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lunedì 13 Agosto 2012, 12:26

Iren, la multiutility molto utile al PD

Molti torinesi non hanno mai ben capito che cosa sia cambiato negli ultimi anni nella gestione dell’energia torinese. In fondo, le bollette elettriche sono sempre più o meno le stesse; cambiano solo il nome e il logo in alto a sinistra. Una volta c’era scritto Enel o AEM, società che si dividevano la città; poi dal 2002 AEM Torino, che comprò la rete di Enel; poi dal 2006 Iride, quando AEM si fuse con l’AMGA di Genova; poi dal 2009 Iren, quando Iride si fuse con l’Enìa di Reggio Emilia, Parma e Piacenza. (E non è finita: adesso si parla di fondere Iren con la lombarda A2A.)

Cosa c’è dietro a questo turbinio di operazioni societarie? Il progetto viene etichettato come Multiutility del Nord: mettendo assieme tutte le vecchie società elettriche municipali, si crea una enorme azienda energetica che potrà effettuare risparmi di scala e competere efficacemente a livello europeo, evitando che anche in questo settore gli stranieri vengano qui a spadroneggiare.

La realtà, purtroppo, è ben diversa, se non altro perché il progetto, dal punto di vista industriale, è stato un misero fallimento: Iren si ritrova ora con quotazioni di Borsa in picchiata (dunque facilmente comprabile) avendo accumulato in pochi anni un debito di oltre tre miliardi di euro. Se considerate che Torino è il maggior socio e detiene in varie forme circa il 26% del capitale, vuol dire altri 800 milioni di euro di debiti in testa ai torinesi, da sommarsi a quelli già mostruosi del Comune; tutto questo senza alcun vantaggio percepibile per i clienti in termini di servizi e tariffe.

La verità è se mai che Iren è la cassaforte privata del PD del Nord; una società prevalentemente pubblica in teoria, guardando l’elenco dei soci, ma gestita come una SpA privata da manager e notabili allineati al partito. Per esempio, fino a pochi giorni fa il presidente di FSU – la scatola cinese che contiene le quote Iren di Torino e di Genova – era il notaio Angelo Chianale, verbalizzatore di riferimento di tutta la Torino bene insieme alla moglie, il notaio Francesca Cilluffo.

Lui ricopriva altre cariche di prestigio, come la presidenza della Fondazione che organizza MiTo, per conto dell’amministrazione torinese; lei è diventata deputato PD subentrando a Fassino quando si è dimesso per fare il sindaco, e il suo unico atto rimasto nelle cronache (oltre al prendere ogni mese anche lo stipendio da parlamentare) è un intervento in aula in cui sciacallava sull’attentato al povero Musy insinuando, ovviamente senza la minima prova, che fossero stati i No Tav (insinuazione subito spinta anche da La Stampa) o in alternativa i difensori dell’articolo 18. Peccato che l’Agenzia delle Entrate abbia appena scoperto che, sui propri milionari guadagni da notaio, i due fossero usi ad evadere le tasse facendo passare per rimborsi spese una parte dei propri compensi.

Il controllo su Iren è spartito tra le varie città, tutte storicamente rosse. Iren è difatti amministrata da un comitato di quattro dirigenti in rappresentanza dei quattro soci principali, ovvero Torino, Genova, Reggio Emilia e Parma: la crema del Nord democratico. Peccato che qualcosa si sia inceppato e che da qualche mese Parma (già prima non molto allineata e dunque titolare del dirigente meno potente) sia fuori controllo; bene, qual è la risposta democratica? Torino, Genova e Reggio Emilia si accordano per escludere Parma dal governo di Iren, affidandolo a tre persone invece di quattro, con la scusa di riorganizzare Iren in modo più efficiente.

I cittadini, in questo scenario, sono soltanto vacche da mungere, privati di ogni controllo e sottoposti a un monopolio di fatto sulle forniture energetiche. Di esso fa parte anche il teleriscaldamento, spinto e decantato in nome di presunte virtù ambientali ed economiche che abbiamo già smentito in passato, ma che di fatto serve a trasformare un mercato (quello in cui potete comprare il gasolio per la caldaia da chi vi pare) in un monopolio (visto che lasciare il teleriscaldamento dopo averlo installato è quasi impossibile), che Iren in futuro potrà manipolare più o meno a piacere.

Lo stesso discorso vale per i rifiuti: Fassino sta procedendo con la vendita di Amiat e TRM (rifiuti e inceneritore) e in Municipio si dà per certo che l’acquirente sarà Iren. Per capire cosa succederà, basta vedere cosa ha scoperto in poche settimane la nuova giunta a cinque stelle di Parma: è venuto fuori il piano industriale dell’inceneritore che Iren vuole realizzare a Parma, da cui si scopre che era stato stipulato un accordo per cui l’incenerimento dei rifiuti sarebbe stato pagato a Iren 168 euro a tonnellata, contro un prezzo di mercato di 90-100 euro, garantendo a Iren un margine tra il 15 e il 25 per cento annuo, ovvero, su vent’anni, utili per centinaia di milioni di euro ricavati gonfiando il prezzo del 70%. Capite che il dare in mano a Iren per vent’anni il nostro inceneritore, al di là di tutti i gravissimi problemi di inquinamento che esso comporta, è un modo per spremerci meglio e per garantire a chi controlla Iren vent’anni di lucro a nostre spese, anche se domani l’amministrazione di Torino dovesse essere diversa.

Nemmeno i rappresentanti dei cittadini possono immischiarsi in Iren: a una richiesta formale – nemmeno nostra: della maggioranza – che chiedeva di accedere all’elenco delle consulenze date da Iren, è stato risposto che i consiglieri comunali di Torino non hanno alcun diritto di accedere a tali informazioni. Dunque Iren è pubblica quando c’è da pagare il debito, ma è privata quando c’è da gestire senza scocciature e senza controlli l’immenso giro di soldi che essa genera, e che può venire aumentato a piacimento in caso di necessità, a spese degli utenti che pagano le bollette.

Iren è sempre pronta a garantire una mano al PD quando serve, che si tratti di aiutare Fassino a non fallire o di sponsorizzare la festa nazionale del PD in piazza Castello nel 2010; tanto, i soldi vengono trovati facendo debiti che resteranno sulle spalle dei soci, ossia noi. Quando il buco diventa troppo grande, in ossequio alla “finanza moderna” tanto cara al centrosinistra, si organizza una fusione con qualche azienda simile spacciandola per un grande passo avanti verso un luminoso futuro, in modo da gabbare qualche piccolo investitore di Borsa. Quando il sistema salterà, qualche privato – italiano o straniero – comprerà le nostre ex municipalizzate per un tozzo di pane, mentre noi cittadini dovremo pagare debiti all’infinito. Benvenuti al Nord.

[tags]iren, amiat, trm, torino, parma, genova, reggio emilia, pd, multiutility, iride, enia, aem, politica, energia, teleriscaldamento[/tags]

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lunedì 6 Agosto 2012, 10:30

Acqua alta a Falchera

È tempo di vacanze e molti sognano di andare a Venezia. Ma perché? Anche se quasi nessuno lo sa, anche a Torino c’è una piccola Venezia: alla Falchera. Nell’area più vicina alla stazione Stura, infatti, garage, ascensori e cortili si trasformano in piscine estive, in molti casi con quasi un metro d’acqua. E lo fanno ogni estate. Da dieci anni.

A chi non farebbe piacere avere le fondamenta della casa invase dall’acqua per almeno tre mesi l’anno, con il rischio che a lungo andare marciscano e crolli tutto? Magari una casa comprata a prezzo di grandi sacrifici e per la quale ci si sta tuttora impiccando con il mutuo, nonché si pagano regolarmente IMU, TARSU e altre tasse?

Gli abitanti delle case si organizzano come possono, ad esempio dotandosi di grandi pompe. Ma è inutile, perché questa non è acqua fuoriuscita una tantum da qualche parte, ma è proprio la falda acquifera che sta sotto la pianura tra Torino e Lanzo, e che qui (ma anche al Villaretto e a Bertolla, proprio dove vogliono costruire decine di nuove palazzine, e dove hanno risolto il problema vietando alle nuove case di avere le cantine) è pochi metri sotto il terreno. E dunque, puoi pompare tutta l’acqua che vuoi, ma il livello non scende: c’è un intero pezzo delle Alpi a riempire di nuovo la vasca.

Quando le case sono state costruite, però, non era così; tanto è vero che tutte queste case sono regolarmente autorizzate dal Comune. La falda è risalita, dicono le istituzioni, perché non ci sono più le industrie che consumano l’acqua. Sicuramente è vero, tanto che anche altre città del Nord ex industriale, Milano in testa, hanno lo stesso problema.

E però, colpisce la coincidenza per cui il fenomeno è improvvisamente diventato pesante proprio tra il 2002 e il 2004, ovvero quando GTT ha costruito il nuovo sottopasso del 4, che parte dal fondo di corso Giulio Cesare, passa sotto la stazione Stura e riemerge a Falchera poco oltre queste case. Un’opera da decine di milioni di euro salutata come un grande regalo per Falchera, la fine del suo storico isolamento, con tagli di nastro e giubilei chiampariniani.

In realtà, gli abitanti e i loro periti sostengono che proprio quel sottopasso, costruito in maniera improvvida perpendicolarmente alla falda, ha creato una diga sotterranea che fa risalire l’acqua subito a monte, ovvero nelle case che vedete nel video. Ma le istituzioni negano: perché altrimenti il Comune potrebbe dover pagare decine di milioni di euro di danni ai cittadini. E dunque, è colpa delle piogge, della crisi industriale, del tempo che passa.

Da anni le istituzioni si rimpallano il problema senza risolverlo. Noi avevamo citato questa vicenda come esempio, nel discorso in piazza Castello, e quindi vogliamo mantenere le promesse; appena eletti, la scorsa estate, abbiamo fatto una interpellanza, a cui la giunta ha risposto che avrebbero provveduto insieme a Provincia e Regione a finanziare uno studio.

Ne abbiamo fatta un’altra in primavera, per chiedere come andava: la nuova risposta è stata che lo studio non si è fatto, naturalmente secondo il Comune per colpa della Regione, secondo la Regione per colpa del Comune. Sta di fatto che un altro anno è passato senza che si facesse niente; e colpiscono i ringraziamenti dell’assessore perché gli abitanti sono stati “civili e oggettivi” (si aspettavano torce e forconi?) e l’impegno in conclusione di discuterne quanto prima in Commissione Ambiente (sono passati tre mesi e ancora la riunione non è stata fissata).

A questo punto il Movimento ha deciso di finanziare, con i soldi tagliati dagli stipendi dei consiglieri regionali, delle analisi per verificare se quest’acqua oltretutto è anche inquinata, con conseguente emergenza sanitaria e obbligo di intervento rapido.

Sorpresi? Si sa che a Torino tutto va bene, non ci sono tagli, non ci sono problemi. Notizie come questa devono passare per forza a mezza voce, confinate al massimo alla pagina dei quartieri de La Stampa, se non in qualche caso eccezionale o quando ci scappa il morto, caso in cui sono concessi un paio di giorni di visibilità seguiti da grandi promesse della politica, che poi invariabilmente finiscono nel nulla.

[tags]falchera, falda, acqua, allagamento, torino, gtt, danni[/tags]

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sabato 4 Agosto 2012, 12:53

L’aria pulita dell’alessandrino

Nel Nord Italia, si sa, le grandi città sono inquinate: è per questo che in questo periodo chi può cerca di andare al mare, in campagna o in montagna, in modo da respirare un po’ d’aria buona.

Peccato che anche le grandi aziende abbiano seguito lo stesso ragionamento; anzi, nel periodo del tanto rimpianto “boom economico” e nei successivi anni ’70 e ’80 ogni angolo del Bel Paese reclamava la sua fabbrica. Sono nati così dei veri mostri in posti meravigliosi: oggi tutti parlano dell’Ilva di Taranto, ma ricordo lo shock che provai quando, giunto a Catania per lavoro e avendo una giornata libera, presi il treno per Siracusa e mi trovai di fronte a una baia magnifica completamente ricoperta di impianti petrolchimici, per chilometri e chilometri: uno scempio indicibile, coronato dalla storia terribile di Marina di Melilli.

Dalle nostre parti non si sta meglio, ed è per questo che non mi stupisce sentire le intercettazioni telefoniche dei dirigenti della Solvay di Spinetta Marengo, sita nella pianura a est di Alessandria. Temo che dialoghi simili avvengano in ogni fabbrica chimica italiana.

P.S. Se pensate che noi a Torino siamo tranquilli, ripensateci: in via Reiss Romoli si trova la Rockwood, una fabbrica di vernici che già per molti anni ha colorato i balconi delle case circostanti un giorno di giallo e un altro giorno di rosso. Basta chiedere notizie agli abitanti

[tags]inquinamento, chimica, industria, alessandria, solvay, siracusa, melilli, taranto, ilva, petrolchimico[/tags]

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giovedì 2 Agosto 2012, 14:22

La movida, Casacci e gli amici del localino

È un po’ che volevo parlare di movida e me ne offre l’occasione un post di Max Casacci, leader dei Subsonica, che attacca frontalmente il “post di Grillo” che confronta la gestione della vita notturna a Parma e a Milano, dopo che il nuovo sindaco di Parma ha deciso di vietare il consumo di alcool fuori dai locali durante la notte, oltre che le bottiglie di vetro.

Casacci fa parte di quell’ambiente culturale che vive in simbiosi con l’amministrazione comunale, e dunque non stupisce l’attacco a Grillo a prescindere, peraltro in perfetto sincrono con una campagna ripresa da tutti i giornali di regime, che evidentemente passano le giornate in conciliabolo per inventarsi un modo di attaccarci: il Corriere fa un articolo con una falsa dichiarazione di Grillo e poi, pescato in castagna, lo cancella; La Stampa fa un articolo che riprende parola per parola il post di Casacci, come fa normalmente per qualsiasi post di qualsiasi blog, no? Casacci ritira persino fuori la storia che il Movimento 5 Stelle avrebbe fatto vincere Cota: e dai, è vecchia! Comunque, perlomeno potrebbe leggere meglio, dato che il “post di Grillo” a cui si riferisce è in realtà il commento del gestore di una web TV milanese.

Il resto del post di Casacci è una difesa a prescindere delle politiche dell’amministrazione torinese sulla vita notturna, la stessa che viene ammannita a chiunque osi protestare per il caos della movida: la città prima era morta e ora è il top per i giovani, i locali garantiscono la sicurezza e fanno girare l’economia, chi si lamenta è solo un vecchio barboso che ha beneficiato della riqualificazione. A meno naturalmente che non si tratti dello stesso Casacci, che nel post rivendica il diritto di tirare le uova in testa alla movida che passa sotto casa sua: vadano a movidare sotto casa di qualcun altro.

Il Movimento 5 Stelle viene dunque accusato di essere perbenista e bacchettone, incapace di cogliere l’esigenza di “noi ggiovani” di passare la notte a far casino. Ora, credo che le esigenze dei giovani ci siano ben chiare, se non altro perché l’età media della nostra lista era di qualche lustro inferiore a quella del PD; e mi piacerebbe ribattere a Casacci che una delle cause vere della movida sempre più aggressiva è il fatto che questa città secondo lui così ben gestita è in cima alle classifiche della disoccupazione giovanile, lasciando ai ragazzi solo molto tempo da riempire, tante frustrazioni e la voglia di sfogarle in qualche modo.

Ad ogni modo, noi crediamo che non si debba scegliere tra vivere o dormire, ma che una civile convivenza richieda regole e lo sforzo tollerante di tutti. In particolare, il provvedimento di Parma – obbligare di notte a consumare l’alcool dentro i locali – vige nelle città di mezza Europa, dove aiuta a contenere il disturbo e l’immondizia; può funzionare o meno, dipende dai costumi del posto, ma non impedisce certo il divertimento.

Del resto, quando si è parlato del problema in Comune, io ho esordito dicendo che chi abita in piazza Vittorio ha diritto al rispetto delle regole in materia di rumore, ma non può certo aspettarsi che alle due di notte sotto casa ci sia la quiete di un quartiere periferico. Ogni città ha le sue aree di vita notturna; se uno abita lì sa cosa si deve aspettare, e un abitante della Rambla di Barcellona che scrivesse al giornale locale per lamentarsi del casino non troverebbe ascolto.

Tuttavia, non è accettabile che certe aree ogni notte diventino terra di nessuno, assediate dalle auto in sosta vietata, piene di gente che grida, vomita, litiga e piscia sui portoni, e lascia immancabilmente un tappeto di immondizia. E allora il Comune dovrebbe fare di più; anche se lo Stato, con le varie liberalizzazioni, gli ha tolto quasi ogni potere, potrebbe agire perlomeno in termini di mobilità (bloccando l’assalto delle auto) e di igiene (basterebbero dei bagni pubblici, che a Torino sono un miraggio).

Basterebbe poi far rispettare i regolamenti in materia di rumore, che sono chiari: i locali non devono generare rumore udibile dall’esterno dopo le 22 (reg. 221 art. 44), e gli eventi rumorosi (es. concerti) possono arrivare fino alle 24 per massimo 12 giorni l’anno (30 in alcuni luoghi particolari) e massimo due sere a settimana (reg. 318 art. 14). La giunta comunale può concedere ulteriori deroghe solo “sulla base di documentate motivazioni di carattere artistico e socioculturale o comunque di interesse pubblico”.

La realtà però è ben diversa, e noi abbiamo analizzato in particolare due casi che ci sono stati segnalati per il pesante disturbo arrecato a chi ci abita vicino: quello della discoteca Rotonda del Valentino, annessa a Torino Esposizioni, e quello del punto estivo L’isola che non c’è alla Pellerina, non certo situati al centro della movida, ma in tranquille zone residenziali. Per la Pellerina, dove non sono state concesse deroghe, i residenti hanno più volte chiamato i vigili, mentre noi abbiamo presentato una interpellanza in circoscrizione e scritto all’assessore, ottenendo una gentile risposta ma scarsi risultati.

La Rotonda del Valentino, invece, ha ricevuto da Fassino una deroga con ammirevole velocità: richiesta il 13 aprile, approvata l’8 maggio. Con tale deroga, Fassino ha concesso a questa discoteca – a fronte del limite da regolamento di 12 o 30 serate (a seconda che per voi Torino Esposizioni sia dentro o fuori il Valentino) fino alle 24, di cui massimo due a settimana – di effettuare 132 serate per sei sere a settimana, praticamente per tutta l’estate, arrivando fino alle tre di notte il martedì e mercoledì e fino alle quattro (!) gli altri giorni. Immaginate il piacere di chi ci abita davanti…

Simili deroghe sono state concesse al Cacao e ad alcune associazioni culturali che gestiscono punti estivi, ma la perla è la motivazione: secondo Fassino la Rotonda del Valentino “rappresenta uno dei più importanti e storici punti di aggregazione socioculturale della Città assicurando al proprio pubblico performances musicali di dj, spettacoli live e cabaret. Tali attività presso la “Rotonda Valentino” garantiscono inoltre un presidio territoriale strategico svolgendo un controllo di sicurezza e tutela urbana. Inoltre per effetto della costante e perdurante attività l’immobile comunale è salvaguardato e correttamente mantenuto.”. Con queste motivazioni, pure casa mia potrebbe essere autorizzata!

Noi abbiamo presentato già due mesi fa una interpellanza, che però… è sparita. Giuro! E’ stata iscritta all’ordine del giorno e rinviata varie volte perché Fassino non si presentava a rispondere, poi di colpo è sparita e nonostante due richieste gli uffici comunali non hanno ancora saputo dirci perché. Pazzesco…

Vi rendete conto da soli che c’è qualcosa di strano, ma cosa? Possiamo solo fare delle ipotesi e osservare alcune coincidenze. Per esempio, L’isola che non c’è è gestita dall’associazione del consigliere della IV circoscrizione Massimiliano Lazzarini della Federazione della Sinistra. La Rotonda del Valentino, invece, è gestita dalla Black & White s.r.l., amministrata dal “sig. Fasano Marco”.

Ora, potrebbe semplicemente essere un caso di omonimia (lo chiedevamo nell’interpellanza), ma ci risulta che un Marco Fasano nel 2007 fosse iscritto e delegato dal PD di Moncalieri al congresso, in rappresentanza della mozione di Fassino. Ci risulta anche che un Marco Fasano sia vicepresidente – anzi no, da due giorni presidente – dell’associazione Amici della Fondazione Cavour, che ha “lo scopo di valorizzare il patrimonio storico, culturale e ambientale dei luoghi cavouriani di Santena”, cosa che fa piuttosto bene dato che sono appena stati stanziati cinque milioni di euro pubblici, di cui oltre un milione del Comune di Torino, per ristrutturare il castello di Santena.

Ma non finisce qui: parliamo dei Murazzi? In commissione, quando se ne parla, si vedono sempre delle fantastiche scenette: ho visto un consigliere del PD mandare affanculo un ex assessore che anni fa aveva preteso il pagamento degli affitti; o un consigliere di SEL insistere all’infinito perché la Città ripulisse con più efficienza la discesa dei Murazzi quando si alluviona, fino a far sbottare il vicesindaco. Perché? Non lo so, presumo solo amore per la vita notturna, però mi tocca riportare il commento fatto a verbale dal consigliere Viale: “ai Murazzi ogni locale ha il suo padrino politico, di destra o di sinistra”.

Certo è che la situazione dei Murazzi è preoccupante, dato che per anni i locali si dimenticavano di pagare i canoni al Comune, accumulando complessivamente 800.000 euro di debiti; dopo l’intervento dell’assessore di cui sopra, adesso gli affitti vengono pagati abbastanza regolarmente, ma in compenso risulta che quasi tutti i dehors siano abusivi e che per essi non venga pagata la tassa di occupazione del suolo pubblico.

Allora, perché a Torino non si riesce a far rispettare nessuna regola a chi gestisce la movida, e perché l’amministrazione comunale la difende a spada tratta, e anzi garantisce un profluvio di contributi grandi e piccoli alle “associazioni culturali” che la organizzano? Io un’idea me la sono fatta. Per questo vorrei dire a Casacci e a tutti gli “artisti della notte torinese” allineati al regime e sempre pronti a difenderlo che non ho nessun rispetto per loro, che conoscono perfettamente questa situazione e ci sguazzano da vent’anni. Almeno ci risparmino gli attacchi pelosi.

[tags]torino, casacci, subsonica, grillo, movida, fassino, rumore, politica, alcool, giovani[/tags]

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martedì 31 Luglio 2012, 16:14

Chiomonte, lo Stato in gabbia

Sabato scorso ancora una volta il popolo No Tav si è riversato sui sentieri tra Giaglione e Chiomonte, attorno al cantiere che non c’è. E’ stata una giornata di festa, alla faccia di uno Stato che in Valsusa è sempre più lontano e sempre più ridicolo.

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Partiamo per le frazioni di Giaglione, in un serpentone lunghissimo di cui non si vede la fine. Dopo un po’, la strada principale è bloccata, come già lo scorso ottobre; e come già allora, nessuno demorde. Basta inoltrarsi nella montagna, seguendo l’antico dedalo di sentierini e muretti a secco che mostrano com’era una volta questa montagna meravigliosa, piena di casette e di coltivazioni povere ma importanti, e com’è adesso, abbandonata dall’incuria degli uomini moderni.

Il sentiero supera un crinale e si fa più stretto, proseguendo a mezza costa verso la val Clarea. Si forma un gigantesco ingorgo di persone, ferme in fila indiana aspettando che il corteo riesca a proseguire. Il serpentone si sfrangia in rivoli che sfruttano ogni varco nel bosco, cercando di arrivare alla meta: il rio in fondo alla valle.

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Laggiù, il punto più difficile: il guado. E’ un’esperienza che resterà nella memoria di molti, perché il passaggio non è agevole; bisogna saltare tra grandi pietroni per poi varcare il fiume in punta di piedi, senza scivolare nell’acqua gelida in cui ci si potrebbe rompere il collo. E’ un grande esempio di solidarietà No Tav; dai giovani col cane fino alle vecchiette, tutti si aiutano a vicenda. Perfetti sconosciuti si sbracciano e si abbracciano per aiutarsi a passare, mentre un gruppo di attivisti si ferma sui vari guadi per un’ora a porgere la mano a tutti quelli che ne hanno bisogno.

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Si risale la montagna, e sono ormai quasi tre ore di marcia: siamo sopra al cantiere. E’ la prima volta che lo vedo da così vicino, e la sensazione è orribile: al posto di quella che era una serie di prati e di boschi c’è ora un’enorme montagna di terra smossa, una devastazione ambientale mostruosa. Ci raccontano che i proprietari sono stati privati di tutto, che la natura è stata svenduta dallo Stato, ogni castagno secolare risarcito con cento euro e via. Dentro, peraltro, non c’è niente; solo mezzi delle forze dell’ordine e qualche vago arnese in un angolino – non certo le attrezzature che servirebbero per fare davvero un lavoro epocale come il Tav.

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Quella che era l’area archeologica della Maddalena, dove ai tempi della Libera Repubblica No Tav si entrava con le pattine e stando attenti a non rovinare l’erba, è diventata un parcheggio per camionette e cingolati: nemmeno i cinghiali si comportano così. Sulla nostra testa continua a girare l’elicottero… tutto a nostre spese, milioni di euro pubblici buttati nel cestino senza un motivo plausibile, per un’opera che via via tutta Europa sta abbandonando, ultima la stessa Francia.

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Eppure, la tristezza per tutto questo spreco e questa devastazione lascia spazio anche alla soddisfazione: quella che viene dal senso di libertà. Sono loro a essersi chiusi da soli dentro il recinto, come animali feroci; noi gli giriamo intorno come vogliamo, sbuchiamo dai cespugli e dagli alberi, siamo in ogni angolo, migliaia di persone che li costringono dentro. Noi siamo in vacanza, a fare una bella passeggiata nei boschi tutti insieme; loro sono fermi sotto il sole a difendere il nulla da un nemico che non c’è, già sapendo che tanto i soldi mancano e l’opera non si farà mai. Anche dal punto di vista politico, nonostante l’informazione al loro servizio, sono loro quelli chiusi nell’angolo.

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Proseguiamo a mezza costa in mezzo alle bellissime vigne; molti sono tornati indietro per riprendere l’auto a Giaglione, altri hanno ceduto alla stanchezza, ma noi proseguiamo felici. Una signora anziana chiacchiera con un ragazzo di un centro sociale, che le racconta la storia della sua vita (viene da Piacenza, dunque per i giornali sarebbe un mercenario militare anarco-lanciatore di pietre convocato sul posto dalla Spectre). Arriviamo infine a Chiomonte, al ponte della centrale.

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Sul costone c’è l’ennesimo recinto con i tutori dell’ordine ordinatamente chiusi dentro; sul ponte c’è Alberto Perino che saluta tutti e dà una stretta di mano e un abbraccio a chiunque passi di lì, come premio per quattro ore di marcia; e l’essere arrivati in fondo è un gran premio di suo. Di fronte, la Dora è piena dei bagnanti del campeggio No Tav, il terribile “campo paramilitare” di ragazzi in bermuda e famiglie accaldate.

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Risaliamo fino a Chiomonte per tornare poi a Torino. E’ stata una splendida giornata e torniamo tutti a casa stanchi, ma con il morale alto: quest’opera è ormai agli sgoccioli e in gabbia ci sono soltanto loro.

P.S. Il movimento No Tav lancia la quarta edizione di Compra un posto in prima fila, per chi volesse acquistare una quota di proprietà di uno dei terreni teoricamente destinati ad essere invasi dai cantieri del Tav. Anche il Movimento 5 Stelle di Torino e del Piemonte parteciperà all’acquisto. Le quote partono da venti euro, aderite numerosi; contattateci per aderire con noi, oppure visitate i siti No Tav.

[tags]no tav, chiomonte, giaglione, valsusa, manifestazione, stato, polizia[/tags]

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venerdì 27 Luglio 2012, 12:20

Lo schifo dei rifiuti in Sala Rossa

Scusate se sarò un po’ lungo, ma l’arrivo dei rifiuti in Sala Rossa è stato un vero schifo; il punto più basso di un anno di gestione Fassino.

E così, alla fine anche i rifiuti e l’inceneritore, dopo i trasporti e l’aeroporto, sono stati privatizzati. Nonostante il nostro ostruzionismo, svolto in perfetta solitudine e contro tutti i partiti, e dopo una maratona di tre giorni, il consiglio comunale mercoledì sera ha approvato di mettere in vendita il 49% di Amiat – ma non vi inganni la percentuale, col 49% sarà data al privato anche la gestione – e l’80% di TRM (inceneritore).

In campagna elettorale, il centrosinistra aveva promesso l’esatto opposto: nelle linee programmatiche di Fassino, approvate un anno fa, a pagina 15 si legge che “si valuterà l’utilizzo degli asset delle partecipate, tenendo in ogni caso conto di due vincoli: il mantenimento del controllo della società da parte del Comune ed il nuovo quadro politico e normativo determinato dall’esito dei referendum del 12-13 giugno 2011”.

Infatti, un mese fa la delibera era partita dicendo che si sarebbe venduta la minoranza delle due aziende, e solo perché si era obbligati dalla legge dello scorso agosto che di fatto forzava i Comuni a vendere. Su questa ipotesi si è espressa la città, e in particolare le circoscrizioni; poi, all’ultimo momento, è diventata “vendiamo la maggioranza dell’inceneritore perché ci servono soldi”.

Poi, venerdì scorso, la Corte Costituzionale ha ribadito che il referendum aveva abolito l’obbligo di vendere le società comunali, e ha cancellato la legge a cui Fassino si era continuamente riferito; bene, facendo finta di niente, nel giro di una domenica la maggioranza ha presentato un emendamento di venti pagine che riscriveva da capo la delibera, ammettendo almeno la verità: la Città vende queste aziende perché ha bisogno assoluto di soldi.

In commissione, il vicesindaco ci ha fatto il conto della serva: per rientrare nel patto di stabilità il Comune deve incassare entro fine anno 330 milioni di euro. Pensa di prenderne 50 dal 28% dell’aeroporto, 100 dal 49% di GTT, 30 dal 49% di Amiat e dunque dall’inceneritore ne devono entrare almeno 150; per arrivare a questa cifra non basta vendere il 49%, serve vendere l’80%.

Per raggiungere questo obiettivo di brevissimo termine, si vende un’opera pericolosissima, nociva per la salute e per l’ambiente, che aumenterà il tasso di mortalità e di malattia in Torino e cintura; e se ne perde il controllo, dandolo in mano a un privato che avrà come unico obiettivo quello di guadagnarci il più possibile (secondo voi farà per bene la manutenzione programmata?), e impegnandosi per vent’anni a portarvi i rifiuti a qualsiasi costo, nonostante il Parlamento Europeo abbia deliberato qualche mese fa (punto 32) che entro il 2020 dovrà essere introdotto il divieto di incenerire qualsiasi tipo di materiale potenzialmente compostabile o riciclabile, cioè quasi tutti i rifiuti. Anzi, all’ultimo momento, per aumentare ancora un po’ il valore dell’azienda, hanno pensato addirittura di aumentare la durata della concessione a trent’anni – per fortuna questa cosa è saltata!

Tutta l’operazione è stata raffazzonata, con continui e improvvisi cambi di rotta a seconda del momento. Ma almeno, servirà a qualcosa? Certo non ad abbassare la TARSU, dato che il gestore privato dovrà guadagnarci: in delibera è già stata inserita una “remunerazione” del 2,5% sulla raccolta rifiuti, alcuni milioni di euro in più per tutti noi. Ma non servirà nemmeno ad evitare il dissesto della città: magari si tamponano le casse per quest’anno, ma l’anno prossimo? Cosa si venderà, la Mole?

Infatti il consiglio comunale non ha mai discusso sulla motivazione vera di questa operazione, ovvero il fare cassa: non ha mai discusso se pagare il debito sia un dogma incontestabile o se sia possibile andare a rinegoziare il patto con le banche, tagliando una parte dei debiti e spostando gli altri più in là nel tempo. Fassino in aula ha detto che Torino deve mantenersi da sola, a costo di vendere tutto quello che ha, e che non ha senso chiedere al governo centrale di cambiare la politica economica del Paese, salvo poi il giorno dopo andare in piazza davanti alle telecamere a chiedere la modifica della spending review (schizofrenia?). Questa discussione è tabù: non si può fare.

Ma non si è fatta nemmeno una discussione sull’acquirente più probabile, ovvero quella Iren che in teoria è una società pubblica, ma che di fatto è una società privata del PD; e che per Fassino dovrebbe diventare la base di una “multiutility del Nord” che gli permetta di gridare “abbiamo una grande azienda!”. Peccato che Iren in pochi anni abbia accumulato tre miliardi di euro di debiti; i nostri beni comuni, costruiti da generazioni di nostri antenati, vengono inseriti in questa scatola finanziaria e progressivamente spolpati, lasciando alla teoria proprietà, i Comuni, soltanto i conti da pagare. Anche i nostri rifiuti faranno questa fine?

L’ultima nota è per la tristezza del teatrino politico: a un certo punto, in aula, la Lega difendeva i beni comuni mentre il centrosinistra insisteva che era meglio privatizzare. Gli stessi partiti che esultavano per il referendum, con tanto di manifesti sul vento che cambia, ora insistono che il referendum non vale e non diceva quello che diceva. Il PD almeno è coerente, è ormai un partito liberista e amico della finanza; IDV invece non si sa che linea abbia, in aula uno ha addirittura votato a favore – si dice su ordine diretto di Di Pietro, anche se lui smentisce – e uno è scappato per non votare.

Ma il massimo è stato il comportamento di SEL: il lunedì mattina il suo segretario e capogruppo Curto sui giornali chiedeva un rinvio dell’operazione; il lunedì sera in aula SEL ha votato contro il rinvio da noi formalmente proposto. Mercoledì, dopo settimane che dicevano che la loro richiesta fondamentale era che si vendesse solo il 49%, SEL ha votato contro l’emendamento della Lega che lo proponeva. Peraltro mercoledì Curto non si è nemmeno presentato in aula: era già in viaggio per Cuba, ospite del governo di Fidel. SEL fa regolarmente l’opposto di quello che dice: possibile che nessuno dei loro elettori se ne accorga?

Il PDL, poi, era impegnato a chiedere apertamente a Fassino di cacciare SEL e farsi invece appoggiare da loro. Non scherzo: a un certo punto il capogruppo Tronzano ha detto apertamente “Fassino, se lei caccia SEL noi votiamo la delibera”. Che durissima opposizione!

Capite come, in questo scenario di inciuci e manovrine, dei beni comuni importi veramente a pochi; per molti è più importante evitare ad ogni costo di andare tutti a casa l’anno prossimo, come facilmente accadrebbe se la vendita fallisse, per tenere ancora per un po’ le mani sulla città.

[tags]politica, torino, amiat, trm, privatizzazioni, fassino, sel, pdl, pd, referendum, beni comuni[/tags]

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mercoledì 18 Luglio 2012, 16:25

I referendum anticasta sono una bufala

Negli ultimi giorni sta diventando una valanga: molte persone ci chiedono come firmare i “referendum contro la casta”, o addirittura perché il Movimento 5 Stelle non stia raccogliendo le firme. Per questo vorrei chiarire che questi referendum, allo stato attuale delle cose, sono una bufala!

I referendum che circolano, mirati ad abolire gli stipendi d’oro e le prebende dei parlamentari, sono due: uno, del Comitato del Sole, prevede l’abolizione di quasi ogni prerogativa, mentre l’altro, dell’Unione Popolare, in realtà prevede la sola abolizione della diaria ai parlamentari, che è di circa 3000 euro al mese (moltissimo per noi ma poco per loro, rispetto al totale). Questo secondo referendum lascia particolarmente perplessi quando si scopre che i promotori vengono dall’UDC e che il risparmio ottenuto sarebbe di 39 milioni di euro l’anno, a fronte di un costo di 300-400 milioni per svolgere il referendum.

Il motivo per cui questi referendum sono una bufala è presto detto: il referendum abrogativo è regolato da alcuni articoli della legge 352 del 1970. Basta leggerli per scoprire che:

1) non è possibile svolgere un referendum in contemporanea con le elezioni politiche, e se vengono convocate le elezioni politiche le procedure referendarie vengono sospese e rinviate di un anno (art. 34);

2) è vietato depositare le firme di un referendum nell’anno (solare) precedente a quello delle elezioni politiche (art. 31);

3) le firme si potranno eventualmente depositare dal 1 gennaio (art. 32);

4) le firme devono essere depositate entro tre mesi dall’inizio della raccolta (art. 28).

Tutto questo fa sì che le firme raccolte in questo periodo siano nulle e inutilizzabili; il primo giorno possibile per depositare le firme per un referendum è il 1 gennaio 2013, ma in questo caso, per via del punto 4, sarebbero valide soltanto le firme raccolte dopo il 1 ottobre 2012. In tal caso, comunque, il referendum potrebbe svolgersi soltanto nel 2014 o addirittura nel 2015, se le elezioni politiche fossero successive al 1 maggio 2013 (vedi qui). Si fa molto prima a votare alle politiche dell’anno prossimo per i partiti che si impegnano a tagliare gli stipendi!

Ma allora, perché qualcuno si dà la briga di mettere in piedi una campagna del genere, e una volta avvertito del problema (come avvenuto per entrambi i comitati da diversi giorni) continua bellamente la raccolta? Ognuno lo può ipotizzare da solo.

Può benissimo essere semplice ignoranza, leggerezza o cattiva interpretazione della legge (è già successo anche ad altri); ho conosciuto alcuni ragazzi del Comitato del Sole e mi sono sembrati un po’ ingenui e inesperti ma sicuramente ben intenzionati. Quando invece la proposta viene da persone con un lungo curriculum di attivismo nei partiti, credo sia più legittimo pensare male. E allora faccio notare che anche per i referendum sono previsti i rimborsi elettorali, e che in caso di successo il comitato referendario incasserebbe milioni di euro a cui nessuno dei due ha dichiarato di voler rinunciare; senza parlare della quantità di apparizioni televisive e della pubblicità ottenuta dai promotori.

Ma qui a Torino abbiamo anche un’altra esperienza: ricorderete quel Renzo Rabellino che riesce a far eleggere consiglieri qua e là con coalizioni di liste improbabili, come Grilli Parlanti, Lega Padana e Forza Toro. E’ ormai appurato che molte persone che avevano firmato per presentare petizioni contro il canone Rai o contro le strisce blu – persino personaggi famosi come Luciana Littizzetto – avevano ritrovato la propria firma magicamente apposta sotto le liste elettorali di Rabellino (d’altra parte è difficile immaginare migliaia e migliaia di persone che volontariamente corrono ai banchetti per presentare alle elezioni la lista della Lega Padana Piemont). Del resto, a puro titolo ipotetico, non ci vorrebbe molto a ricopiare dati e firme tra due fogli o a stampare un nuovo testo sul retro bianco di un foglio pieno di firme.

E’ per questo che mi permetto di sospettare che tutte queste centinaia di migliaia di italiani che ora corrono a firmare fogli dal primo che passa per “far finire questo schifo dei politici” potrebbero a loro insaputa, l’anno prossimo, presentare alle elezioni politiche le liste di qualche nuovo partito pieno di riciclati!

[tags]referendum, elezioni, politica, unione popolare, comitato del sole, casta, stipendi[/tags]

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venerdì 13 Luglio 2012, 08:57

Quelli che odiano le bici

Come tanti torinesi, mi capita abbastanza spesso di percorrere in bici via Lagrange e via Accademia delle Scienze: da quando sono diventate pedonali, è l’unico attraversamento nord-sud del centro che non ti abbandoni tra le auto e i tram. Da qualche tempo, davanti al Museo Egizio, l’immancabile cantiere ha invaso gran parte della strada, per cui è necessario andare piano e fare attenzione alle persone.

Da qualche giorno, però, il cantiere si è allargato ulteriormente e all’inizio del tratto in questione è apparso questo:

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Ora, io posso anche essere d’accordo sul fatto che le bici in un passaggio pedonale così stretto siano problematiche; come in altre parti della città, e persino in alcune “piste ciclabili promiscue” (così è, secondo il Comune, il mezzo metro di marciapiede di via Sacchi davanti a Porta Nuova), si può mettere un cartello che imponga la bici a mano.

Qui, però, siamo a un livello di odio per la bicicletta che merita un’accurata analisi (anche in senso clinico). In un solo punto ci sono ben cinque cartelli di divieto alle biciclette, peraltro di tre tipi diversi di cui uno solo regolare. Ma il massimo è il disegnino sulla fascia superiore, che, in uno stile naif che ricorda le incisioni rupestri preistoriche della val Camonica, raffigura una sequenza di piccoli omini e donnine che festosi si tengono per mano, fin che non vengono assaliti dal cattivo e gigantesco mostro-ciclista, rosso di rabbia e di sangue, che li arrota con crudeltà sparandoli via come birilli.

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In attesa di capire come continuerà il ciclo pittorico – mi aspetto che dietro aggiungano la scena in cui il ciclista si nutre della carne dei pedoni, seguita da quella in cui gli omini con le lance infilzano il ciclista e lo cuociono a fuoco lento per vendetta – ho scritto una interrogazione per sapere perché il Comune abbia imposto il divieto di circolazione per le bici e disegnato un simile cartello, che peraltro credo abbia lo stesso identico effetto della richiesta di bici a mano, dato che, a quanto mi risulta, se la bici viene portata e non usata si diventa equiparati ai pedoni.

Certo che questo episodio ribadisce la sensazione che da tempo abbiamo, cioé che a Torino, a parte molte belle parole, si costruiscano piste ciclabili alla bell’e meglio solo per evitare che le bici disturbino le auto in strada, per poi vietare le bici quando si lamentano i pedoni, senza nemmeno preoccuparsi di prevedere un percorso alternativo, dando la netta sensazione che il ciclista sia soltanto un fastidio per tutti.

Nel frattempo, ha fatto scalpore – sta circolando persino sui giornali – la mia annotazione su Facebook relativa al costo delle riparazioni delle biciclette del ToBike dopo l’assalto di un gruppo di dementi che hanno tagliato le gomme a 267 bici. Eppure già da tempo i giornali avevano scritto che il prezzo delle riparazioni era di 30.000 euro; io mi sono limitato a fare una divisione e a scrivere la cifra per bicicletta, ovvero 112 euro. Capisco che i giornali abbiano spesso problemi con la matematica, ma non ci voleva molto…

L’azienda che gestisce “chiavi in mano” il ToBike è la Comunicare srl, che gestisce il bike sharing in molti altri comuni italiani; ha giustificato la cifra con la necessità di cambiare non solo le gomme ma spesso anche i raggi, di provare le bici una ad una, di utilizzare materiali antiforatura e più resistenti della media visto l’elevato utilizzo delle bici, e soprattutto di rimettere in piedi il servizio il più in fretta possibile, mobilitando quindici persone. Il costo è a carico loro e non erano assicurati, dunque per il momento sono fatti loro.

Tuttavia, il prezzo pare comunque elevato; tramite i nostri contatti, noi abbiamo trovato una persona che fa le riparazioni per uno degli altri comuni serviti da questa società, che ci ha assicurato che con 25 euro gli cambia direttamente la ruota. Verificheremo il contratto, e se dovessimo vedere un tentativo di scaricare la cifra sulle casse pubbliche chiederemo conto delle spese; abbiamo comunque già presentato da diversi giorni una interrogazione e attendiamo una spiegazione scritta.

Ah, ovviamente vi chiederete: ma i costi non li pagheranno gli autori del gesto? E’ tutto da verificare; anche costituendosi parte civile per poter chiedere i danni, resta il fatto che gli autori sono stati individuati da un video relativo a una sola delle decine di stazioni del ToBike danneggiate; non ci sono prove che siano loro gli autori di tutti gli altri danni. O le si trovano, o credo che questi se la caveranno con qualche centinaio di euro al massimo…

[tags]bici, mobilità, tobike, danni, cartelli[/tags]

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martedì 10 Luglio 2012, 10:05

Mi manifesto, contro la corruzione

Venerdì scorso, al Palazzo di Giustizia di Torino, si è concluso il processo per l’episodio di tentata corruzione all’Amiat di cui fu vittima Raphael Rossi, a cui fu offerta una mazzetta per non ostacolare l’acquisto di un macchinario del costo di 4,5 milioni di euro che non serviva sostanzialmente a nulla.

Io, con tanti altri cittadini, ho risposto all’appello per essere presente davanti al tribunale prima dell’udienza per una singolare e colorata manifestazione.

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Il problema della corruzione, difatti, è che almeno in Italia è considerata un problema minore. Lo testimonia anche l’esito del processo: nonostante gli eventi siano stati provati, i responsabili dell’azienda che doveva vendere il macchinario sono stati condannati a pene abbastanza lievi, con la condizionale, che andranno senz’altro in prescrizione prima dell’appello (alcune delle accuse si sono già prescritte). I politici e i dirigenti pubblici coinvolti nel processo sono stati assolti, tranne l’ex presidente Amiat Giordano, del PDCI, che aveva già patteggiato una condanna a un anno. Alla fine, non pagherà nessuno.

La corruzione costa alla collettività italiana l’astronomica cifra di 60 miliardi di euro l’anno, una cifra che potrebbe risolvere molti dei nostri problemi economici, ma le istituzioni recuperano solo alcune decine di milioni di euro l’anno. Del resto, la risposta delle istituzioni alla vicenda Amiat è stata sconcertante: invece di essere premiato, Rossi è stato praticamente costretto ad andare via da Torino per poter lavorare. La Città non si è mai costituita parte civile, mentre l’ha fatto l’Amiat, dopo due anni di insistenze e pressioni pubbliche. Nonostante le mozioni del consiglio comunale, la Città non ha nemmeno aiutato Rossi con le spese legali, né promosso la visibilità del processo.

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Per questo venerdì eravamo lì davanti: per ribadire che la corruzione va denunciata e combattuta, e che serve un cambio radicale di rotta su questo tema. Raphael ha costituito l’associazione dei Signori Rossi, che ha iniziato a portare avanti iniziative sul tema. Serve però una presa di coscienza di tutti, perché solo una sorveglianza collettiva può cambiare le cose.

[tags]corruzione, amiat, torino, raphael rossi, processo[/tags]

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mercoledì 4 Luglio 2012, 10:40

Variante 200, la variante che uccide

Di storie incredibili, in un anno in Comune, ne ho viste tante: ma quella che vedete nel video le batte tutte. E’ la storia di una azienda mandata in fallimento dalle scelte urbanistiche e dalla lentezza dell’amministrazione comunale, e più precisamente dalla famosa Variante 200, proprio quella che viene continuamente sbandierata come un meraviglioso progetto di rinnovamento e sviluppo di Torino.

Ho conosciuto Roberto Padoan, il patron di Scubatica, alcuni mesi fa: lui si è rivolto a tutte le forze politiche e autorità cittadine, io sono stato l’unico a rispondere. Mi ha raccontato la storia che sentite nel video: quella di un imprenditore con un progetto innovativo che si indebita per centinaia di migliaia di euro per portarlo avanti, comprando una vecchia fabbrichetta meccanica e investendo sui prodotti.

Tutto va bene fin che non arriva il Comune a dirgli di punto in bianco che, per favorire l’accesso al nuovo quartiere della Variante 200 che devono costruire oltre il suo stabilimento, hanno deciso di allargare la futura via Regaldi rispetto a quanto previsto dal piano regolatore sin dal primo Novecento, nonché di costruire l’immancabile rotonda all’angolo con via Pacini, e dunque gli portano via un bel pezzo di fabbrica.

Senza la fabbrica in cui farli, però, non si possono realizzare i nuovi prodotti; e dunque bisogna fermare tutto e trovare una nuova sede, che però costa, come costa traslocare macchinari di stampaggio alti quattro metri e pesanti tonnellate. Se prima non si vende la sede attuale, non ci sono i soldi per spostarsi; altro credito ovviamente non te ne fa nessuno; ma chi comprerà una fabbrica dimezzata?

Qui entra in gioco il Comune, che suggerisce la seguente soluzione: la Città rende il terreno edificabile per un bel palazzo di otto piani, così gli immobiliaristi lo comprano e Scubatica ha i soldi per spostarsi. Peccato che, nonostante le promesse, nessuno compri, o comunque vengano fatte offerte a prezzo stracciato, insufficiente a pagare anche solo le spese di trasloco.

Il motivo ufficiale è che “il mercato è in crisi”, ma mettetevi nei panni di chi vive di speculazioni immobiliari: Scubatica non può portare avanti il proprio business plan, ma deve continuare a pagare costi, stipendi, mutui per l’acquisto della sede ora inutile; con l’attività ridotta, conseguente alla mancata espansione, non ce la può fare. La vicenda burocratica si trascina per due, tre anni; ogni volta il Comune minaccia l’arrivo imminente delle ruspe – questione di settimane – ma poi c’è sempre un motivo per cui tutto resta fermo. A forza di perdite, Scubatica non può che fallire; e dunque perché darsi la briga di comprare ora, quando si può comprare a metà prezzo tra pochi mesi dal curatore fallimentare?

La cosa pazzesca è che il Comune dovrebbe fare gli interessi di tutti; di chi costruisce, ma anche di chi già si è insediato lì; progettando una trasformazione come questa, dovrebbe comunque difendere chi ci si trova in mezzo. Difatti per prima cosa abbiamo chiesto che l’assessore Curti facesse il proprio lavoro di “moral suasion”; in risposta a una nostra interpellanza, l’assessore aveva detto che tutto andava bene e che le offerte di acquisto del terreno stavano partendo. Abbiamo sollecitato ancora, in questi mesi, e non è successo nulla.

Infatti, quando si tratta di fare una variante al piano regolatore – operazione che, per legge, può essere fatta soltanto nel pubblico interesse, e non per l’interesse di privati – gli operatori immobiliari diventano “partner” che aiutano la “trasformazione urbana”; quando si tratta dei diritti dei cittadini, diventano privati a cui l’amministrazione non può imporre nulla, per colpa naturalmente del “mercato”.

E però, tramite lo strumento urbanistico del “piano particolareggiato”, l’amministrazione può invece imporre a Scubatica e agli altri proprietari di realizzare il progetto della variante, costruendosi da soli i palazzi se necessario, oppure espropriargli i terreni a basso prezzo e in più addebitargli i costi della demolizione e della bonifica dei loro edifici!

In nome dell’ennesima speculazione venduta come grande progetto per il bene di tutti, il Comune considera l’azienda come una vittima collaterale; addirittura, Padoan racconta come i tecnici comunali gli abbiano detto che è colpa sua, che quando si è insediato lì ha effettuato un “incauto acquisto”, perché avrebbe dovuto immaginare che il Comune due anni dopo magari avrebbe voluto allargare la strada…

La Variante 200, al momento, è un morto che parla; Torino è già piena di decine di migliaia di nuovi alloggi vuoti e invendibili – a cui peraltro Fassino, dopo aver spremuto le famiglie e le aziende fino al massimo delle aliquote, ha appena concesso agevolazioni sull’IMU – e anche chi doveva investire in quell’area ora non è più così certo di volerlo fare. La seconda linea di metropolitana è fumo negli occhi, lo Stato ha già negato persino il primo timido finanziamento per le due fermate dal passante ferroviario al San Giovanni Bosco. Vedremo se e quando partiranno dei lavori, ma nel frattempo ci sono già le prime vittime: le persone di Scubatica, messe in mezzo a una strada.

P.S. Per chi fosse interessato, giovedì 19 luglio alle 21 in via Lessona 1/E faremo una serata a tema sull’urbanistica di Torino, spiegando come funziona il piano regolatore e dove sono previste le prossime colate di cemento. Non mancate!

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