che faceva, avevo messo la giacca in valigia e avevo usato la borsa della macchina fotografica come marsupio (è una mossa che faccio spesso all’estero, per ridurre il numero di borse con cui giro). Poi, arrivato a casa, avevo buttato la borsa in un angolo e non l’avevo mai più toccata fino ad oggi.

Adesso il passaporto è pronto nel marsupio, e posso proseguire. Certo però che, se fossi più ordinato, eviterei di rovinare il mio sistema cardiocircolatorio.

[tags]perdere le cose[/tags]

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giovedì 24 Luglio 2008, 13:57

Cara Università

Cari sindacati dei docenti universitari, dei ricercatori, del personale tecnico e amministrativo, dei dottorandi e financo degli studenti di sinistra, scusate se commento il vostro documento relativo agli ultimi provvedimenti governativi in materia di Università e alla vostra reazione totalmente contraria.

Il commento non vi piacerà molto, ma forse vi può essere utile la reazione di un esterno che però segue l’università da vicino, vuoi per averla fatta non solo da studente ma anche da amministratore, vuoi per conoscere direttamente varie persone rimaste nelle pieghe della precarietà universitaria.

Molte delle rivendicazioni sono sacrosante e assolutamente sottoscrivibili; quello che però colpisce leggendo un documento come questo è la totale mancanza di autocritica. Parte dei problemi dell’università sono indubbiamente riconducibili a responsabilità del governo, alla mancanza di fondi e investimenti, a riforme un po’ dissennate tipo il 3+2 e così via; molti altri però dipendono direttamente dalla classe docente, dal personale tecnico, anche dagli stessi studenti.

Per esempio: in molte università si convive ancora con docenti che non si presentano a lezioni ed esami e non ne rispondono a nessuno; con insegnamenti obsoleti tenuti in vita solo per non eliminare i relativi posti di lavoro; con soldi spesi malissimo e servizi scadenti non per via della mancanza di fondi ma per via di incapacità organizzative, rigidità sindacali, malcostume vario; con concorsi che sono tutti truccati dall’inizio alla fine per volere preciso della docenza; con la moltiplicazione di cattedre, istituti, atenei semplicemente per moltiplicare stipendi e prebende. In questo documento non si menziona nulla di tutto questo, si dice solo “non toccate una lira dei nostri fondi e delle nostre prerogative altrimenti faremo le barricate”; una posizione totalmente conservatrice.

In una situazione dei conti pubblici che è quella che è, è indubbio che l’università possa trovare risorse soltanto eliminando i propri sprechi, spendendo meglio ciò che c’è e alleandosi con il privato; non ci si può aspettare che lo Stato, che pure nell’Università investe poco, possa allargare la borsa in questo momento storico, tanto più a fronte di risultati che accanto a punte di eccellenza vedono situazioni totalmente scadenti. Negli ultimi decenni sono stati creati Atenei in qualsiasi angolo del Paese, alcuni utili, molti però ridicoli, pieni di “figli di” e di raccomandati, di docenti i cui curriculum scientifici fanno ridere: tagliargli i fondi è un dovere, non certo un delitto.

E che “trasmissione della conoscenza” fa una Università quando non produce ricerca di livello internazionale, sforna laureati ignoranti che vanno a fare i disoccupati, non collabora con il sistema economico, non produce innovazione e si limita a vivacchiare a spese dello Stato? Siamo sicuri che tutte queste frasi non siano formule che vengono ripetute all’infinito soltanto per giustificare l’afflusso di soldi?

E come si fa a restare seri leggendo che gli aspiranti ricercatori emigrerebbero all’estero per mancanza di fondi e concorsi in Italia, quando sappiamo tutti perfettamente che quelli bravi emigrano all’estero perchè qui non trovano spazio dovendo lasciare la precedenza e le già scarse risorse ai raccomandati di turno, e comunque in molti casi finirebbero in un ambiente di basso livello scientifico che tira a campare e certo non favorisce la loro crescita professionale, anzi alle volte sega i più bravi perchè se no si vede troppo che ci sono anche i mediocri?

Io vorrei una Università che innovi, che si metta in gioco, dove chi lavora bene sia premiato e possa avere molte più risorse di oggi, ma dove chi lavora male o non lavora proprio vada a casa alla velocità della luce. Credo che o l’Università stessa si mette in questa ottica – protestando giustamente contro il disinvestimento e il disinteresse, ma anche proponendo qualcosa di nuovo, passando a logiche di spietata selezione meritocratica, cercando di affrontare dall’interno i propri problemi, puntando a fare meno cose ma più utili, meglio pagate e di livello più alto – oppure finirà comunque per affondare e per trascinare con se stessa il Paese, perchè sul fatto che l’Università sia centrale per la crescita di un paese sviluppato non ci piove.

Dov’è che sbaglio? Forse le carenze di cui sopra le vedo solo io? Perché nessuna di queste decine di organizzazioni sindacali sembra avere alcun problema con lo stato attuale dell’università, ma solo con i tagli di fondi? Qualcuno mi spiega o vivo in un mondo parallelo?

Mi scuso ancora per la passione, sono solo i miei due cent e non intendo offendere nessuno, se mai suscitare qualche riflessione.

[tags]università, ricerca, riforme[/tags]

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mercoledì 23 Luglio 2008, 09:43

Racconto di via Cuneo

All’imbocco di via Cuneo sembra quasi un quartiere per bene, con un fiume per bene e dei palazzi che lo guardano attraverso gli alberi, cercando di non diventare abbastanza alti da vedere gli spacciatori dall’altra parte del fiume.

All’incrocio di via Cuneo con via Cecchi bisogna schivare le macchine abbandonate ovunque, ferme di fronte a un phone center qualsiasi, cercando di non ostruire troppo il passaggio dell’11.

Poi via Cuneo sfocia in una piazza rotonda in salita che sembrerebbe un angolo remoto di Parigi, se non fosse che il suo solo scopo è coprire una ferrovia che non esiste più, il cui trincerone però resiste cocciuto per testimoniare che, sì, una volta si usavano i treni.

Di lì, prosegui per via Cuneo e ti sembra di esserti sbagliato un attimo, perché improvvisamente compaiono un rialzo nuovo, un vialetto nuovo, un giardino nuovo che sembra preso di peso dalla periferia dell’estrema cintura, teletrasportato fino lì dagli ultimi suburbi di Settimo o di Nichelino; ed è l’unica cosa nuova che sia stata fatta a via Cuneo negli ultimi cento anni.

Poi in via Cuneo inizia una maestosa alberata, una striscia di Champs-Élysées che messa lì in una viuzza qualsiasi non ha veramente alcun senso, se non quello di ricordarci che una volta chi costruiva le fabbriche aveva anche l’orgoglio di metterci una alberata davanti. Le fabbriche sono andate da tempo, e guardando attraverso un cancello arrugginito si vede un enorme cortile di cemento bordato di arbusti fioriti, con un unico prepotente cespuglio che ha spaccato il cemento e svetta solitario proprio al centro; un unico fiore su una gigantesca lapide all’industria che fu. Vorresti fermarti e fargli una foto, ma non puoi, perché seduti tra gli alberi ci sono due messicani stanchi che parlano di gringos e ti guardano storto, o forse sono solo due pusher appartati.

Di lì a poco via Cuneo attraversa corso Vercelli, una specie di Valle della Morte larghissima e fatta solo d’asfalto e macchine che sfrecciano da nulla a nulla, senza neanche un filo d’erba; per un corso torinese è un evento troppo raro per non essere voluto.

E’ solo dopo corso Vercelli che inizia via Cuneo, quella vera: un solo isolato di antiche case basse, in pratica cascine il cui progetto fu a malapena ritoccato per trasformarle in case di ringhiera, uso operai con tanta prole e pochi soldi. Ora sono anonime e silenziose, al momento è giorno e nessuno sta ancora litigando, ma per l’epoca dovevano essere palazzoni traboccanti di vita.

Nell’unico isolato di via Cuneo, fai lo slalom tra i neri; se vedi qualche italiano è lì che corre via, per non farsi pisciare addosso. Tre neri di un paese africano qualsiasi sono addossati a una vecchia Ritmo; schiamazzano, e si vede benissimo che per loro il primo Novecento non è mai esistito. Proprio lì, al numero sei di via Cuneo, è nato Gipo Farassino; dev’essere per quello che, praticamente di fronte, gli resiste un insensato negozietto di chitarre elettriche.

Via Cuneo finisce contro un passaggio pedonale, un modesto tentativo di buco nella corsia muragliata a centro strada che permette al 4 di scorrere per corso Giulio. Anche il 4 scorre piano, non solo perché è il tram più lento della storia della tramvieria, ma perché cerca di non farsi troppo notare dagli extracomunitari della zona, per non essere preso a bottigliate. Prima o poi, come nel terzo mondo, tireranno su delle pareti di cemento e faranno scorrere il tram in un tunnel, per evitare anche solo l’affaccio su via Cuneo, il nuovo Bronx di Torino.

Eppure, vista così, via Cuneo è una meraviglia, un liofilizzato di storia umana 1900-2008, dove i poveri di ogni epoca e di ogni generazione hanno preso il posto dei poveri dell’epoca e della generazione precedente, partendo dal piemontese stretto e arrivando all’igbo e allo yoruba.

Ma è più facile dirlo quando uno non ci deve abitare.

[tags]torino, via cuneo, immigrazione, storia, farassino[/tags]

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martedì 22 Luglio 2008, 15:11

Tiscali!

Ero qui tranquillo che smazzavo la mia posta guardando la fuga di Cunego al Tour, quando nel mio Thunderbird è apparsa una mail da Tiscali, il mio fornitore di ADSL. Curioso, l’ho aperta: mi comunicavano che la mia richiesta di modifica dei dati personali – cambiando il numero di conto in banca e l’indirizzo, che loro avevano originariamente caricato in modo errato – era stata accolta e processata, e si scusavano perché “la mancata modifica dei dati di pagamento è dovuta al processo di migrazione dei sistemi, verso una nuova piattaforma di gestione.”.

Io mi ricordavo di avere inviato questa richiesta tramite il loro sito Web “130 fai da te”, ricevendo in cambio un sacco di errori; ma era molto tempo fa, in una delle prime fasi di tutte le mie peripezie con Tiscali (risolte con il pagamento di una fattura via carta di credito per telefono, dopo il primo post sul blog; per la seconda dovrebbe partire il RID, ma a questo punto non sono più sicuro di niente). Ma era proprio molto tempo fa, parecchie puntate prima di quella.

Così ho controllato, anzi, nella mail stessa c’era scritto quando avevo inviato la richiesta di assistenza a cui loro stavano ora per la prima volta rispondendo: esattamente lunedì 11 febbraio 2008 alle ore 11:33:26.

Beh, come tempo di risposta a una richiesta di assistenza online, cinque mesi e mezzo non è male: ammiro comunque la perseveranza!

[tags]tiscali, assistenza, customer care, piani di migrazione ben studiati, le meraviglie delle corporation moderne[/tags]

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martedì 22 Luglio 2008, 10:16

A dieta di pere cotte

La nuova stagione calcistica è iniziata già da una decina di giorni, e il Toro era l’unica squadra a non avere ancora aperto la propria campagna abbonamenti. Dopo due stagioni buone rispetto alla storia recente del Toro, ma deludenti rispetto alle aspettative incautamente generate da Cairo, la piazza è abbastanza in fermento; e una campagna acquisti all’insegna della rivendita di pera cotta – in cui il Toro è stato schifato pure da un croato del Livorno, e non è riuscito a comprare nulla se non un ulteriore vecchio e costosissimo attaccante da aggiungere alla collezione geriatrica – non ha affatto aiutato le cose.

Da alcune indiscrezioni, dopo lo iellatissimo slogan dell’anno scorso “Quest’anno ci divertiamo”, la locandina di quest’anno doveva essere così:

cairo20082ae7inflated.jpg

Invece, è stato svelato il mistero, ed ecco il manifesto vero:

abbonamenti2008.jpg

Per la prima volta in quattro anni, Cairo non ci ha messo la sua faccia sopra (chissà quanto ci hanno messo a convincerlo), e ha invece lanciato un messaggio chiaro: io me ne lavo le mani, mo’ so’ tutti cacchi vostri. A tale scopo, ha prodotto un mostro di photoshoppatura che in confronto quelli di Maxim sono dei dilettanti, montando insieme una coreografia notturna, un cielo azzurro artificiale e un bandierone in primo piano appiccicato col copia e incolla. E nel frattempo, anche quest’anno si è “dimenticato” di praticare un qualsiasi sconto ai ragazzi nelle curve, una strategia suicida per il futuro (per dire, la Lazio gli abbonamenti ridotti di curva li regala).

Insomma, butta male; del resto, di Cairo ormai conosciamo sia le qualità – è un buon manager, sa comunicare, parla italiano – che i difetti – è accentratore, banfa a mille, fatica a riconoscere i propri limiti e, nella scala di misura del calcio, non ha una lira. Il risultato è una società che non sta in piedi, che ha cambiato allenatore cinque volte e direttore sportivo quattro volte in tre anni, che ha una struttura organizzativa che fa ridere di gusto chiunque la guardi e che dipende ancora completamente dalle paturnie del presidente, con i giocatori che fanno quello che vogliono ma che si sentono abbandonati (dopo venti giorni il nuovo DS non aveva ancora parlato con la squadra, nemmeno per telefono…).

Il risultato sono perle amare, una dietro l’altra; in soli dieci giorni ne abbiamo già viste due eccezionali.

La prima è quando Di Michele, già in polemica prima ancora di cominciare, è andato a dichiarare ai giornali che non si sentiva abbastanza considerato dall’allenatore De Biasi. La risposta di De Biasi è stata una lunga arringa in cui dichiarava che i veri uomini le cose se le dicono in faccia, pubblicata tramite il suo sito Web.

L’altra è stata ieri, quando sempre De Biasi ha rivelato ai giornalisti di aver richiesto l’acquisto del laziale Mauri, suo vecchio pallino, che ritiene fondamentale per il suo modulo di gioco. La risposta di Cairo, sempre ai giornalisti, è stata: ma no, Mauri non è adatto al modulo di De Biasi, piuttosto voglio comprare una mezzala. A parte il fatto che di mezzali il Toro ne ha una decina, e quel che manca è una punta centrale, dove si è mai visto il presidente che spiega all’allenatore quali sono i giocatori adatti al suo modulo di gioco?

E però, siamo al terzo anno consecutivo di A e ciò non succedeva da quindici anni; speriamo bene che ce ne sia un quarto.

[tags]toro, cairo, abbonamenti, pere cotte[/tags]

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lunedì 21 Luglio 2008, 14:50

Il bruto pieno della vita

Ci sono poche cose che, nella nostra società, ti qualificano come un bruto. Puoi fare ministro le tue amanti o possedere tutta la discografia di Franco Califano, e nessuno solleverà un sopracciglio; ma non parlare male degli animali, specie quelli domestici, o finirai coperto di pece nella pubblica piazza.

Questo, comunque, non vale per tutti gli animali. Certo, cani e gatti sono sacri; per mucche e galline vale una certa ipocrisia, nel senso che fa tanto piacere vederli pascolare o razzolare nell’aia, ma fa anche tanto piacere mangiarli. Altri animali, invece, non godono degli stessi diritti civili; fino a giungere alle zanzare e ai ragni, per i quali invece si ritiene giusto il genocidio a priori.

Alle persone sensibili, la sofferenza animale fa effetto; e così, mentre l’altra sera maneggiavo un pollo senza testa per ungerlo ben bene in mezzo alle patate, provavo comunque una sensazione di sottile ma evidente disagio. Le persone sensibili, però, hanno già capito il punto fondamentale: la nascita, la vita e la morte sono tutte parti ugualmente degne e necessarie del ciclo vitale del mondo. Un mondo senza morte non avrebbe senso; vale per gli uomini e vale per gli animali. Ogni essere vivente ha quindi un ruolo di collegamento tra una nascita e una morte, la quale è necessaria per permettere lo sviluppo di ulteriore vita; ad esempio, la digestione di un bel pollo arrosto.

Purtroppo, sempre meno persone sembrano capire questo semplice fatto. Probabilmente, noi umani postmoderni e urbanizzati siamo talmente alienati, lontani dalla semplicità delle basi esistenziali della natura, da finire per attaccarci a suoi brandelli in modo ossessivo, credendo che chiudere un alano in 60 metri quadri significhi volergli molto bene, e sentendoci tutti parte di un grande spot dell’Amaro Montenegro. E così, un cane o un gatto diventano intoccabili; non un altro essere con cui avere un rapporto – pur nella propria diversità di ruoli – volontario e alla pari, ma un feticcio di qualche proprio distorto bisogno psicologico.

Oddio, ad alcuni succede persino coi topi: in questi giorni su Radio Flash circola uno spot antivivisezione che sembra una caricatura del peggior animalismo, ma è tristemente vero. In un crescendo di motivazioni contro la vivisezione (che è ovviamente una pratica barbarica, ma che talvolta può pur essere il male minore) si arriva a una perla di logica secondo cui all’immaginaria obiezione “Meglio sperimentare sui topi che sui bambini!” la risposta era “Dillo alle mamme i cui bambini si sono ammalati per via dei farmaci sperimentati sui topi!”. Ora, ci ho pensato un po’, ma la conseguenza non regge, a meno che ciò che la LAV intenda dire è che i farmaci, invece che sui topi, andrebbero piuttosto sperimentati sui bambini (aspettiamo chiarimenti).

Ecco, proprio questo viene spesso dibattuto come il punto chiave: esiste o no un diritto di supremazia dell’uomo rispetto all’animale, che giustifica l’uccidere migliaia di topi per trovare un farmaco che potrebbe salvare la vita a un uomo? (O peggio ancora per testare profumi e creme solari: ecco, quello sì che lo trovo barbaro.) Questo principio di supremazia è scritto più o meno chiaramente nella dottrina della Chiesa; da decenni è contestato insieme a tutto il resto delle nostre “radici cattoliche”.

Il dubbio viene anche in altri casi: per esempio, leggendo questo articolo sulla drammatica situazione del canile di Moncalieri, invaso dagli animali abbandonati per le vacanze. Ora, io continuo a pensare che basterebbe tatuare i cani alla nascita o alla prima visita da un veterinario e denunciarne i passaggi di possesso, perché chi prende un cane deve risponderne; l’abbandono è una pratica che va combattuta. Però alla fine si legge un appello disperato: i fondi (per metà da donazioni private, per metà da fondi pubblici) non bastano perché le cure sono costose; per esempio, hanno dovuto spendere un sacco di soldi per operare di cancro un barboncino di 13 anni.

E io mi chiedo: ma – senza scomodare l’Africa – in una società in cui tuttora molte persone vivono in baracche e faticano a mangiare, ha senso che collettività e privati spendano denaro per operare di cancro un barboncino? E anzi, che questa cosa ti venga presentata come una necessità urgente e pressante, un appello alla bontà umana contro la brutalità, invece che come un caso di lucida follia, che di naturale non ha proprio niente?

Io non credo che l’uomo sia superiore agli animali, e non sono nemmeno contento, in linea di principio, di farmeli uccidere per mangiarne i cadaveri. Credo però che non si debba perdere la misura rispetto al principio fondamentale della natura, che, piaccia o no, è “mors tua vita mea”; il che comprende anche lo sfruttare gli altri esseri dell’ecosistema per nutrirci e sopravvivere, con rispetto e dispiacere per la loro sofferenza, ma sapendo che così è l’ordine delle cose. Può darsi che questo faccia di me un bruto; eppure, saper accettare il fatto che la nostra vita non solo prevede la sofferenza, ma inevitabilmente finisce talvolta per causarne agli altri e per trarne giovamento, permette di rapportarsi con la morte in modo molto più sano.

[tags]natura, animali, vivisezione, canile, cibo, sofferenza, morte, amaro montenegro[/tags]

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domenica 20 Luglio 2008, 10:10

Stai a Napoli e poi muori

No, nonostante il titolo non voglio parlare del crollo del palazzo nei Quartieri Spagnoli avvenuto qualche giorno fa. E’ che sono rimasto stupito da un fatto che ho osservato negli ultimi due o tre mesi: apparentemente, a Roma sono comparse legioni di napoletani (almeno, a me paiono tali dall’accento) che cercano di arrangiarsi per vivere. Prima non c’erano; d’improvviso, mi è capitato di incontrarne tre in due fuggevoli visite.

Uno era pure divertente, anzi gli darei l’oscar dell’arrangiamento in almeno due sensi diversi: difatti, si era messo nel lungo corridoio sotterraneo che collega Roma Ostiense alla metro Piramide – uno dei maggiori esempi italiani di pessima pianificazione trasportistica – e cantava, accompagnandosi con una base registrata, Can’t Help Falling In Love di Elvis Presley (che poi, come già dissi tempo fa, è una romanza settecentesca di Jean-Paul Martini). Ma il punto è che non la cantava mica: faceva il playback. La voce era quella di Elvis, e usciva dalla scatola; lui faceva soltanto le facce, abbrancato ad un microfono che non portava a niente.

Gli altri erano più normali; alla Stazione Termini, tu sei seduto sul treno in attesa di partire – una volta per Fiumicino, un’altra per Torino Porta Nuova – e sale un ragazzo che cerca di venderti qualcosa.

Quello di due mesi fa era simpatico, e siccome io ho sorriso e ho detto “No grazie” guardandolo negli occhi si è subito creata simpatia; così mi ha attaccato un bottone pluriparte – a un certo punto ha comunicato “vado a cercare un altro pol… cliente ma poi torno da te” – che è durato fino a Parco Leonardo. Cercava di vendermi un pacchetto di calzini e altra paccottiglia cinese, utilizzando qualsiasi mezzo, comprese le foto della (presunta) figlia piccola, mostrate peraltro su un Nokia rosso fiammante nuovo di pacca. Una volta mi sarei alterato, ma ora, avendo visto Marrakech e Pechino, riconosco il pattern comportamentale: è semplicemente un gioco, il gioco della vendita. Tu devi restare sulle tue (specie se non hai intenzione di comprare; non è bello promettere e non mantenere) e sapere che ciò che sta facendo lui è una sceneggiata ben studiata; e godere dello spettacolo apprezzandone la professionalità.

A un certo punto gli ho offerto un euro in cambio di niente, come premio di prestazione, e lui ha risposto alla grande: ha finto di offendersi mortalmente e iniziato un lungo pippone sulla dignità che mi stava strappando un applauso, ribadendo che lui non avrebbe mai potuto accettare l’elemosina, perchè lui voleva solo lavorare e vendermi i suoi calzini. Ovviamente, venti minuti dopo ha preso l’euro – ma solo dopo che io sono stato al gioco a mia volta e ho insistito che non era una elemosina ma semplicemente un caffè, e solo dopo avermi chiesto se per caso potevo offrirgli anche ‘o cornetto – e se n’è andato. Purtroppo questo ragazzo parlava un dialetto strettissimo, che facevo molta molta fatica a capire; ma è stata una grande esperienza.

Quello di ieri era meno bravo e meno disposto a spendere tempo, anche perché il treno andava lontano e non poteva rischiare di restarci sopra; ha semplicemente blaterato che l’oggetto che voleva vendere c’aveva scritto “canalecinquo” sulla confezione, quindi era sicuramente di ottima fattura; è bastato un no per farlo andare via.

Stavo per concludere che probabilmente la crisi si fa sentire, e che da Napoli hanno individuato Roma come una possibile fonte di denaro. Purtroppo, è anche possibile – vista la sistematicità – che si tratti di un racket, e che questa gente sia organizzata e caporalata dalla camorra. E’ comunque una forma di degrado, ma d’altra parte si deve pure tirare a campare.

[tags]roma, napoli, venditori ambulanti[/tags]

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sabato 19 Luglio 2008, 10:05

Grom

Il mio esperto personale di gelato comunica che secondo lei anche da Grom hanno ceduto, e hanno cominciato a usare il latte condensato; sarà perché hanno appena aperto il terzo punto vendita in via Garibaldi?

Effettivamente era un po’ di tempo che non ci andavo; ci siamo andati ieri sera ed è stato un po’ deludente. Il gelato è comunque molto buono, per carità; è tutto il contorno che sta diventando un po’ troppo stucchevole.

Tu arrivi lì e ti metti in coda. Intanto, devi essere fortunato, perché c’è spesso una lunga coda; in più, da Grom non è ancora arrivata la magica invenzione del distributore di numerini, che ormai ha pure il panettiere sotto casa. E così, sei costretto a stare in piedi e fermo lì per dieci o venti minuti, a presidiare il tuo posto. Ora, se ci pensate, c’è un solo motivo per cui possono non aver messo i numerini: per costringere la gente a stare in piedi in fila, e fare in modo che ci sia sempre la coda fuori ben visibile, trasmettendo a chiunque passi di lì l’idea che quello sia un negozio molto richiesto e quindi valga la pena di provarlo. Tutto questo al costo di far stare scomodi i propri clienti, con evidente disprezzo nei loro confronti (e non solo nei loro: la coda, quando è lunga, ostacola anche il passaggio nella via, e provate a passare di lì in bici…).

La coda è artificialmente lunga: infatti ci mettono una vita a servirti, facendo mille mossettine che non ho mai visto fare in altre gelaterie, ma che dubito contribuiscano al gusto del gelato; in più, sempre per fare i fighi, ti chiedono se vuoi il cono di wafer o di biscotto, creando nelle persone dilemmi esistenziali che bloccano tutto per ore, anche se poi i due coni hanno esattamente lo stesso gusto. Ieri avevamo due persone davanti a noi, ma ci abbiamo lo stesso messo un quarto d’ora…

In compenso, è interessante il tipo di frequentazione: buona parte della clientela è infatti costituita da quelli che devono assolutamente andare in un posto carissimo e alla moda (e Grom è entrambe le cose) per sentirsi fighi. Questa parte di mondo è a sua volta divisibile in due sottocategorie: quelli che hanno i soldi e quelli che non hanno i soldi.

Quelli che hanno i soldi si presentano normalmente con un macchinone, che abbandonano in mezzo alla strada proprio davanti al portone, anche se c’è un posto meno problematico tre metri più in là. Spesso il macchinone è un SUV o un monovolume di quelli enormi, anche se sono in due. Tutti i componenti del gruppo sono firmatissimi; in genere cercano di passare davanti, e comunque prendono come un insulto personale il fatto di dover fare la coda come gli altri. Il peggio capita con i bambini: non solo vedi creature di tre o quattro anni con vestiti firmati dalla testa ai piedi, ma in genere tali creature sono prive di qualsiasi educazione e cominciano a correre qua e là, a saltare addosso al bancone e a fare i capricci sul gusto del gelato.

Quelli che non hanno i soldi sarebbero più normali, anche se poi arrivano al bancone in cinque e ordinano due coppette piccole (comunque due euro l’una per un’oncia di gelato); però ogni tanto cominciano a fare i capricci anche loro, per sentirsi più ricchi.

Io ci torno ogni tanto, perché il gusto al cioccolato extra è proprio buono; ma alla fin fine preferisco il caos allegro, popolare, ben organizzato e a prezzi ragionevoli del Siculo di via San Quintino.

[tags]torino, gelaterie, grom, negozi[/tags]

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