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giovedì 3 Marzo 2016, 21:10

Io e il bando assessori

Avevo promesso una risposta pubblica a riguardo della mia partecipazione al bando per gli assessori di Chiara Appendino e mi scuso se c’è voluto ben più del previsto, ma ho voluto attendere che lei avesse la possibilità di ricevermi per esporle prima a quattr’occhi quanto andrò ora a dirvi. Mi scuso anche se questo post è piuttosto lungo (ma è meglio, così lo leggeranno solo gli alfabeti).

Non è un mistero che io sia critico con la direzione presa dal Movimento 5 Stelle a livello nazionale (ne ho parlato poco tempo fa) e che non mi sia piaciuto nemmeno questo inizio di campagna elettorale, in cui secondo me, sia come immagine che come organizzazione, il M5S torinese si è annullato diventando una semplice appendice della candidata sindaca, di cui nella discussione pubblica sono passate molte immagini, molti sorrisi e molti slogan ma troppo poche proposte concrete (ma c’è tempo per rimediare). Se la questione fosse puramente di appartenenza politica, la mia risposta sarebbe negativa.

Ci sono diversi altri argomenti a favore del no: ad esempio sono sicuro che qualcuno mi accuserà di incoerenza con quanto deciso a novembre e mi darà del poltronista, anche se è evidente che rispetto ad allora è stato il Movimento a cambiare programmi e non io, e anche se già allora avevo approcciato la questione dicendo (e lo confermo) che non mi sarei candidato a consigliere, ma che sarei stato disponibile a fare l’assessore (rimando al post di allora per le motivazioni).

Poi c’è il fatto che un assessore nominato così, senza un riferimento politico, è totalmente alla mercé del sindaco che lo può cacciare in qualsiasi momento, anche cinque minuti dopo le elezioni; e non è certo una scelta di vita rassicurante. In generale, è difficile fidarsi di un ambiente che parla molto di meritocrazia ma spesso poi non la applica, e in cui varie volte mi hanno fatto apertamente sentire non più benvenuto.

Ma più ancora di questo c’è il logoramento psicologico, c’è la delusione per la piega che hanno preso le cose rispetto agli ideali dell’inizio, c’è la difficoltà estrema di rimanere se stessi in un ambiente politico (tutto, di tutti i partiti) dove o ti schieri e ti allinei a priori o sei visto con sospetto, attaccato, emarginato, costretto a pagare prezzi pesanti e immeritati sia sul piano emotivo e psicofisico, sia nelle tue prospettive personali.

D’altra parte, ci sono anche molte ragioni a favore del sì.

Intanto, nel Movimento 5 Stelle non c’è solo l’acqua sporca, e il rischio è quello di buttare via il bambino per la fatica di tirarlo fuori; il bambino è un programma magari utopico ma senz’altro nell’interesse dei cittadini, e una chance epocale per rinnovare la classe dirigente di questa città, spezzando una spirale di obsolescenza e declino.

Poi c’è l’esperienza: per cinque anni ho passato tutto il mio tempo a imparare, a conoscere ogni angolo della città e a capire come si amministra un Comune così grande e complesso; sono il recordman di presenze del consiglio comunale, l’unica persona del M5S torinese ad avere accumulato un’esperienza amministrativa del genere ed è giusto che la rimetta a disposizione.

Ci sono anche tutti gli incoraggiamenti e i ringraziamenti che ho ricevuto, dagli elettori, dai simpatizzanti, dagli osservatori professionali della politica, da tanti cittadini di qualsiasi orientamento, con frasi talora commoventi (questa la riporto perché mi ha colpito). Un invito a tener duro l’ho ricevuto direttamente, in una lunga telefonata, da un vecchio amico di Genova qualche settimana fa: mi ha fatto piacere e mi ha fatto riflettere.

Ma soprattutto c’è una consapevolezza: il problema di fondo della politica italiana è il livello sempre più basso della discussione pubblica, che deriva dal livello sempre più basso, o volutamente autoabbassato, di chi la pratica e di chi la guida.

C’è troppa gente di qualsiasi orientamento per cui la politica è solo credere, obbedire e combattere e prendersela con chiunque esprima un qualsiasi pensiero articolato, per poi comunque approfittarsene per scopi personali alla prima occasione. C’è troppa gente che fa politica pensando di volere o dovere seppellire la parte più nobile di essa, il confronto, il dibattito intellettuale, per relazionarsi soltanto con il famoso italiano medio di Berlusconi, quello che ha fatto solo la terza media e nemmeno tanto bene, dimenticando che là fuori ci sono tanti italiani che non sono così e che aspettano soltanto che qualcuno si relazioni a loro come esseri pensanti e intelligenti, come io ho sempre cercato di fare.

E però, la responsabilità del degrado della politica – dell’egemonia culturale della parte peggiore del berlusconismo, ormai abbracciata da tutti – non è soltanto di queste persone, e degli elettori simili a loro che li votano; è anche del disinteresse di tutti gli altri, è anche delle persone valide che scelgono di chiamarsene fuori, non impegnandosi in prima persona, arrendendosi, smettendo di combattere per migliorare il Paese e il modo di governarlo.

C’è, infine, il desiderio di mettere alle spalle le divisioni passate, di riunirsi in un progetto che possa veramente cambiare Torino, centrato soltanto sulle capacità e su un programma condiviso al di là delle appartenenze di partito. In questo, è stata fondamentale la scelta di Appendino di individuare gli assessori prima del voto e non dopo, e di farlo per competenza e non per scuderia politica, diversamente da come sembrava all’inizio.

E sulle competenze, su alcuni argomenti, ho un curriculum di livello nazionale, in parte persino globale: l’innovazione, la smart city, le relazioni internazionali, le nuove forme di partecipazione e trasparenza (chi non sapesse cosa ho fatto prima della politica dovrebbe leggersi il mio profilo e il mio curriculum dettagliato o anche solo questo riassunto che ho inviato a Chiara). Queste sono le competenze che posso mettere a disposizione, in un’ottica strettamente meritocratica.

Per questo, pur ribadendo la scelta di cessare l’attivismo politico nel M5S almeno per come è diventato adesso, ho ingoiato un po’ di orgoglio, ho rimandato a tempi migliori la questione del vicesindaco e ho dato a Chiara la mia disponibilità per fare l’assessore sulle competenze sopra esposte, per lavorare insieme e per creare un assessorato assolutamente innovativo che metta al centro dello sviluppo della città il coinvolgimento dei cittadini e l’accelerazione dell’innovazione sociale, culturale, economica e tecnologica.

Credo che la mia presenza nella squadra candidata a governare Torino possa rafforzare la campagna di Chiara e aiutarla a conquistare credibilità amministrativa. Comunque, la valutazione ora spetta a lei e attendo di sapere, nel giro di qualche settimana, se vorrà accogliere o meno la mia disponibilità, sperando di poter fare un passo insieme verso un grande risultato.

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venerdì 19 Febbraio 2016, 13:33

Viva lo sharing, ma senza economy

Forse non tutti sanno che quasi vent’anni fa, da studente del Politecnico, insieme ad altri appassionati di tutta Italia, misi in piedi il primo sito Web che conservava e distribuiva in forma digitale le sigle italiane dei cartoni animati degli anni ’70 e ’80: il progetto Prometeo. Il formato MP3 era appena stato inventato e sconosciuto ai più; alla rete si accedeva tramite modem e telefonate notturne; l’ondata di nostalgia per quegli anni era ancora di là da venire. Appassionati di tutta Italia, però, tirarono fuori dal cassetto quei 45 giri ormai introvabili, li digitalizzarono con le loro SoundBlaster e, a spese proprie, senza guadagnarci niente e per il semplice piacere di condividere il loro tesoro con gli altri, li caricarono sul sito.

Dopo poco tempo arrivarono gli avvocati: ebbi un lungo scambio di mail con un allora sconosciuto Enzo Mazza, che cercò con le buone e con le cattive di farmi sbaraccare tutto, al che io dissi che l’avrei sbaraccato davvero facendo il maggior casino possibile sui media, e la negoziazione si concluse con l’eliminazione delle sole canzoni di Cristina D’Avena, le uniche che avessero ancora un qualche interesse commerciale in quanto ampiamente sfruttate da Mediaset.

Un paio di anni dopo furono inventati Napster e il peer-to-peer, e la questione della condivisione dei contenuti divenne globale; nel frattempo i siti del progetto Prometeo divennero obsoleti e vennero chiusi. Tuttavia, la nostra iniziativa riaccese l’interesse del pubblico per quelle canzoni, e credo che se l’altra settimana Cristina D’Avena è andata a cantare a Sanremo – ossia, se quei pezzi che stavano per scomparire hanno riacquistato un grande valore anche economico – è anche grazie a quell’antico sforzo di condivisione.

Non voglio qui riaprire l’annosa questione sulla legittimità del condividere in rete contenuti culturali di cui non si possiede il copyright; lasciamola per un’altra volta. Voglio però sottolineare che, nei primi anni dell’Internet di massa, la condivisione è sempre stata concepita come una iniziativa dal basso fatta per il bene di tutti, in cui ogni utente attivo della rete sopporta una propria fetta di costi per creare un servizio di enorme valore liberamente disponibile a tutti. E con lo stesso spirito sono presto nati altri servizi pienamente legittimi, prima puramente online (Wikipedia, per esempio), e poi anche nel mondo reale (Couchsurfing, Blablacar), in cui ognuno condivideva gratuitamente qualcosa che possedeva già.

Certo, è subito emerso un problema di fondo: gli utenti possono anche donare il proprio pezzetto gratuitamente, ma chi paga i costi, potenzialmente enormi, della piattaforma di condivisione? Inizialmente le piattaforme si basavano anch’esse su donazioni volontarie e condivise di risorse tecniche e di tempo, ma il modello, Wikipedia a parte, faticava a reggere.

Questo è stato il momento in cui l’economia “classica”, quella dell’uomo utilitaristico che si muove solo per il profitto, quella che i pionieri della condivisione volevano sfidare e che per qualche anno sembrava poter essere clamorosamente buttata fuori dalla porta, è rientrata in gioco. Inizialmente lo ha fatto dalla finestra; servizi come Youtube, gestiti da società a scopo di lucro ma con ampie disponibilità ad attendere il lungo periodo, hanno iniziato a ripagarsi i costi con la pubblicità, come hanno poi fatto le aziende dello step successivo, cioè i social network; la condivisione per gli utenti resta gratuita, ma l’azienda incassa con uno sfruttamento economico non troppo invasivo dei contenuti degli utenti.

Dopo un po’, anzi, giustamente si è detto: ma se la piattaforma oltre a ripagarsi i costi comincia a guadagnarci, non sarebbe giusto che una parte di questi guadagni tornasse agli utenti che caricano i contenuti? Giusto, sì; ma così l’aspetto economico ha preso altro spazio, e sono nati i professionisti del video scemo e della stupidaggine virale, e poi i titoli acchiappaclick e le bufale acchiappagonzi. A quel punto anche la commercializzazione delle piattaforme si è fatta più invasiva, dato che sempre più utenti non condividevano per piacere o per altruismo, ma per profitto e per vantaggio personale: e quindi, liberi tutti di mandare in soffitta lo spirito di beneficenza.

E’ da lì che si arriva a quest’ultima epoca, quella della “sharing economy”: Uber, AirBnB e compagnia bella. Essa abbatte definitivamente il tabù che scricchiolava da un pezzo ma che ufficialmente non si poteva toccare, quello di condividere qualcosa non per altruismo o per divertimento, ma per il desiderio, o peggio la necessità, di guadagnare dei soldi. Che sia un tabù è evidente proprio dai pietosi tentativi iniziali dell’ufficio stampa di Uber di sostenere che i loro autisti non lo fanno per i soldi, ma per il piacere di caricare uno sconosciuto e portarlo da un punto A a un punto B, punti in cui loro altrimenti non sarebbero mai andati. Ma ormai hanno smesso anche loro: la prima cosa che sta scritta oggi sul loro sito è “GUADAGNA SOLDI GUIDANDO LA TUA AUTO”.

Nella “sharing economy”, le piattaforme non servono a trovare altre persone con cui condividere una passione o un’amicizia, ma a trovare i clienti per un’attività a scopo di lucro che vuoi fare con la tua auto, la tua cucina o la tua camera da letto, probabilmente perché ti hanno già tanto precarizzato – magari grazie a un’altra forma di “sharing economy” globale e delocalizzata che ha preso piede nella tua professione – che oltre a lavorare otto ore di giorno devi anche passare l’ex tempo libero a venderti un po’ della tua auto, della tua cucina o della tua camera da letto per far quadrare i conti a fine mese.

Intendiamoci, non c’è niente di male nel creare nuovi modelli di business con cui fare utili, trovando i clienti a chi ha un prodotto o un servizio da vendere e agendo da garanti della transazione, in cambio di una percentuale. Dai sensali e dai magnaccia fino ai commerciali e ai pubblicitari, è il secondo mestiere più antico del mondo. Certo, se poi il servizio viene venduto in nero e in barba a tutte le normative sulla sicurezza, sull’igiene, sui diritti del lavoro, magari sostenendo pure che non rispettarle è una grande innovazione perché fa scendere i prezzi, la cosa assomiglia un po’ tanto alla versione digitale del caporalato o delle fabbriche cinesi (non mi dilungo, vi rimando al post dell’anno scorso). Ma è ben possibile, e anche giusto, mettere a posto tutti questi aspetti e permettere a queste aziende di offrire il proprio servizio sul mercato, alle stesse condizioni di chi già esercità attività simili, e magari facendo attenzione a non creare nuovi monopoli di fatto, nuove ondate di disoccupati e precari, nuova povertà.

Solo, non spacciate questa per innovazione, e soprattutto non spacciatela per condivisione.

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venerdì 12 Febbraio 2016, 15:55

Un commento a caldo sul bando assessori

E’ stato pubblicato poco fa sul sito di Chiara Appendino il bando pubblico con cui lei invita i cittadini ad offrirsi come potenziali assessori.

Ho letto ora per la prima volta il bando, e non sono stato coinvolto nella sua stesura; è però una scelta che condivido per almeno due motivi. Il primo è che è una scelta di trasparenza, mettendo in condizione gli elettori di conoscere e valutare sin da subito chi sono le persone che amministreranno la città in caso di vittoria del M5S, ed eliminando le tradizionali negoziazioni post-voto legate non alla competenza delle persone, ma alla necessità di spartire le poltrone in funzione di quanti voti ha preso ogni singolo candidato, corrente e partito. Il secondo è che è una scelta di apertura, invitando l’intera società civile della città a partecipare con noi e a mettersi a disposizione, e cercando di allargare il sostegno alla nostra campagna mettendo al servizio di Torino professionalità di alto livello.

Potenzialmente – ma dal bando non è chiaro, perché non è scritto esplicitamente che chi verrà designato come assessore dovrà rinunciare alla candidatura a consigliere, ma solo che, come già obbligatorio per legge, dovrà scegliere tra le due cariche dopo il voto – questo metodo stabilisce una distinzione prima del voto tra i candidati al consiglio comunale, scelti tra gli attivisti del M5S in base alla fedeltà e alla partecipazione politica, e i candidati alla giunta, scelti anche e soprattutto all’esterno del M5S, in base innanzi tutto alle competenze e alla condivisione del programma amministrativo, al di là della militanza politica. Se questa separazione fosse veramente attuata, permetterebbe di proporre alla città una giunta competente, credibile e adatta a smentire la millantata prospettiva (che spaventa la gente e che sarà sicuramente cavalcata da Fassino) di una città affidata a militanti politici onesti ma ingenui, sconosciuti e scarsamente capaci, o peggio ancora settari e furiosi.

La scelta di emettere un bando è per me particolarmente interessante perché rappresenta anche una inversione di rotta rispetto alla discussione che mi ha coinvolto a novembre, in cui, proprio per aver chiesto di cominciare a discutere subito anche della futura giunta, mi presi del “poltronista” e poi pure del bugiardo da una serie di militanti che sostenevano che discutere di cariche prima delle elezioni fosse contrario allo spirito del Movimento. Evidentemente in questi tre mesi ci si è resi conto che Appendino non può vincere le elezioni e governare da sola, e che l’idea di costruire una squadra da subito è positiva.

E’ chiaro che una chiamata pubblica rischia però di essere interpretata anche come il segnale di non sapere che pesci pigliare, di aver bisogno di arruolare il primo che passa per la strada. Io credo che la bontà dell’iniziativa sarà misurata essenzialmente dai suoi risultati e dalla qualità delle persone che saranno scelte. Se le persone saranno valide e convincenti, l’iniziativa sarà un successo e metterà in seria difficoltà Fassino, che dovrà attendere le elezioni per poi portarsi in giunta i funzionari di partito in carriera che le dinamiche interne al PD gli imporranno.

Se invece verranno fuori persone di scarso peso, l’iniziativa rischia di essere un boomerang, dimostrando che il M5S non è in grado di sostenere coi fatti la propria ambizione di governare la città; peggio ancora se poi la selezione si svolgesse in maniera non meritocratica, cioè scegliendo non le persone più valide tra quelle disponibili, ma amici e fedelissimi di dubbia competenza dal cerchio più interno del M5S torinese (a quel punto risulterebbe anche un po’ una presa in giro alla città). In quest’ottica mi spiace che si sia scelto di non pubblicare l’elenco completo delle candidature ricevute, o almeno di chi acconsentisse alla pubblicazione, che avrebbe permesso una vera trasparenza e pubblica valutazione delle scelte che saranno effettuate.

Comunque, al di là di alcuni altri dettagli che avrei fatto diversamente (avrei anticipato la scadenza, avrei escluso dal principio dalla candidatura ad assessore chi intende candidarsi anche al consiglio comunale e avrei messo clausole più stringenti contro gli ex dei partiti che sicuramente proveranno a riciclarsi da noi), sulla carta mi sembra un buon bando, anche se il vero giudizio lo si potrà dare alla fine, vedendo come sarà applicato in pratica.

Credo che la responsabilità di presentare una squadra convincente non possa in ogni caso essere scaricata sulla collettività, nascondendosi dietro a “abbiamo seguito la procedura, i partecipanti al bando erano questi”, e che quindi tutto il M5S debba impegnarsi per convincere attivamente persone valide a partecipare. Per questo motivo invito tutte le persone che hanno competenze da offrire a farsi avanti: più scelta c’è, e migliore sarà il risultato.

P.S. Lo so, la domanda di molti (già diversi giornalisti me l’hanno posta in queste ore) è se io intenda partecipare alla selezione come assessore o se invece confermi la scelta di chiamarmi fuori. Se da una parte, come ho appena scritto, trovo il bando positivo, e se sono molte le persone che mi stimano e che vorrebbero vedere il mio nome all’interno di una possibile amministrazione a cinque stelle, dall’altra i dubbi e le critiche che ho esposto in questi mesi rimangono validi e se mai sono pure cresciuti, e vengono prima di qualunque carica. Fatemi dunque riflettere nel fine settimana, e poi, con la solita trasparenza, vi dirò; stante comunque che il mio coinvolgimento dipende da me solo per una parte minoritaria, perché il potere decisionale ultimo è tutto in mano ad Appendino.

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giovedì 11 Febbraio 2016, 14:01

Caro sindaco tedoforo

Caro sindaco,

ti ringrazio per la tua cortese lettera con cui mi inviti a portare la fiaccola olimpica in giro per la città i prossimi 27 e 28 febbraio, nell’ambito delle celebrazioni per il decennale delle Olimpiadi.

Mi dispiace non poter nemmeno prendere in considerazione il tuo invito, in quanto per quel fine settimana ho già un impegno familiare fuori città, ma avrei comunque rifiutato la proposta. E non per una sterile opposizione di principio, e nemmeno per disprezzo verso l’evento olimpico; io sono orgoglioso che la mia città abbia potuto ospitare le Olimpiadi, e ricordo ancora con emozione la folla internazionale che riempì la città, i concerti in piazza Castello e la cerimonia di chiusura, che vidi (pagandomi il biglietto) dagli spalti dello stadio.

Se però dobbiamo veramente fare un bilancio del lascito olimpico a dieci anni, dobbiamo farlo per intero. Le Olimpiadi non ci hanno lasciato soltanto emozioni e turisti, ma anche debiti, inchieste giudiziarie, sprechi e degrado. Sarebbe allora opportuno non pensare soltanto a quanto sia stato bello essere al centro dell’attenzione del mondo, ma chiedersi come sia stato possibile che molte costruzioni olimpiche siano state subappaltate alla ndrangheta; che gli appalti per le strade olimpiche siano risultati truccati direttamente dai dirigenti pubblici che li gestivano; che gli impianti sportivi delle nostre montagne, costati centinaia di milioni di euro, siano stati completamente abbandonati allo sfacelo; che gli edifici di Spina 3, trasformati poi in case popolari, soffrano di problemi tecnici a non finire; che l’ex villaggio del MOI, già cadente e pieno di crepe, sia stato abbandonato e trasformato in un centro di illegalità fuori controllo; e che i debiti siano stati tali che tuttora, pur avendo in questi anni venduto tutto il vendibile, ogni torinese nasce già con migliaia di euro di debiti e oltre un euro su quattro delle tasse comunali va alle banche. Non è necessario parlare soltanto di questi aspetti negativi, ma non si può nemmeno fingere che non esistano.

Altre critiche sono già state fatte: la scelta di investire centinaia di migliaia di euro in una celebrazione postolimpica, facendosela finanziare da sponsor “privati” come Iren (che poi tanto ricaricheranno i costi sulle bollette dei torinesi), sembra veramente un disperato tentativo di ravvivare la tua campagna elettorale a colpi di circenses, di Piovani per i salotti buoni e diggeiset per i giovani, peraltro nemmeno per celebrare un risultato della tua personale amministrazione.

Ma non è nemmeno questa la cosa che più mi lascia perplesso. No, la cosa che veramente mi colpisce è che quella di sottolineare con tanta evidenza la celebrazione del decennale olimpico non è una scelta che guarda al futuro, ma al passato; dimostra anzi l’incapacità di guardare al futuro, e l’aggrapparsi a un passato magari luminoso, ma che non tornerà più. Se le Olimpiadi ci hanno portato il turismo, bene, ma ormai quello è, e da solo chiaramente non basta; bisogna pensare ad altro.

Questa città ha un bisogno urgente: deve smettere di raccontarsi che tutto va bene e ammettere che la crisi avanza; e per rilanciarsi deve liberare le energie che sono bloccate dalle rendite di posizione, da una classe dirigente che ormai ha detto tutto ciò che aveva da dire. Deve immaginare un futuro e trovare le persone che lo possano portare avanti almeno per i prossimi dieci anni.

Colpisce, sinceramente, che l’unica cosa che il PD riesca a fare – a parte una serie impressionante di annunci sui giornali di mirabolanti progetti ogni giorno diversi che poi finiscono in nulla – sia riproporre il passato, ragionare secondo modelli di sviluppo – grandi eventi e grandi opere – che in passato possono avere avuto un senso, ma che oggi non funzionano più e sono in crisi in tutto il mondo. Forse, però, è solo un’altra manifestazione di un principio che chi si occupa di innovazione conosce bene: quello per cui l’organizzazione leader in una generazione raramente riesce a sopravvivere in quella successiva, perchè la sua stessa dimensione le impedisce di cambiare in tempo.

E io, da cittadino prima ancora che da politico, spero semplicemente che l’obsolescenza della nostra attuale classe dirigente non finisca per travolgere anche l’intera città.

Saluti,

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giovedì 4 Febbraio 2016, 21:22

Una giornata in Grecia

Gli economisti discutono senza frutto da decenni su quali siano i parametri giusti per misurare il livello di sviluppo delle nazioni del mondo. Eppure, quando si arriva per la prima volta in un nuovo Paese, bastano poche ore, talvolta pochi minuti, per capire al volo in che tipo di progresso si è capitati; basta uscire dall’aeroporto e guardare le auto che circolano, la pulizia delle strade, i materiali utilizzati, e si ha subito una sensazione a pelle.

Se poi, come è successo a me oggi per la Grecia (a dire il vero è la seconda volta che ci vengo, ero già stato dieci anni fa ad Atene, ma dopo tutto questo tempo la sensazione si resetta), ci si capita anche in una giornata grigia di inizio febbraio, nonché di sciopero generale, si conclude immediatamente di essere finiti in un posto non lontano da noi, anzi piuttosto simile per geni e per cultura; ma inevitabilmente indietro nel tempo.

E così stamattina, osservando le persone sull’autobus che mi portava in centro a Salonicco, e poi osservando i palazzi, le insegne, le strade, ho riprovato la stessa sensazione che già mi era capitata al primo impatto con l’America Latina, nel 2001 a Montevideo: quella di essere più o meno in Italia, ma nell’Italia di quarant’anni fa.

“Benvenuto nel 1976”, mi diceva il cervello, osservando come su un pullman carico di gente fossi l’unico che picchiettava su uno smartphone, in mezzo ad anziani vestiti con giacche di velluto e a studenti universitari diversi dei quali, in compenso, portavano sottobraccio un giornale di carta (un giornale di carta!!).

Peggio ancora è andata quando nel mio giro ho cominciato a incrociare le manifestazioni. All’inizio son partito dai musei; quello bizantino, piuttosto carino, era aperto e illuminato e pieno di dipendenti, che però, regolarmente seduti al bancone d’ingresso, non facevano entrare nessuno: aperghìa. Quello archeologico, che contiene meraviglie ma è contenuto in un orripilante fabbricato anni ’50, era proprio sbarrato: aperghìa persino le serrande.

Poi sono arrivato all’Arco di Galerio, che ho scoperto essere il ritrovo degli universitari: ecco, lì gli anni ’70 strabordavano. In mezzo a palazzoni in stile Bucarest, sotto questo impressionante arco romano di mattoni ancora in parte coperti da fregi e bassorilievi di marmo, stavano un duecento studenti, tutti coi cappottoni e con cartelli di protesta rigorosamente scritti a mano (gli striscioni stampati qui sono ancora una tecnologia di punta).

Avevano delle casse che emettevano canti di protesta di quelli che possono stare solo su un vinile, che già la cassetta è troppo modernamente capitalista; quei canti strazianti di quando esistevano ancora le fabbriche, gli operai, i padroni (quelli con una faccia ed un nome, non quelli con un ISIN e un ticker), quelle robe pesanti come un loden che parlavano dei compagni dai campi e dalle officine che giravano con falci e martelli d’ordinanza. Quelle robe che c’è una chitarra acustica che suona, e poi se non parte il flauto (ok, Inti Illimani) parte comunque una tizia che cerca di imitare Joan Baez (chi avesse meno di quarant’anni per favore prenda Wikipedia per sapere di chi sto parlando).

Insomma, nel campionato della ricchezza delle nazioni la Grecia certamente non sta in serie A con Germania e Inghilterra, e non sta nemmeno in serie B con Italia e Spagna; si gioca una onorevole Lega Pro con la Turchia e il Nord Africa, e pure lì rischia di retrocedere, perché comunque il dinamismo che ho visto a Istanbul non l’ho visto da queste parti, pur considerando l’enorme diversità di dimensione; là in questi dieci anni hanno fatto diverse linee di metro e il tunnel sotto il Bosforo, qui hanno la prima linea di metropolitana in costruzione dal pleistocene, coi cantieri aperti da tempo immemore sul corso principale.

La situazione peraltro è resa ancora più paradossale dal fatto che qui la sinistra-sinistra ha davvero preso il potere, da sola, senza compromessi con il centro; e ora è lei il bersaglio di tutte queste proteste, avendo dimostrato di non potere o non volere fare niente di diverso. A forza di paradossi, la Grecia dimostra la futilità della resistenza all’eurocapitalismo; tutti protestano, ma non si sa nemmeno bene contro chi, perché il popolo ha già rovesciato i cattivi e corrotti governanti di prima mettendo al loro posto chi li aveva combattuti in nome della gente, e non è cambiato proprio niente, anzi le cose sono ancora peggiorate; perché chi comanda davvero non sta nemmeno più in Grecia, non sono nemmeno più i ricchi greci, che pure certamente ancora esistono, e non si sa nemmeno più chi sia.

Ma scendere in piazza quando l’economia è già tutta in mano straniera, quando il governo prende ordini dall’estero altrimenti il Paese resta senza soldi e senza mezzi di sussistenza, è totalmente inutile; è troppo tardi, serve solo a sfogare la rabbia, e solo per un momento; è un beccarsi tra capponi che, già castrati da un pezzo, restano tutti saldamente nelle mani di chi li sta portando al definitivo massacro. Però non so che ve lo dico a fare, tanto in Italia nessuno si sta più preoccupando di non finire come la Grecia, dato che il problema fondamentale e definitivo per il futuro del Paese, quello su cui tutte le forze politiche si concentrano e lottano duramente in un senso o nell’altro, è se un omosessuale possa o meno adottare il figlio biologico del proprio compagno.

Comunque, non vorrei che il mio racconto risultasse troppo drammatico. Per essere un giorno di sciopero generale, è stato molto ordinato; nonostante le mie paure di rimanere a piedi, sono riuscito lo stesso a prendere il pullman per visitare la città (il datore di lavoro della mia compagna, organizzatore del viaggio, ci ha comodamente sistemati in un ameno sobborgo collinare a dieci chilometri dal centro); a differenza che da noi, quando c’è sciopero tutto il giorno viene garantita dall’alba alla sera una corsa all’ora su ogni linea, per cui basta presentarsi alla fermata al momento giusto; c’è addirittura l’app che ti mostra in tempo reale la posizione dei mezzi sulla linea.

Lo sciopero ha avuto un’adesione generale; qui non è che ogni categoria vada per i fatti propri, ma chiude tutto insieme; dipendenti pubblici e privati, negozi, benzinai, musei, tutto o quasi tutto chiuso. Tuttavia, in centro c’era anche parecchia gente che faceva come nulla fosse, affollando i caffé rimasti aperti; ci sono tuttora ampi strati sociali che non sono affatto alla fame, che vivono più che bene, in un Paese comunque ospitale e più organizzato di quel che si potrebbe pensare. Girando per i quartieri alti di Salonicco si trovano catapecchie, ruderi, capanne che sembrano quasi di fango; ma si trovano anche, proprio a fianco, tante casette appena ristrutturate e ridipinte, spesso con un Mercedes parcheggiato davanti.

Ieri siamo stati in un ristorante piuttosto raffinato vicino all’albergo, dove per 25 euro a testa abbiamo ottimamente cenato con pesce; oggi in città ho mangiato souvlaki (spiedo), non il gyros (il gyros sarebbe il kebab ma non ditelo ai greci, sono convinti che il gyros sia un fantastico piatto greco mentre il kebab sia una schifezza di quei porci dei turchi(*) ) ma uno spiedino di maiale vero e proprio, marinato in origano e peperoncino e accompagnato da cipolla cruda che reagendo con la marinatura mi ha regalato un bruciore muriatico nella gola e anche nel naso, però veramente ottimo.

Resta, però, l’impressione di una società che farà molta fatica a rimanere agganciata a quelle più avanzate, evolvendo se mai verso il Sudamerica, verso società non totalmente povere ma molto più diseguali di quelle europee; una società che in gran parte un po’ si incazza e agita i pugni nell’aria e poi però si rassegna, si affloscia a guardare il vuoto su uno spartitraffico come i tanti cani randagi senza più un padrone che affollano questa città. E’ solo l’impressione di un giorno, ma forse è vivida perché anche noi italiani ci possiamo ritrovare in essa; con la sgradevole sensazione che probabilmente saremo noi i prossimi.

(*) Su un muro di una casa stava scritto “PAOK 4 – Tourkòi bastardòi”, ma purtroppo non parlo il greco, non ho idea di cosa voglia dire…

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sabato 30 Gennaio 2016, 10:32

Trent’anni fa in televisione

Cinque minuti di Rai1 di una tarda serata di trent’anni fa rivelano che nel 1986:

  • il massimo dell’eleganza femminile era un poncho rosa pelosetto a spalle larghissime, accoppiato con una acconciatura da abat-jour;
  • stranamente, il telegiornale parlava soltanto di notizie e non conteneva video di gattini né lanci della prossima fiction;
  • si capisce che è il telegiornale di seconda serata perché, da bravi dipendenti a posto fisso, a quell’ora non lavora più nessuno, lo studio dietro è spento e tutti sono già andati a dormire;
  • le parole inglesi erano ancora declinate al plurale (si sente un orrido “gli slogans”);
  • se oggi il telegiornale dicesse che Soweto è una città “abitata dai negri” il palazzo della Rai verrebbe subito fatto saltare in aria come forma di scuse;
  • in Sudamerica c’erano solo dittature, in particolare c’è il racconto di un mezzo colpo di stato in Ecuador che sembra scritto da Woody Allen;
  • dalla cartina meteorologica del satellite Meteosat si nota come l’Europa finisse alla cortina di ferro, oltre la quale c’erano solo i leoni;
  • mentre in Europa avevano già le animazioni del meteo fatte tipo con un Amiga, da noi resistevano ancora i simbolini e le lettere magnetiche da attaccare su una cartina metallizzata dell’Italia;
  • esisteva ancora il “termine dei programmi”, ovvero un po’ dopo mezzanotte in Rai salutavano tutti, staccavano tutto e restava il monoscopio fisso fino al mattino successivo;
  • mamma mia quanto erano brutte le auto degli anni ’80!!
  • l’immagine della riunione manageriale al Centergross di Bologna se la batte con la Milano da bere;
  • le notizie erano lunghissime, le pubblicità erano lunghissime, i trailer dei film erano lunghissimi (perdipiù inspiegabilmente rimpiccioliti tra due orride bande rosa in grafica computerizzata) e persino i film erano lunghissimi, tanto è vero che li spezzavano in due serate;
  • c’erano ancora le annunciatrici, ma per fare l’annuncio le mettevano illuminate in faccia contro un muro grigio, pronte per la fucilazione, per cui non stupisce che si siano poi estinte.
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giovedì 21 Gennaio 2016, 16:50

Una seduta consiliare a caso

Oggi pomeriggio ho discusso in commissione trasporti una mia mozione che chiede ai vigili di dotarsi di account Facebook e Twitter su cui ricevere in tempo reale le segnalazioni di violazioni stradali gravi e situazioni problematiche, inviate dai cittadini tramite foto e video dallo smartphone, per poi decidere se inviare una pattuglia. Già oggi esistono gruppi su cui queste segnalazioni arrivano continuamente, sarebbe utile farlo in maniera costruttiva e non solo come sfogatoio.

Solo che in risposta il comandante dei vigili ha ribadito che loro fanno già tantissime attività contro la doppia fila, vantandosi anche di come siano riusciti a reprimerla in via Vanchiglia senza provocare le solite proteste dei commercianti; e poi il consigliere Liardo (NCD) è intervenuto accusandomi di vivere “in Svizzera o forse in Australia”, perchè a Torino la gente è obbligata a muoversi in auto violando il codice della strada a causa dell’insufficienza dei mezzi pubblici, in particolare della metropolitana (da lui ribattezzata “il tour del comunismo”) che è stata progettata per servire solo i quartieri rossi tagliando fuori i suoi elettori di Torino nord. Nel frattempo altri consiglieri di maggioranza e opposizione facevano a gara per capire chi di loro avesse collezionato più multe nell’ultimo anno, dopodiché mi hanno detto che c’erano “problemi di privacy” (non meglio specificati) e la seduta è finita lì.

E poi mi chiedete perché non voglio più fare il consigliere comunale…

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lunedì 28 Dicembre 2015, 11:23

Volete sapere cosa penso dello smog?

Volete sapere cosa penso dello smog?

Penso che la situazione è preoccupante ma è altrettanto preoccupante che a preoccuparsene stabilmente tutto l’anno non siamo poi in tanti, mentre molti se ne preoccupano a targhe alterne a seconda di quanto la questione viene pompata dai media del giorno; sono gli stessi che adesso invocano blocchi di tutto ma poi tra due mesi, passata l’emergenza, si lamenteranno perché in strada ci sono troppi ciclisti rompicoglioni e perché si vogliono allargare le strisce blu.

Penso che però (dati alla mano) negli ultimi dieci anni messi assieme ho respirato meno schifezza di quella che respiravo da bambino in un solo inverno, eppure trent’anni fa nessuno si preoccupava più di tanto, mentre ora ne parlano tutti: entrambi questi cambiamenti sono già molto positivi.

Penso che qualcosa di più si sarebbe dovuto fare, qualche blocco totale del traffico, qualche obbligo di abbassare il riscaldamento.

Penso anche però che le targhe alterne o i blocchi diurni di un paio di giorni o i divieti per le auto più vecchie (ormai poche e spesso poco usate) non spostano significativamente la questione, per cui farli o non farli non fa grande differenza per i nostri polmoni; la politica prende o non prende questi provvedimenti per calcoli elettorali e di comunicazione, e non per ragionamenti sanitari.

Penso che per fare davvero la differenza e avere aria pulita anche d’inverno, in attesa di proseguire le politiche che già hanno permesso di ridurre clamorosamente l’inquinamento negli ultimi vent’anni, è necessario essere disposti a bloccare il traffico privato a dicembre in tutta la pianura padana per due o tre settimane di fila, senza eccezioni. Ma tutto: in città e sulle autostrade, auto e camion, per svago e per lavoro. Solo che poi avremmo i supermercati vuoti per mancanza di rifornimenti, i lavoratori dei trasporti in cassa integrazione, i benzinai che piangono miseria, i commercianti e gli agenti di commercio sul lastrico, e tutti gli altri in giro pigiati sugli stessi mezzi pubblici di oggi, perché bloccare il traffico non fa saltar fuori per magia entrate addizionali per migliorarli.

E’ veramente possibile questo? No, non è possibile. E quindi di cosa parliamo? O siamo disposti a cambiare di colpo e molto in profondità il nostro modo di vita e la struttura della nostra economia, o andiamo avanti piano piano con la costante riduzione dell’inquinamento dovuta ai miglioramenti tecnologici, e nel frattempo moriamo tutti un po’, come per tanti altri motivi collaterali alla nostra società del benessere che con la scienza ci allunga la vita, ma ogni tanto ce la accorcia anche.

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sabato 19 Dicembre 2015, 17:16

La mia prima alla Scala

Ieri sono stato a Milano per un motivo ben preciso: nell’entusiasmo prenatalizio, in cui tutti dobbiamo essere più buoni, ho accettato uno scambio che da tempo dovevo fare con la mia consorte. Io sarei andato a sentire l’opera alla Scala, e in cambio lei sarebbe venuta a vedere il Toro all’Olimpico.

Che questo spirito di cooperazione fosse destinato al disastro dovevo capirlo subito, quando ieri mattina sono andato alla biglietteria dello stadio e ho scoperto che per Toro-Udinese la Maratona era già esaurita, facendo saltare la seconda parte dello scambio (si recupererà con l’Empoli dopo le feste).

Tuttavia, ogni promessa è debito e quindi ho onorato la mia parte, accettando di andare nel loggione della Scala – un investimento da ben quindici euro a testa – in occasione della rappresentazione della Giovanna d’Arco di Verdi (il compositore, non il centrocampista ex Milan).

Bene, è stata una scoperta: non pensavo che fosse possibile, ma a quarant’anni ho infine trovato qualcosa che fa abbioccare più dei Gran Premi di Formula 1.

Certamente a ciò ha contribuito il fatto che l’unica cosa che potessi vedere dal posto a me assegnato fosse il lampadario appeso al soffitto del teatro; però va detto che se mi alzavo e mi sporgevo sopra quelli della fila davanti riuscivo a vedere l’angolo sinistro della scena, purtroppo sempre vuoto perché il regista dev’essere un borghese reazionario e ha concentrato sempre tutto sul lato destro.

Comunque, a uso della vostra cultura, vi riassumerò brevemente l’opera in questione.

In pratica, l’intera opera di due ore e mezza ha solo tre personaggi: Carlo re di Francia, Giovanna d’Arco e suo padre. La prima parte è centrata sul fatto che Carlo ci prova con Giovanna, la quale è donzella purissima e affidata alla Vergine (ci sono un sacco di invocazioni di Cristi e Vergini in quest’opera, e dopo un po’ comincerete a invocarli anche voi sperando che facciano finire presto il tutto).

Per questo motivo Giovanna non gliela vuole dare, però a un certo punto pensa che sì, insomma, magari, una trombatina col re non ci starebbe male. Bene, solo per averlo pensato parte una mezz’ora di reprimende da parte del Verdi e del suo librettista Temistocle Solera, con tanto di esibizioni di diavoli e dannati e di disperazione del padre di lei, devastato dal dolore di aver messo al mondo una tale puttana, una che pensa prima o poi pure di fare del sesso, la svergognata. O almeno così credo, visto che Temistocle è uno a cui piace usare tutte le parole difficili del vocabolario e anche alcune inventate apposta per non farsi capire, prendendo di peso parole dal latino e italianizzandole come capita.

Comunque, a questo punto dormivo già da mezz’oretta e mi sono svegliato con le luci dell’intervallo, durante il quale sono spariti metà degli spettatori, a partire dal tizio russo seduto accanto a me che dopo un quarto d’ora dall’avvio dello spettacolo aveva già estratto il cellulare e stava chattando su whatsapp per scambiare foto di stangone russe seminude.

La seconda parte è a dire il vero più interessante, anche musicalmente, tanto è vero che non mi sono più addormentato del tutto.

Comincia col padre che, in ossequio alle nostre tradizioni cristiane, cerca di far ammazzare la figlia per punirla di aver pensato di poter prima o poi perdere la verginità (qui si dimostra come le nostre tradizioni cristiane siano in realtà indistinguibili dalle tradizioni pakistane del burqa). Lei peraltro è d’accordo, e autosvergognandosi desidera solo bere un calice di amaro Averno.

In qualche modo Giovanna finisce sul meritato rogo, ma lì, straziata dal senso di colpa e anche un po’ dall’incipiente profumo di arrosto, si prostra in penitenza nel tormento e giura al padre che mai più concepirà di utilizzare la sua vagina, anzi, piuttosto se la sigilla col Bostik.

A questo punto, ripristinata la moralità cristiana, parte una radiocronaca cantata (costava meno che mettere in scena una battaglia) che ci spiega che Giovanna viene liberata, sbaraglia gli inglesi e poi muore, perché comunque lei ci aveva pensato, al sesso, e quindi va bene redimersi ma neanche il Bostik può rimettere insieme la moralità di una donna. Però la Francia è salva e quindi chi se ne frega di Giovanna, son tutti contenti e l’opera finisce.

Ora, come può reagire una persona normale che al giorno d’oggi si trovi di fronte a questa overdose di Dio, Patria e Famiglia, e a un’opera che, secondo Wikipedia, lo storico critico verdiano Carlo Gatti definì pacatamente “un cumulo d’incongruenze e un’offesa continua al buon gusto artistico e alla verità storica”?

Beh, uno può dormire, oppure può sperare che le continue invocazioni “Oh Franchi!” presenti nel libretto preludano all’ingresso in scena perlomeno di Franco Franchi o di Pippo Franco o di qualche altro Franco che salvi un po’ la serata, oppure può chiedersi se, invece di investire una montagna di soldi in questo evento, non potessero semplicemente mettere regista e direttore di fronte a una replica di 16 anni e incinta su MTV, che sostanzialmente è la stessa cosa ma in cinque minuti anziché due ore e mezza, e senza tanti gorgheggi e marcette di ottoni in stile Oktoberfest.

L’importante è solo non farsi trascinare invece dall’entusiasmo, perché se vi piace questa roba finirete per auspicare il ritorno dello Stato Pontificio e pure quello dei Savoia, e non solo a Ballando sotto le stelle.

Però ok, i cantanti erano bravi!

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sabato 5 Dicembre 2015, 11:46

Sul Tirreno il M5S cambia pelle

Non so se mi sia ancora permesso commentare quanto accade a Livorno – la sospensione dei consiglieri M5S che sulla questione dei rifiuti si sono dissociati da Nogarin e hanno votato difformemente dalle indicazioni del Movimento – senza che ciò venga visto come un attacco al M5S, ma ci provo lo stesso, perché la situazione tra i consiglieri di Livorno mette in luce uno degli elementi chiave del cambiamento di pelle del Movimento di cui parlavo anche ieri.

Rassicuro comunque coloro che vedono le analisi politiche come un danno a prescindere: questo genere di dibattito interessa agli attivisti e a una piccola quantità di elettori attenti alle forme della politica, ma non sono certo i principi di funzionamento interno dei partiti che decidono il loro risultato elettorale. Se è vero che originariamente il M5S si è presentato come il “movimento dell’onestà e della partecipazione”, ora si è riposizionato come il “partito dell’unica seria alternativa a Renzi”, e come tale si proporrà, secondo me con esito positivo, come successore di Renzi quando gli italiani che lui avrà deluso cercheranno qualcos’altro, anche solo per cambiare.

Questo mutamento, calato anche nella filosofia organizzativa, permette una maggiore efficienza nell’azione politica e nella comunicazione, e riduce le contraddizioni che gli avversari usano per attaccare e il tempo speso nelle discussioni interne, che agli inizi erano fin troppo articolate (come disse una volta Grillo sarcasticamente, “votavamo per decidere se votare”). Esso, secondo me, ha aiutato anche la crescita di consenso dell’ultimo anno, invece di ostacolarla; ed è funzionale a una visione, anche di moltissimi elettori, in cui “l’imperativo è vincere”, una visione che li porta a percepire questo passaggio positivamente, come una prova di maturità e di forza.

Comunque, nel progetto originario, e tuttora nel non-Statuto, è scritto che l’organismo decisionale sovrano del Movimento 5 Stelle, l’unico che può dare direttive vincolanti agli eletti, è “la totalità degli utenti della rete”, ovvero l’assemblea permanente online dei cittadini.

Oggi però dentro il Movimento ci si aspetta che gli eletti si adeguino alle decisioni non della rete, ma delle riunioni chiuse di partito, che siano tra gli eletti o tra gli attivisti (autodefinitisi tali, perché non esiste una regola ufficiale che stabilisce chi tra gli iscritti al portale sia anche attivista, e ogni gruppo si autoseleziona). Addirittura, se leggete la lettera di sospensione inviata ai consiglieri dallo staff nazionale del M5S e riportata nell’articolo, questo viene indicato come uno dei “principi fondamentali di comportamento degli eletti del MoVimento 5 Stelle”, nonché come uno degli “obblighi assunti all’atto di accettazione della candidatura” (anche se mi sfugge dove e come essi siano stati assunti, ma magari a Livorno hanno firmato un documento specifico).

Lo stesso Nogarin, venuto a Torino qualche settimana fa, espose in sostanza la seguente teoria: “ci dobbiamo riunire tra noi a porte chiuse e magari scannarci, ma poi si vota e si decide una linea a maggioranza, e tutti devono sostenere quella in pubblico e si devono adeguare per conservare l’unità”. Teoria che agli attivisti solitamente piace molto e che sembra loro una grande novità rispetto agli ordini dall’alto della “casta dei partiti”, ma che non è altro che il centralismo democratico di scuola PCI, codificato da Lenin in persona.

Il problema è che una assemblea a porte chiuse di quadri o militanti di partito, oltre ad essere facilmente indirizzabile dai leader del partito stesso e a mancare di quella trasparenza totale che una volta era il marchio di fabbrica del M5S, non rappresenta sempre l’interesse dei cittadini; più facilmente, in caso di contrasto tra i due, rappresenta l’interesse del partito. Per cui, questo metodo, se non si vuole essere un partito ma una struttura di “portavoce dei cittadini”, può andare bene per le decisioni organizzative interne, ma non per le scelte politiche.

Sarebbero altri gli strumenti necessari per ridare veramente il potere ai cittadini, a partire dal recall, ovvero la possibilità per i cittadini di far dimettere un eletto prima del termine del mandato. Ma fin che non c’è, io trovo ragionevole che l’unica cosa vincolante per gli eletti del M5S sia la votazione sul portale, oltre a quanto pattuito nel programma elettorale, e non la decisione di una riunione di partito. E quindi, trovo giusto che i consiglieri che non sono convinti di una posizione, in mancanza di una direttiva della rete, possano distaccarsene e seguire la propria opinione anche votando diversamente dal gruppo, senza per questo essere cacciati dal M5S; e questo è il principio secondo cui io mi sono comportato in questi anni, a costo anche di una crescente impopolarità verso i miei stessi attivisti.

Certamente i consiglieri dissenzienti si assumono poi la responsabilità politica delle loro scelte, per cui, se agiscono male, la rete non li ricandiderà (in un certo senso è quel che è successo a me, solo che nel mio caso, invece di decidere la rete, ha deciso la riunione di partito). Certamente bisogna anche appurarne le motivazioni, perché è diverso dissociarsi in piena coscienza da dissociarsi per propri scopi personali; comunque eventuali motivazioni poco nobili vanno chiarite e provate, e non possono essere date per scontate a priori, con quell’abitudine ormai diffusa nel M5S per cui chi non è d’accordo viene assalito in massa al grido di “chi ti paga?”.

Del resto, la lettera dello staff parla di “danno di immagine”, ma se il Movimento fosse veramente orizzontale la responsabilità di una spaccatura e del relativo danno sarebbe di entrambe le parti, e non solo di una delle due; in questo modo si sottintende che delle due parti ce n’è una che comanda (quella in linea con la direzione nazionale, ovvero quella che nei partiti si chiama la “maggioranza interna”) e una che deve soltanto adeguarsi e sempre obbedire (quella non in linea con la direzione nazionale, ovvero la “minoranza interna”).

Ma la retorica del leader o del partito che dà ordini agli amministratori pubblici “in nome del popolo”, sostituendosi al popolo stesso con la scusa della difficoltà di consultarlo o della sua incapacità di governarsi da solo, non mi piace per niente. Non è nemmeno una grande novità; di tutte le dittature novecentesche, non ce n’è una che non sostenesse di comandare “in nome del popolo”; e “in nome del popolo” governano tutte le istituzioni della democrazia rappresentativa che tanto abbiamo criticato. La democrazia vera, però, è un’altra cosa.

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