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sabato 17 Giugno 2023, 09:41

L’invasione

Dunque l’avevo già capito sul volo, che c’era qualcosa di strano: da Washington Dulles a Francoforte su un’inguardabile carretta Lufthansa, un 747-8 con le ginocchia nei denti che neanche Ryanair, i piedi a zigo zago tra sostegni dei sedili e scatole dell’entertainment, il touchscreen che non funziona e soprattutto una marea di bambini di ogni età, di cui quattro – quattro! – sotto l’anno, a darsi i turni a rompere le orecchie. Già dopo un’ora dal decollo, lo steward si è scusato in questo modo: “a causa dell’elevato numero di ragazzini, abbiamo finito la Sprite”.

La situazione è degenerata del tutto a dieci minuti dall’atterraggio: nonostante l’obbligo di stare seduti con le cinture allacciate, vedo passare accanto a me nel corridoio un ragazzone americano di quelli pompatissimi, con magliettina tecnica, culo scolpito e bicipiti da sollevatore di pesi. Il volo era tranquillissimo, eppure lui fa altri tre passi in avanti, si gira verso un lato e buargh, vomita anche l’anima come neanche i bambini di cui sopra. Il passeggero a fianco, anche lui americano, interviene prontamente: si alza, lo abbranca e cerca di scaraventarlo via al grido di “can you just go somewhere else”.

Bene, come dicevo, avrei dovuto capire, e invece no. Arrivo a Francoforte, faccio tutto il corridoio degli Z, e al fondo trovo una nuova freccia: B a sinistra, A a destra. È strano, perché subito a sinistra c’è il controllo passaporti che porta proprio nel cuore degli A; ma io sono un cittadino onesto e devo andare alla lounge degli A, quindi seguo la freccia. Mi fanno fare tutto l’altro corridoio degli Z, e in fondo comincio a vedere una strana folla. Alla fine del corridoio, scopro un nuovo controllo passaporti con quattro sportelli in tutto, e nessuna porta automatica, e una coda di gente per almeno un’ora, tutti col loro passaporto blu; non se ne vede la fine.

Penso che ok, mi son fatto fregare, ma vale la pena di tornare indietro. Ripercorro tutto il corridoio e arrivo alla scala mobile in discesa verso il vecchio controllo passaporti: trovo l’ingresso sbarrato col nastro e una signora che manda via la gente verso il nuovo passaggio, anche se sotto c’è comunque gente in fila. Faccio il finto tonto: vado a Torino, B13, per B dice di qui. La signora mi guarda male, poi però nota una cosa: in mano ho il passaporto, ed è bordeaux. Amico! Mi apre il nastro e mi dice testualmente: “you are lucky, European passport”.

Sotto, stessa scena: ondate di americani in fila, disperati per la connessione da prendere; io mi metto in fondo alla lunga coda, ma noto più avanti il cartello “passaporti europei” verso un passaggio vuoto. Esibisco il passaporto bordeaux, mi aprono il nastro e mi fanno passare accanto a tutta la fila, fino alle mie solite e adorate porte automatiche per passaporti bordeaux, completamente deserte; e in un minuto sono di là.

È che in sostanza, su un volo di trecento persone, ero l’unico europeo o quasi. Non so se Lufthansa abbia deciso di regalare biglietti a tutta l’America, ma il volo era pieno a tappo, e ce n’erano altri, e qui adesso c’è una marea di americani in vacanza che vagola per l’aeroporto cercando di capire dove andare e chiedendo a tutti, perché gli americani sono abituati a fermare l’addetto di turno e a chiedere, non a seguire i cartelli in silenzio.

Ora sono nella lounge, e anche qui sono tutti americani: li riconosci perché abbrancano le inservienti tedesco-magrebine e pretendono che gli venga immediatamente approntato un tavolo per fare colazione, chiedendolo in americano stretto a una signora immigrata che a malapena capisce il tedesco. Li riconosci perché è ora di colazione e hanno una sola parola in testa, “cappuccino” (qualcuno anche “latte” o “venti”, sono quelli degli Starbucks), e però si fanno il cappuccino e poi ci mettono non uno, non due, ma quattro cubetti di ghiaccio, giuro l’ho appena visto fare or ora a una signora, mentre il marito chiedeva dove fosse la bottiglia del Jack Daniel’s.

E così, mi mangio uova e salsicce su un tavolino e resisto all’invasione, però, ragazzi, prepariamoci: da qui a settembre, in ogni angolo di ogni città e di ogni paese italiano, ci sarà la folla dei nuovi vacanzieri; una sostituzione etnica del tempo libero da Roma a Venezia. È il mondo del post-lavoro, e porta soldi; e questo mette a sedere qualunque discussione.

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mercoledì 3 Maggio 2023, 14:53

Maree

Se vi state chiedendo dove io sia sparito nelle ultime ventiquattr’ore, ecco qui.

Ieri alle 18 a Milano, alla Cattolica, abbiamo presentato Internet fatta a pezzi. È stato un successone, sala piena, molte domande, multiple promesse di adozione come libro di testo o di riferimento, una caterva di complimenti sia per i contenuti che per lo stile di scrittura (per uno come me che scrive sin da ragazzo ma non ha mai avuto la fiducia in se stesso necessaria per provare seriamente a pubblicare libri fino a pochissimo tempo fa, quest’ultima cosa è bella ma anche una grande sorpresa).

Ma invece che di me vorrei parlare della vita, perché quella di ieri è stata anche una buffa coincidenza. Qualcuno, non molti, sa che il primo vero discorso pubblico della mia vita fu l’8 dicembre 1996: era l’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico e io, da rappresentante degli studenti, mi presentai tutto emozionato con giacca nuova e scarpe nuove per parlare dal palco. Anche allora l’ospite d’onore era Romano Prodi, allora presidente del consiglio, e fu gentile, e ci incontrò anche in privato.

È quindi indicativo di qualcosa che non so, forse solo la supremazia del caso, che alla presentazione ufficiale del mio primo vero libro, ventisette anni dopo, l’ospite d’onore fosse ancora Romano Prodi. Lui ovviamente non poteva ricordarselo, ma quando si è presentato dicendo “piacere, noi non ci siamo mai incontrati” (il momento nella foto) io gli ho subito risposto che non era vero, e che era la seconda volta.

Ho avuto il privilegio di andare poi in auto e a cena con lui, ed è stato una miniera di racconti, considerazioni e aneddoti (che ovviamente non posso riferire). È stato gratificante e arricchente e mi ha ricordato l’ultima persona che avevo potuto incontrare in modi simili e da cui ho imparato molto: un altro grandissimo intellettuale italiano, Stefano Rodotà. Volevo comunque ricordare anche lui, perché molto di quel che c’è nel libro dipende da ciò che ho capito da lui.

Insomma, le fortune nella vita sono strane, e vengono per cicli e per maree che non si possono prevedere e forse nemmeno cavalcare, ma soltanto un pochino indirizzare. Dev’essere per questo che ieri ho fatto una cosa che un tecnico non dovrebbe fare, e mi sono rimesso le stesse scarpe da cerimonia del 1996, molto consumate da numerosi giri del mondo, ma ancora presentabili; e quest’ultima descrizione è un po’ come mi sento anch’io in questa fase della vita.

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lunedì 1 Maggio 2023, 18:06

Il lavoro di massa è finito

Oggi ho letto in rete molti post sul primo maggio, quasi tutti reclamanti più stipendio, più garanzie, più diritti e meno sbattimento sul posto di lavoro, e non di rado il diritto di vivere senza lavorare. È un’idea che piace a tutti, però, ecco…

…ecco, scusate ma ve lo dico: il lavoro di massa, nel primo mondo, è finito. Già oggi siamo molto più importanti come prodotti, come prosumatori per il business di qualcun altro, che come produttori di qualsivoglia valore. Ci sono eccezioni, ma per la maggior parte di noi il poco che produciamo sarà presto realizzato a costi molto inferiori e con qualità molto superiore da un’intelligenza artificiale americana o cinese o ben che vada tedesca, da un robot controllato da essa, oppure da qualche asiatico che si è sbattuto a studiare e a competere per i primi venticinque anni della sua vita ed è molto più preparato e determinato di tutti noi, o, se proprio serve, da qualche operaio in un paese in via di sviluppo.

Ne consegue che le condizioni di lavoro del 90% di noi non faranno altro che peggiorare, e nessun governo – specialmente quello di un Paese impoverito e anziano come il nostro, che di questi temi non riesce manco a parlare – potrà mai evitarlo. Per cui sì, alla fine molti di noi vivranno senza lavorare, ma a condizioni sull’orlo della sussistenza, e solo per quanto sarà necessario per restituire subito tutti i soldi ricevuti come consumo di beni e servizi.

Buon primo maggio!

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lunedì 10 Aprile 2023, 15:00

Cacciare la scimmia

Ritornare a casa, svegliarsi alle otto nonostante il jet lag, cominciare a smazzare insieme tre valigie e due zaini da disfare, tutti gli arretrati personali, tutti gli arretrati di lavoro, tutti gli arretrati di varie comunità online e del libro da presentare, la casa da risistemare, il frigo vuoto e quant’altro. Mandare il report bisettimanale posticipato dal venerdì di ferie, prepararsi alla call col capo, lanciare un aggiornamento su un paio di server, mettere a posto pile di ricevute. Cambiare di nuovo le spine americane in spine europee, mettere a posto la moneta e le banconote in yen e riprendere gli euro, sistemare nel cassetto il passaporto, la IC card giapponese e la patente internazionale, tirare fuori le chiavi della macchina. Estrarre dalle valigie tutti gli acquisti, impaccati in ogni cavità esistente, e poi lasciarli lì perché non sai ancora dove metterli.

E poi, ricordarsi che bisogna anche ricominciare a bussare a più porte possibili per i libri da pubblicare, e finire di rileggere per la terza o quarta volta il nuovo romanzo, aggiustando virgole e frasi fin che non diventa scorrevole davvero, e piacevole all’orecchio e al cervello e al cuore, anche se poi pensi che tanto nessuno lo leggerà mai, e ti dispiace, ma non è quello il punto.

Nel volo di ritorno – finite le sei ore di lavoro che la batteria del portatile mi ha concesso – ho intravisto un bel film, The Fabelmans di Spielberg. Parla di com’è crescere con una passione artistica di cui non puoi fare a meno, persino quando ti isola dagli altri e ti rovina la vita, persino quando hai continuamente il dubbio che faresti meglio ad ammazzarla. Ed è proprio così: alla fine, quando ti esce la scimmia dell’arte – o quando finalmente, dopo averla repressa a mazzate per cinquant’anni, le lasci mettere la testa leggermente fuori dalla tasca del cappotto – capisci che tu non potrai smettere di inseguirla, che caccerai la scimmia giorno e notte con il fucile, con le pietre, con le mani, e non la catturerai mai, mai e poi mai, ma non potrai più evitare di farlo, anche se la tua mira fosse ridicola, anche se nessun altro al mondo fosse mai interessato a vederne il cadavere, anche se tu fossi l’unica persona rimasta sul pianeta.


(Calligrafia di YÅ«ma Oki; i kanji, “saru” e “ka[ri]”, me li diede l’anno scorso il mio yamatologo preferito, Massimo Soumaré.)
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mercoledì 21 Dicembre 2022, 08:58

Su SPID e carta d’identità elettronica

Sul possibile pensionamento dello SPID ho letto tante cose, da chi pensa che sia solo una boutade per far parlare i giornali a chi è contento perché vuole che tutto sia sempre gestito dallo Stato. Credo dunque, da persona un po’ più addentro alle cose, di dovervi fornire alcuni elementi di riflessione.

Per prima cosa, l’idea di usare al posto di SPID la carta d’identità elettronica (CIE, dotata di chip digitale da leggere con un apposito dispositivo) non è nuova. Non ci siamo solo noi; il maggior sostenitore dell’idea è la Germania, dove SPID non esiste, ma che negli anni ha messo in piedi ripetuti e costosissimi progetti di identità digitale, tutti falliti. La Germania ha una CIE come la nostra: ha poche centinaia di migliaia di utenti e fa in un mese il numero di transazioni che SPID fa in due ore.

Il motivo è semplice: la CIE è molto più complicata da usare di un sistema basato sui cellulari, che non a caso è quello che usano tutte le piattaforme americane. Serve un cellulare moderno con lettore NFC (SPID funziona anche sul Nokia del nonno via SMS…), oppure un lettore da attaccare al computer; e serve un PIN, che la gente o si dimentica o si scrive. Poi, quando la perdi o scade, aspetti per mesi il nuovo documento e nel frattempo che fai? Se poi, come successo in Estonia, si scopre che il chip è fallato e insicuro e che le carte vanno bloccate in massa, di botto tutto il Paese resta senza identità digitale fin che non hai riemesso tutte le carte, mentre SPID si aggiorna al volo via software.

Tuttavia, pochi giorni fa Germania e Francia hanno imposto al Consiglio Europeo una posizione che renderebbe illegali i sistemi come SPID perché “insicuri”, in quanto il cellulare sarebbe craccabile più facilmente di un pezzo di plastica. È una stupidaggine, perché i sistemi di identità non vengono craccati informaticamente, ma corrompendo uno all’anagrafe di Roccacannuccia perché rilasci un documento falso, oppure facendo phishing delle credenziali; e a quel punto, il metodo di autenticazione è irrilevante, anzi, la CIE può essere rubata e usata fisicamente. Del resto, non risulta che SPID sia mai stato craccato per via informatica.

Ma allora, perché il governo italiano va dietro a questo trend e prova a distruggere l’unica esperienza di identità digitale che funziona davvero in tutta Europa, con quasi 35 milioni di utenti? La risposta io non la so, ma temo sia molto banale. Il PNRR prevede l’istituzione di una nuova mega software house di stato, partecipata da INPS, INAIL e ISTAT; due settimane fa, il governo Meloni ha nominato il suo amministratore delegato. Ma una software house deve pur avere qualcosa da fare, e quindi, cosa meglio di una commessa per fare un nuovo sistema di identità nazionale e migrare a esso tutti gli SPID già esistenti? Ci sono tutti i soldi del PNRR da spendere. E se non fossero loro a farla, comunque questa commessa la si può dare a qualche ente pubblico che piaccia, come il Poligrafico che già stampa le carte d’identità, magari con subappalto ad altre aziende che piacciano: rifare qualcosa che già esiste è un gran motivo per spendere soldi dei contribuenti.

In fondo, quello che dà fastidio di SPID è che è un sistema misto pubblico-privato, in cui, orrore, il cittadino può scegliere a chi far gestire la propria identità, magari cercando qualcuno che abbia un’app che funzioni meglio delle altre o che garantisca meglio la privacy. Perché invece non rimettere tutto in mano ai luminari che hanno prodotto siti come quelli dell’Agenzia delle Entrate e dell’INPS, fulgidi esempi di usabilità ed efficienza? Sicuramente, con il monopolio informatico pubblico, verrà fuori un sistema migliore.

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giovedì 8 Dicembre 2022, 13:57

Nippominchia e Giappone reale

Parliamo di Giappone? Condivido questa foto per farvi un piccolo discorso.

La foto viene dal post su Facebook di uno dei tanti italiani che vivono in Giappone o lavorano col Giappone da anni, e che quasi sempre si incazzano per il modo in cui da noi si parla di quella realtà. Perché? Perché l’Italia è piena di “nippominchia”, ossia di persone che conoscono il Giappone solo per aver letto i manga e guardato gli anime, o perché vanno a mangiare il sushi tutte le settimane (dai cinesi), senza esserci mai stati; tra queste ci sono anche molti giornalisti, e quindi è tale anche la descrizione che ne esce generalmente sui media. Si tratta di persone che adorano il Giappone acriticamente, che lo vedono come una terra promessa dove tutto è pulito, sicuro, efficiente e beneducato, dove le persone si vogliono bene e collaborano tutte insieme e dove si vive in pace e in armonia con la natura secondo tradizioni spirituali millenarie.

La realtà, naturalmente, non è proprio così. Vivere in Giappone da giapponesi è, per i nostri standard di dolce vita, terrificante. Già da ragazzo, la scuola ti impegna dal mattino al tardo pomeriggio, e la sera fai i compiti; quando lavori, facilmente finisci a essere un ingranaggio di un’azienda medio-grande e a uscire dall’ufficio a sera inoltrata, non di rado anche nel fine settimana. La cultura collettivista non ha soltanto vantaggi; l’individualità, la creatività non trovano posto, perché conformarsi è la norma e “il chiodo che sporge va preso a martellate”.

Esprimere e realizzare se stessi è difficile, e non parliamo di sentimenti: il Giappone è uno dei Paesi in cui l’età del primo bacio o del primo rapporto è più alta, spesso ben oltre la maggiore età; e i tassi di suicidio sono oltre il triplo dell’Italia. In più, viverci da italiani è anche peggio; nel momento in cui non sei più turista ma residente, ci si aspetta che tu ti conformi esattamente a tutte le loro usanze, linguistiche, burocratiche e comportamentali; altrimenti sarai sempre trattato come un diverso, se non proprio con razzismo.

Per questo, la sola parola “manga” è sufficiente a fare incazzare quasi tutti gli italiani in Giappone. Non solo: fa incazzare anche molti giapponesi che si sentono stereotipati, e a cui dà fastidio, girando all’estero, essere visti come gli abitanti di una terra popolata esclusivamente da onde energetiche, samurai, spiriti e arti marziali, esattamente come a noi dà fastidio sentirci dire “sole pasta pizza mafia”; e che sanno che il mondo fantastico dei manga ha un lato oscuro e inquietante, quello di essere la valvola mentale di sfogo per una realtà spesso pesante e insopportabile.

Sempre per questo, anche le immagini condivise ossessivamente sui social dello spogliatoio pulito della nazionale giapponese hanno indispettito molti; come Antonio, l’autore del post, che risponde con la foto di uno dei tanti impiegati che escono tardi dall’ufficio, vanno a ubriacarsi coi colleghi (una delle poche forme di socialità previste) e poi svengono e passano la notte distesi sul pavimento della metropolitana.

Si tratta di stereotipi, nell’uno e nell’altro senso; come tutti i luoghi comuni, hanno la realtà dentro ma non dobbiamo restarne prigionieri. Il Giappone è assolutamente un posto da visitare, e ha una cultura che oggi è senz’altro più interessante e più in linea coi tempi di quella anglosassone. Bisogna soltanto evitare di confondere la realtà con la fantasia; bisogna distinguere sempre tra il Giappone magico e fantastico proposto dalla sua industria mediatica e tecnologica e il Giappone reale, che è, come è la vita, molto più complesso e pieno di chiaroscuri.

Una volta capito quello, godiamoci pure i manga, e i video musicali cantati da ologrammi, e il sushi anche a colazione se volete; ma con consapevolezza.

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mercoledì 7 Dicembre 2022, 13:29

Quando i moderatori di Facebook dovrebbero andare a ballare in Puglia

Questo aggiornamento di stato è stato censurato da Facebook per “violazione degli standard della community”; naturalmente non ti dicono in cosa, ma suppongo che sia per la metafora di tagliare le dita, che dal tono generale del testo mi pare evidente essere una metafora, ma per Facebook no. Quindi, lo pubblico qui.

Sono a Malpensa, sul bus per Torino, in attesa della partenza, e c’è l’autista che inganna il tempo guardando qualcosa sul cellulare, e io temevo fosse la partita, e invece no, è molto peggio: è un film natalizio americano che ha dei dialoghi tremendi, e non solo per i livelli di glucosio da ricovero, ma proprio per la scelta delle parole e delle frasi, perché tutti parlano come nella pubblicità del Glen Grant degli anni ’80, e sono doppiati in quel modo, con l’enfasi di Michele l’intenditore, e – mio dio, lui le ha appena detto “sei straordinariamente bella stasera”, no dico, chi direbbe mai una frase così nella vita reale? Ma basta, tagliate le dita agli sceneggiatori, e anche – no, mamma, il colpo di scena adesso è che lui non andava malvagiamente via a Natale per fare carriera, ma per aiutare “una ong di un orfanotrofio in Nigeria”, che fino a un attimo prima non esisteva, alla faccia della prefigurazione e di ogni principio di base delle sceneggiature, ma basta, basta, bruciategli il cellulare o scendo, che non lo reggo più.

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domenica 27 Novembre 2022, 13:56

Bergamo herpes

Suvvia, sappiamo tutti che l’aeroporto di Bergamo è il fondo del barile del trasporto aereo, e probabilmente anche del genere umano. Non c’è dunque stupore in questo piccolo racconto, ma solo rassegnazione e morte esteriore, alleviata dalla capacità di isolarsi dal mondo e ripetersi all’infinito le prime otto battute della passacaglia di Bach che mi gira da giorni nel cervello. Alla fine, comunque, quest’imbarco – a cui sono stato costretto dalla sostanziale inutilità dell’aeroporto di Turin-Mailboxes – è anche uno spettacolo interessante; ci sarebbe materiale per scrivere dei libri, se non fosse che ne verrebbero libri divertenti sì, ma sotto sotto disperanti. Ogni passo è uno spettacolo di spaesata incompetenza a vivere; avrei già dovuto capirlo dalla porta sul marciapiede sbarrata con la scritta “ACCESS DENIED”, manco l’aeroporto fosse un sito web.

La coda per consegnare il bagaglio in stiva è meravigliosa; non è lunga, ma è comunque troppo complicata per coppie e gruppetti d’età tra i trenta e i cinquanta, che invariabilmente sventolano la busta di un’agenzia di viaggi di Vergate sul Membro, davanti alla moschea di Sucate. Ora, io non sapevo nemmeno che le agenzie di viaggi esistessero ancora; non ne uso una da vent’anni, e se ne capisco il senso per un gruppo organizzato o per un’azienda che non vuole gestirsi i viaggi da sola, non capisco perché qualcuno possa andare da un’agenzia di viaggi a farsi comprare il volo Ryanair per [non indicherò la città, che poi mi danno del razzista; diciamo Reykjavik]. Infatti, son quelli che si mettono in coda senza essersi prima stampati l’etichetta del bagaglio; e poi arrivano lì, e invariabilmente, due volte su tre, non hanno comprato il bagaglio in stiva, o ne hanno comprato uno troppo piccolo; dieci chili, ma loro ne hanno quindici. Il meglio è stata una signora elegante che prima si è arrabbiata (“sono solo cinque chili in più”), poi ha aperto la valigia e per lo sbalordimento dell’addetta ne ha estratto il portatile, che avendo una batteria al litio è vietatissimo in stiva; poi ha interrotto la coda per pesare il portatile sul nastro del bagaglio, un chilo e due; poi ha detto “questo me lo porto a mano, il resto va bene”. Erano solo più quattordici chili, del resto; e l’hanno giustamente respinta a calci nel sedere. Ma mi è successo persino di vedere poi ai controlli di sicurezza una coppia di signore velate rimandate indietro; si erano presentate lì direttamente con valigioni immensi, ignorando il concetto di bagaglio in stiva.

Ma poi, passati i controlli, si arriva ai gate con vista sulle montagne; e lì la gente è la stessa, ma lo scenario cambia. Lì, c’è da spendere; quindi è tutto luccicoso, e la gente risponde allo stimolo e esegue, aprendo lo struscio avanti e indietro. Coppie sui trenta, talvolta con passeggino al seguito, osservano un’infilata di bar pretenziosi tutti peraltro della stessa grande holding alimentare, ma agghindati con loghi e colori per sembrare diversi. Tutto è gourmet: panini gourmet, pizzette gourmet, persino “Serge, il cannoncino gourmet riempito al momento”, una roba tanto assurda che la manderei in Ucraina. Tutto è anche biecamente pensato per fregarti, come la bottiglietta da mezzo litro di Coca Cola che in realtà è da 450 ml, come vedete in foto. Poi la gente s’avvicina, e visti i prezzi ordina solo una rustichella e un bicchier d’acqua, e li paga con le monetine, come nell’Ottocento. Ma è giusto così: Bergamo herpes è l’apoteosi del neoproletariato tecno-soggiogato, ebete a guardare il cellulare tranne brevi pause per riprodursi a danno del pianeta, ma che darebbe un braccio per la nuova mutanda di Intimissimi.

Fa bene, fa bene girare il mondo; chiarisce le idee. Chiarisce che il mondo è sovrappopolato, ma selettivamente; e collegando tutte le discussioni sul reddito universale e sulla gente non impiegabile, mostra che si tratta di un trend sì, ma di un trend che svilisce l’umanità. Non tutti, certo, ma una parte di questi qui attorno un reddito e un lavoro ce l’hanno, ma residuali; precari ed eliminabili con successo a favore del più stupido sistema automatico, che probabilmente gli sarebbe anche artisticamente, esteticamente e moralmente superiore. Quindi, non proporrò soluzioni finali; non sarebbe empatico e la Chiesa s’adonterebbe. Eppure, m’è chiaro ormai che più che reddito di cittadinanza, andrebbe chiamato reddito di inutilità; senza alcun giudizio morale allegato, s’intende, ma solo per oggettiva osservazione della realtà delle cose. È brutto a dirsi, ma ci sono persone che non sono in grado di vivere nel 2022, e non sappiamo che farne, e sono tante; e gli unici che se ne fanno qualcosa sono quelli che gli danno due lire per renderli schiavi, e poi se ne riprendono tre facendogliele spendere in minchiate, e indebitandoli a vita.

Ma ora, perdonate l’eresia; sono sicuro che pochi capiranno, e gli altri risponderanno a insulti. Io, comunque, vi auguro buona domenica; sperando d’essere almeno in grado di salire su un volo Ryanair con successo.

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martedì 4 Ottobre 2022, 13:29

È stato un viaggio lungo

È notte, sono a Doha, in un brutto aeroporto pieno di gente, nella grande ondata di incrocio tra arrivi e partenze. Aspetto di riprendere il viaggio per tornare a casa, almeno per qualche giorno, poi si riparte.

È stato un viaggio lungo, complicato, di cui ho raccontato poco, perché alla fine si parla solo di cibo e curiosità, e le cose più intime o più serie vanno altrove, in un posto meno caciarone e meno invidioso, probabilmente solo perché semivuoto, e nel vuoto o quasi cadono, così che possa sentirne per bene l’eco in me stesso. Eppure mancano ancora due ore al ripartire, e avrei da scrivere, da rileggere, da leggere, da fare, ma nel non luogo e non tempo per eccellenza, una notte di poltrone d’aeroporto in un posto tappa da qualche parte sul mappamondo, si diventa anche non persone; emerge il non essere sull’essere, fino a togliere la voglia di qualunque cosa.

È stato un viaggio lungo, che in fondo dura dal secondo giorno di quest’anno, e non accenna più a finire, né ad andare da alcuna parte; è anche questo, come molte cose di quest’anno, un drago che vola e s’attorciglia e torna avanti e indietro puntando la mia testa, e non si capisce se mi vuole infine prendere in groppa e farmi volare almeno un tanto e un po’, o se mi vuole soltanto bruciare i capelli e qualcosa del resto.

È stato un viaggio lungo e ancora lo sarà, perché in fondo lo so: domani, dopodomani, tra una settimana, tra un mese, tra un anno, prima o poi arriverò a casa, ma come già altre volte in passato potrebbe non essere più una casa che conosco. È la trasformazione dell’identità e della coscienza che ci ricrea la vita, attraverso lo specchio del sé e in quest’era tecnologica anche attraverso lo specchio della rete, delle immagini, dell’ovunque e del tutto è possibile che lampeggia sotto il nostro naso se lo si guarda, anche se i più si guardano i piedi e fanno bene, per non perdere mai l’equilibrio: perché guardandosi intorno si scoprono mille opportunità alternative che si potrebbero vivere, ma provare ad afferrarne anche solo una è la strada per sbattere contro il muro invisibile del proprio umano limite, senza alcuna certezza di poterlo varcare.

E quindi, buona serata e buona notte: ci rivedremo domani in Italia, nella brughiera, nella città di sempre, nel solito allegro pantano di luce e di buio, ma come sempre, ogni giorno e ogni minuto, un po’ diversi da prima, un po’ più inquieti, un po’ più consunti e un po’ più stanchi delle stelle.

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lunedì 12 Settembre 2022, 11:49

Buon compleanni

se un compleanno celebra i giorni in cui sei nato
tante date potrebbero esser quelle giuste
non soltanto il dodici settembre
ma per esempio il due gennaio o il dodici giugno
ma prendiamone piuttosto ancora un’altra
un otto giugno, sei anni fa in via talucchi
giorni strani, come ora, e lezioni imminenti

ecco, dove guardavo quella sera?
gli altri mi guardavano a vista
chiara guardava il presente
io guardavo lontano, sorridendo al vuoto
come se quel che vedevo non esistesse già più
perché nascere è in realtà morire e rinascere
dentro la vita e tra una vita e un’altra

insomma, buon compleanno, buon compleanno!
ma compiere gli anni veri è una formalità
quel che nasce, vive e muore è ogni forma di noi
e io auguro, a voi come a me, di averne insieme molte
di viverci insieme senza troppo sforzo
di celebrarne i genetliaci nei momenti più strani
di portarne il peso con piacevole allegria
oppure con tristezza, se vi piace di più
di farvi drago, topo, tigre o capra per l’anno e il momento
di scomporvi e ricomporvi come acqua che scorre
e quindi, senz’altro, tanti auguri a tutti noi
tanti auguri all’universo
di cui siamo solo schegge

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