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giovedì 8 Settembre 2011, 19:50

La Torino che fa acqua

Una delle conseguenze più appaganti dell’essere consigliere comunale è il poter conoscere in profondità come funziona la città, incontrando persone, gruppi, aziende che lavorano per noi, e potendo fare tutte quelle domande che sempre ci siamo fatti e che non hanno avuto mai risposta.

Stamattina, per esempio, abbiamo visitato la sede Smat di corso Unità d’Italia, dove sono collocati il centro ricerche e i depuratori che rendono potabile l’acqua del Po. E la prima cosa che ci hanno detto è la verità su una storica leggenda metropolitana torinese: ma è vero che alla fontana di piazza Rivoli l’acqua è più buona perché arriva direttamente dal Pian della Mussa?

Ovviamente no; l’acqua è la stessa che arriva a tutte le case della zona, compresa la mia, ma in quel punto le condotte sono particolarmente profonde e questo fa sì che l’acqua che esce dalla fontanella, specie d’estate, sia più fresca del solito. L’acqua pubblica che arriva nelle nostre case è in realtà un mix di tante fonti diverse; quasi il 75% arriva da pozzi di falda, di profondità tra i cento e i duecento metri, situati in varie zone della prima e seconda cintura; poco più del 5% arriva da due sorgenti, ovvero quella famosa del Pian della Mussa e un’altra verso Cumiana; il resto è, appunto, acqua presa dal Po e depurata.

L’impianto di depurazione, e più in generale la quantità di macchinari e di tecnologia posseduti dalla Smat, sono effettivamente impressionanti. L’acqua del Po, prelevata a monte di Moncalieri per essere più pulita e tenuta in riserva in un lago artificiale, viene progressivamente filtrata e ripulita meccanicamente e chimicamente fino a divenire potabile. Ma non finisce qui; sull’acqua di tutte le fonti vengono effettuati controlli di ogni genere, e persino test di gusto da parte di assaggiatori umani, che hanno permesso di migliorare radicalmente il sapore nel tempo – tanto che, complice la crisi, il consumo di acqua in bottiglia a Torino è in picchiata e si spera addirittura di arrivare entro un paio d’anni a un clamoroso sorpasso.

Pensate che uno degli strumenti per controllare costantemente la potabilità dell’acqua è un acquario pieno di cozze collegate a sensori di movimento e di pesci osservati da telecamere; se le cozze cominciano ad agitarsi, o se dalla sala di controllo vedono i pesci venire a galla, vuol dire che l’acqua non è buona e partono le chiamate di reperibilità ai tecnici. Sarà mica anche quello un Cozza Day?

cozzesmat.jpg

Comunque, ho sfruttato l’occasione per abbrancare la dirigenza Smat e porre altre delle domande che tutti ci siamo sempre fatti, ed ecco le risposte che ho ottenuto.

1) Se la vostra acqua comunque sembra sporca, ha cattivo sapore, sembra avere residui di metallo, quasi sempre è colpa delle tubature interne dell’edificio, che spesso hanno decine d’anni e non vengono mai cambiate o ripulite;

2) A Torino non ci sono quasi più condotte in Eternit e man mano le stanno sostituendo, comunque bere fibre d’amianto non è pericoloso, basta non respirarle;

3) Le varie caraffe filtranti in realtà non servono praticamente a nulla dal punto di vista della salubrità dell’acqua, anzi spesso fanno danno perché se non si cambiano i filtri quando previsto essi cominciano a rilasciare nell’acqua ciò che hanno precedentemente filtrato;

4) Smat sarebbe ben contenta di piazzare altre “casette per l’acqua” in giro per la città, le rende disponibili a 2000 euro/anno e fa pagare solo l’acqua gasata, cioè condizioni molto migliori dei privati, anche se così non si ripaga dei costi, che sono sui 20.000 euro a punto;

5) Sappiamo che alla Falchera la falda è alta e probabilmente il problema si risolverebbe pompando via l’acqua, solo che per noi quell’acqua è inutile perché una falda così superficiale non ha dell’acqua abbastanza buona (ma poi depuriamo quella del Po che sicuramente è peggio… mah…)

E poi la madre di tutte le domande: ma adesso, dopo il referendum, abbasserete le tariffe del 7%?

Secondo voi cosa mi hanno risposto?

[tags]acqua, smat, acquedotto, torino[/tags]

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martedì 6 Settembre 2011, 23:01

Loro la crisi non la pagano

So che abbiamo tutti solo voglia di manifestare; so che oggi, in piazza, c’erano tanti amici e tanti simpatizzanti, compresi autorevoli esponenti del Movimento 5 Stelle; so che ci siete andati con ottime intenzioni. Ma una cosa, con affetto, ve la devo dire: io, oggi, mi sono arrabbiato.

Mi sono arrabbiato ascoltando un po’ degli interventi alla radio da parte dei promotori dello sciopero, tutti centrati su uno slogan: “noi la crisi non la paghiamo, perché ci ha già colpito duro”. Ma noi chi? I sindacalisti della CGIL, quelli che per trent’anni hanno impedito qualsiasi rinnovamento del nostro sistema produttivo, mandando a ramengo intere aziende e intanto facendo assumere i parenti o godendo di trattamenti speciali in fabbrica, magari svendendo dei lavoratori pur di mantenere questi privilegi? I pensionati del pubblico impiego, quelli che per tutta la vita hanno goduto di servizi pubblici drogati dal debito scaricato sulle future generazioni, che magari sono andati in pensione a quarant’anni o che hanno una pensione che è più di quello che guadagna un quadro di medio livello lavorando giorno e notte? Fassino – per i giornali torinesi leader della manifestazione – che insieme alla moglie prende 25.000 euro al mese di soldi nostri? Perché erano questi che parlavano oggi ai microfono, che sono adesso sui giornali e alle TV a vantarsi della “grande partecipazione” – e sarebbero questi quelli che non devono pagare la crisi?

Francamente, credo che un No Tav, un giovane precario, un disoccupato, oggi in piazza avrebbero dovuto esserci per fischiarli, non per sfilare con loro. E scusate, certamente anche qui le intenzioni erano ottime, ma non ha nemmeno senso andare in piazza e però fare un corteo separato che va fino a un certo punto ma poi arriva vicino a quello ufficiale ma però non nella stessa piazza (mi ricorda Clinton che ammise di aver fumato spinelli, sì, ma senza mai aspirare). Perchè tanto se siete in piazza i media vi fanno passare per sostenitori della CGIL e se fate casino vi fanno passare per i violenti che cercano di rovinare la grande manifestazione della CGIL.

E comunque, io sogno una situazione molto diversa: sogno una Italia in cui tutti fanno autocritica e dicono “in effetti la crisi un po’ dovrei pagarla anch’io”. Sogno dei sindacalisti che si tagliano i permessi sindacali e che accettano meno garanzie per i lavoratori a tempo indeterminato in cambio di un po’ di protezione in più per i precari. Sogno dei politici che rinunciano da soli alle auto blu e agli stipendi d’oro. Sogno dei pensionati che dicono “prendo 3000 euro al mese di pensione, tagliatemene un po’, così magari possiamo salvare le pensioni di quelli che ne prendono 800”. E ovviamente sogno anche degli imprenditori che dicono “quest’anno rinuncio a un po’ di utile per non licenziare”, dei notai che accettano di liberalizzare la loro professione, dei dipendenti che non si mettono una settimana in mutua se hanno il raffreddore e dei ricchi che dicono “tassatemi pure la seconda casa e la barca”. Follia? Ma come pensiamo di uscirne se non adottiamo una mentalità di questo tipo? Davvero pensiamo che a forza di gridare “noi la crisi non la paghiamo” finiremo per non pagare la crisi?

Ripeto, sono opinoni personali, massimo rispetto se l’avete pensata diversamente. Ma qui è tutta la faccenda che non convince: guardate che Berlusconi è già stato scaricato, ora o tra un anno il tentativo sarà quello di fare un governo Bersani appoggiato da Montezemolo, oppure un governo Montezemolo appoggiato da Bersani, per far fare a loro, con meno tensioni sociali, le stesse misure a cui credevate di opporvi scendendo in piazza oggi; come già successe con Amato e con Prodi. Perchè se c’è una certezza è che, se tutto continua in perfetto stile italico, loro la crisi effettivamente non la pagheranno. A noi, temo, non andrà così bene.

[tags]sciopero, cgil, sindacato, protesta, politica[/tags]

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domenica 4 Settembre 2011, 19:31

Guidare negli Stati Uniti (5) – Fare benzina

Lo so che pensate che gli americani, in materia di auto, siano stupidi; tutti ci siamo chiesti che cosa li spinga a comprare delle auto inutilmente grosse e pesanti, che consumano come un carro armato. E’ davvero impressionante osservare le auto per le strade americane; se nelle città si trovano generalmente auto come le nostre, solo più lunghe e pesanti, fuori città quattro auto su cinque sono SUV o pickup, alcuni talmente grossi da avere sei ruote (quattro sullo stesso asse posteriore) per aumentare la portata. Anche i camper sono giganteschi, grossi spesso come i nostri TIR – e più di una volta mi è capitato di incrociare un camper con attaccata dietro, al traino… un’auto per le piccole gite!

Va detto che negli Stati Uniti, a parte la costa est, i veicoli fuoristrada hanno un certo senso. Il territorio è molto meno densamente abitato che da noi, e vi sono ovunque grandi estensioni di praterie, foreste, montagne e deserti in cui le strade sono spesso sterrate, anche in posti molto turistici. In più, come abbiamo detto, gli americani sono pessimi guidatori, piuttosto paurosi e comunque abituati ad avere strade lisce e curate, dunque spaventati quando non lo sono.

Se non ci credete, leggete le recensioni della Monument Valley su TripAdvisor: tutti gli americani si lamentano che quei maledetti indiani Navajo – la cui considerazione da parte dell’americano medio è simile a quella che l’italiano medio ha per i rom – essendo i proprietari del parco non riparano la strada, che è “impercorribile” perché la sua prima parte, giù per una collina con un paio di tornanti, viene lasciata sterrata e piena di enormi buche, in modo da poterla percorrere solo coi veicoli speciali dei tour a pagamento.

Ora, io mi ci sono avventurato con la mia macchinina giapponese a noleggio e francamente le buche non sono peggio di quelle di certe strade di Torino, pur col fondo in terra battuta invece che in asfalto; se poi parliamo di una qualsiasi strada sterrata o ghiaiosa delle nostre colline e montagne, piena di gradini, rocce che spuntano, fossi… rispetto a quelle la Monument Valley è un’autostrada.

Insomma, l’americano ha comunque dei motivi per dotarsi di un veicolo 4×4 con ruote alte, in parte perché è mediamente più pauroso a guidare di noi, e in parte perché si trova più spesso su strade non asfaltate, e anche in mezzo a piene improvvise, tornado, nevicate di tre metri… anche il tempo americano è un po’ diverso. Ma non lo farebbe se non ci fosse un elemento fondamentale: il prezzo della benzina.

Noi avevamo i soldi abbastanza contati, e dunque io ogni sera consultavo il mitico Gasbuddy.com (è un peccato che la sua versione italiana non prenda troppo piede) per scoprire dove trovare benzina a buon prezzo; alla fine, ho pagato il carburante prezzi variabili dai 3,359 ai 3,999 dollari a gallone, ovvero 60-70 centesimi di euro al litro, meno della metà che da noi. (Certo, se fate l’errore di arrivare senza benzina nella Death Valley, dove ci sono solo due distributori nel raggio di oltre cento chilometri, preparatevi a pagarla ben oltre cinque dollari al gallone… il mercato non perdona.) Ma gli americani sono comunque furiosi perché la benzina è diventata mostruosamente cara: rispetto a due anni fa è quasi raddoppiata! Aggiungeteci che buona parte del petrolio mondiale sta sotto il loro terreno, e capite come mai non si siano mai fatti problemi a consumarlo; ancora quest’anno, io sono riuscito a percorrere quasi 7000 chilometri con circa 400 euro di benzina.

Anche fare benzina, in America, ha delle particolarità che bisogna sapere, sin da quando entrate in un distributore. Ricordate infatti che le pompe americane sono molto più corte delle nostre, per cui è obbligatorio che vi fermiate con il tappo del serbatoio dal lato della pompa e proprio davanti ad essa. Non fate come me nel 2007, che mi sono messo davanti alla pompa, ho fatto accreditare 40 dollari, e poi mi sono accorto che il serbatoio era dal lato sbagliato e ho dovuto fare manovra e inversione in mezzo al distributore con un bel macchinone americano, tra gli altri che facevano benzina, facendo a portellate con un coreano per evitare che si piazzasse lui alla mia pompa e mi fregasse i 40 dollari!

Infatti, in qualsiasi modo si faccia benzina, negli Stati Uniti non esiste che il serbatoio venga riempito prima di avere pagato! Il modo più comune di fare benzina è in contanti, in biglietti da massimo 20 dollari. Negli Stati Uniti solo i papponi e gli spacciatori usano i biglietti di taglio superiore a 20, per cui evitate di farveli rifilare dalla vostra banca; il modo migliore per procurarsi i dollari è avere un bancomat italiano con il logo Cirrus/Maestro e prelevarli sul posto, anche se il miglior tasso di cambio lo avrete pagando tutto con carta di credito.

Comunque, dopo aver parcheggiato la macchina davanti alla pompa, dovete scendere e dare i soldi al cassiere; se volete fare il pieno, fate una stima di quanta benzina ci può stare e arrotondate la cifra ai 10-20 dollari successivi. Il benzinaio, negli Stati Uniti, non esiste più da un pezzo, e le pompe sono self-service, comandate a distanza da un cassiere che sta dentro a un gabbiotto blindato, dialogando con voi tramite un microfono e scambiando i soldi tramite un cassetto mobile; in alternativa, il cassiere sta dentro l’immancabile supermercatino aperto 24 ore su 24, che è anche un’ottima risorsa per bibite e cibo di emergenza, e in qualche caso sta persino alla cassa di un adiacente fast food. Mentre gli date i soldi, ditegli il numero della pompa; il cassiere a quel punto abiliterà la vostra pompa ad erogare fino alla cifra che gli avete dato.

A questo punto potete ritornare alla pompa e fare benzina; per prima cosa dovete selezionare quale carburante volete, premendo uno dei pulsanti per scegliere tra tre diversi gusti di benzina (regular, medium e premium), che differiscono per potenza e additivi vari, o eventualmente il diesel, che però è piuttosto raro e costa pure di più; poi potete estrarre la pistola e rifornire. Io sono rimasto fregato (due volte!) da un vecchio tipo di pompa, che non ha il pulsante per selezionare il tipo di benzina; in queste pompe bisogna prendere la pistola e poi sollevare verso l’alto la base su cui essa normalmente sta appoggiata. Se alla fine non ci sta tutta la benzina che avete pagato, come è normale se fate il pieno, non preoccupatevi; lasciate lì la macchina, tornate dal cassiere e chiedetegli il resto. Non preoccupatevi, anche qui, come per lo stop a quattro vie, gli americani sono abituati ad attendere con pazienza, anche se magari davanti alle pompe c’è una lunga coda.

L’unico caso diverso che ho incontrato è in Oregon, la già citata provincia profonda, in cui una legge dello Stato vieta agli automobilisti di farsi benzina da soli (troppo tonti? concorrenza sleale con i benzinai “serviti” quando esistevano ancora?). In quel caso, c’è presso le pompe un benzinaio che si fa dare i soldi (o in alternativa vi grida “pay inside” per mandarvi dal cassiere dentro il gabbiotto) e poi vi rifornisce.

Vi stupirete forse che negli Stati Uniti non esistano come da noi i distributori automatici che leggono direttamente le banconote; in realtà non esiste praticamente il concetto di lettore automatico di banconote, perché tutti hanno in tasca una carta di credito e dunque è molto più comodo svolgere le transazioni automatiche con quella. Esistono solo le macchinette venditrici di bibite e cibarie a moneta; l’unica macchinetta che prendesse banconote che io abbia visto era quella per i biglietti del tram di Phoenix, che nell’ottica americana è un servizio per barboni e clandestini e dunque può anche darsi che una volta ogni tanto si presenti qualcuno con delle banconote, anche perché se avesse in tasca una carta di credito sarebbe invece andato a noleggiare un’auto.

Comunque, un certo numero di distributori dispone del “pay at pump”, che vi permette di pagare alla pompa, senza dover andare dal cassiere, con una carta di credito o di debito. Il problema è che spesso la procedura vi richiede di inserire il PIN o peggio ancora il vostro ZIP code (codice postale), e difficilmente funziona con una carta italiana: dunque la benzina è una delle pochissime cose che ho sempre pagato in contanti. Se il sistema americano vi pare strano, c’è di peggio; in Islanda esistono praticamente solo distributori automatici non presidiati che accettano solo la carta di credito richiedendo il PIN… niente carta o niente PIN uguale niente benzina.

Negli Stati Uniti le distanze sono enormi; non sottovalutate il problema della benzina o rimarrete senza, magari a cinquanta chilometri dalla pompa più vicina!

[tags]guida, auto, stati uniti, benzina, carburante[/tags]

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sabato 3 Settembre 2011, 12:14

Guidare negli Stati Uniti (4) – Segnali e precedenze

Le puntate precedenti sono state pubblicate il 28, 29 e 30 agosto.

I segnali americani non vi sconvolgeranno più di tanto, perché sono piuttosto semplici e, a patto di conoscere bene l’inglese, facilmente comprensibili. E’ solo dopo un po’ di tempo che vi accorgerete che sono piuttosto diversi dai nostri.

Girando per l’Europa, i cartelli non cambiano; al massimo sono diversi i tipi di carattere e i dettagli dei disegni. Negli Stati Uniti, invece, dei nostri segnali ne sopravvivono molto pochi; in sostanza, lo stop, il dare la precedenza, il senso unico e il senso vietato. Esistono poi i limiti di velocità, che sono un rettangolo con scritto “SPEED LIMIT” e la cifra, e i segnali di pericolo, che però non sono triangolari, ma gialli e romboidali; alcuni hanno al centro un disegno che illustra il tipo di pericolo, diverso dai nostri ma non troppo da non essere riconoscibile, ma molti hanno semplicemente una scritta. Non esistono invece i segnali di direzione obbligatoria, se non il divieto di svolta (quello rotondo con la direzione della curva sbarrata, che da noi è stato abolito una dozzina di anni fa).

La scarsità di segnali grafici è il risultato di una scelta culturale radicalmente opposta alla nostra. Da noi, i segnali sono “muti”, codificati appunto secondo uno standard grafico che richiede di essere studiato quando si prende la patente; senza tale studio, non si avrebbe modo di sapere cosa vuol dire quando si trova il triangolo rovesciato della precedenza o il cerchio sbarrato del senso vietato. Al contrario, negli Stati Uniti la logica è che il cartello deve essere comprensibile anche a chi non ha studiato o non si ricorda le lezioni, all’unica condizione che parli la lingua nazionale (l’inglese).

Per questo motivo, anche i pochi segnali grafici sono sottotitolati; su tutti i segnali di senso vietato c’è scritto “DO NOT” sopra e “ENTER” sotto la barra bianca; su tutti i triangoli per dare la precedenza c’è scritto “YIELD”, e peraltro sono molto più rari dello “STOP” ottagonale, che è ubiquo; sulle frecce oblunghe del senso unico c’è scritto “ONE WAY”. Come detto, i segnali di pericolo sono più spesso scritti che disegnati; dove noi avremmo il cartello triangolare col disegno del dosso, trovate un rombo con scritto “BUMP” o “DIP”; alle strettoie c’è scritto “ROAD NARROWS”; dove la strada è dissestata c’è scritto “ROUGH ROAD” o “LOOSE GRAVEL”.

I cartelli di direzione illustrano bene una delle caratteristiche della segnaletica americana, quella di essere più scarsa della nostra. Ad ogni incrocio tra strade a senso unico, noi abbiamo solitamente un cartello di preavviso delle direzioni consentite (tondo blu), spesso ripetuto su entrambi i lati della strada, poi all’incrocio un segnale rettangolare orizzontale di senso unico all’inizio delle direzioni consentite, e un segnale di senso vietato in quelle non consentite. Troppa grazia! A San Francisco, in molti incroci dentro i quartieri l’unica indicazione del fatto che la traversa è a senso unico è un segnale rettangolare di “ONE WAY”, posizionato però dal lato opposto rispetto a noi, cioè quello in cui non si può andare. I segnali di senso vietato sono usati con parsimonia e soprattutto in situazioni “frontali”, cioè in cui c’è del traffico che arriva di fronte e altrimenti proseguirebbe contromano (in generale, ci sono meno strade a senso unico che da noi). In compenso, negli incroci più trafficati – dove peraltro si capisce di non poter svoltare in una direzione semplicemente dall’assenza della relativa corsia – spesso c’è una scritta “NO LEFT TURN” o “NO RIGHT TURN” che ribadisce il concetto.

Anche la precedenza è interpretata in maniera piuttosto diversa. E’ piuttosto raro che si arrivi a un incrocio senza che vi siano segnali di precedenza, proprio perché il concetto di “precedenza a destra” è un’altra cosa che bisogna sapere e che non è desumibile semplicemente leggendo i cartelli. Ci sono mediamente più semafori, almeno nelle città; molte città sono costituite da grandi isolati (blocks) delimitati da strade che hanno un semaforo a ogni singolo incrocio, e al loro interno hanno soltanto stradine residenziali, spesso senza uscita, che si immettono su quella grande con uno stop. (Sono, in sostanza, costruite a isole; uno naviga nel mare aperto della città fino all’ingresso della sua isola, che nei quartieri ricchi può avere anche un cancello e una guardia, e poi vi entra per cercare la singola casa; questo riflette una società in cui ricchi e poveri convivono gomito a gomito, ma stando ben attenti a far finta di non conoscersi.)

E poi, c’è la grande invenzione americana dello “stop a quattro vie”, che è quasi onnipresente all’interno delle singole isole, ossia nelle zone residenziali dove il traffico non giustifica il mettere un semaforo ad ogni incrocio. Alla mia prima visita negli Stati Uniti rimasi completamente basito, arrivando a un incrocio e trovando il cartello ottagonale di stop messo su tutte e quattro le direzioni di accesso… che vuol dire?

Noi siamo abituati a considerare il segnale di stop come un dare la precedenza un po’ più autoritario; non solo devi dare la precedenza, ma devi anche fermarti perché l’incrocio è pericoloso. Negli Stati Uniti, invece, lo stop indica di fermarsi ma non necessariamente di dare la precedenza; la precedenza va data solo se la strada da cui arrivano le altre auto non ha essa stessa uno stop. Se invece anche loro hanno lo stop – cosa che si può dedurre perché guardando si vede l’inconfondibile forma ottagonale del cartello, anche se a rovescio, e perché generalmente sotto il tuo stesso stop c’è scritto “4-WAY” o “ALL-WAY” – conta l’ordine di arrivo sulla riga bianca tracciata sull’asfalto; si occupa l’incrocio uno per volta (due solo in casi eccezionali, se le due traiettorie non si sfiorano nemmeno) e si aspetta che chi passa sia uscito dall’incrocio per passare al successivo veicolo in ordine di arrivo.

In realtà, è un metodo molto intelligente; è sicuro, perché tutti si devono fermare e nessuno abborda l’incrocio ad alta velocità pensando di avere diritto di passaggio; in caso di traffico, dato che conta il momento in cui il singolo veicolo arriva sulla riga bianca (e non quello in cui si accoda), si passa a turno uno per volta da ciascuna delle quattro vie, evitando quelle situazioni in cui immettersi dalla strada che non ha precedenza è difficoltoso e si forma una lunga coda; se devi girare a sinistra, non stai lì ad attendere una vita che siano passati tutti, ma passi anche tu secondo ordine. Ha l’unico problema che è un metodo lento, perché ci si deve fermare, perché passa un veicolo per volta e perché ogni volta c’è un attimo di suspence da western per capire chi è il prossimo che passa, cosa che in incroci un po’ grossi può non essere immediatamente evidente a tutti. Noi italiani, fidatevi, finiamo per passare velocemente perché siamo abituati a buttarci in mezzo al traffico per riuscire ad immetterci, il che ci dota di riflessi molto migliori di quelli degli americani.

In generale, gli americani hanno una concezione dello spaziotempo al volante molto diversa dalla nostra. Una volta mi sono trovato a Los Angeles su un vialone, sulla corsia più a sinistra di tre, improvvisamente bloccato dietro a un tizio fermo prima di un incrocio con la freccia a sinistra, accanto allo spartitraffico. L’incrocio era senza semaforo, vuoto, e non arrivava nessuno né nel senso opposto, né dalla strada laterale. Ho cominciato a bestemmiare pensando che il tizio avesse accostato lì, nel bel mezzo della carreggiata, per farsi i fatti propri, o magari per aspettare qualcuno – come sarebbe stato da noi. Ho aspettato che passasse il traffico e poi ho cambiato corsia per aggirarlo, bestemmiando… e ho capito.

In pratica, il tizio doveva girare a sinistra, ed è vero che non c’erano macchine in vista se non nella nostra direzione; ma là dall’altra parte, oltre la siepe, oltre le quattro corsie in direzione opposta, oltre la fila di auto parcheggiate, sul bordo del marciapiede c’era un pedone che sembrava voler attraversare sulle strisce la strada laterale in cui lui voleva svoltare. E dunque, lui non poteva occupare l’incrocio fino a che tutto quello che doveva passare con precedenza, compreso il pedone sulle strisce, si fosse tolto di mezzo.

Da noi, l’auto avrebbe svoltato di corsa per non rischiare di perdere il momento di tregua sul viale nella direzione opposta, e poi, se gentile, si sarebbe fermata un po’ in mezzo tra la strada e le strisce, facendo passare il pedone; più facilmente, sarebbe passata di corsa anche sulle strisce, intimando al pedone di non muoversi. Da noi è normale attraversare in stile Frogger, per cui, se un pedone attraversa sulle strisce, le auto ferme in attesa (nel raro caso in cui si siano fermate) cominciano subito a passargli dietro o davanti, a venti centimetri dal naso o dalle spalle, non appena si è liberato un varco sufficiente. Se lo faceste là, persino a Los Angeles – città dal traffico tremendo, dove ovviamente si guida un po’ più sportivo e ho persino sentito suonare il clacson un paio di volte – sareste considerati dei probabili serial killer.

Almeno, però, avete capito come fanno a crearsi quegli ingorghi giganteschi: ottimizzando le regole per la sicurezza anziché per la velocità, la portata del sistema diminuisce. Da noi sarebbero tutti subito infuriati, ma basterebbe dotarsi di pazienza…

[tags]guida, auto, stati uniti[/tags]

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venerdì 2 Settembre 2011, 13:23

La politica e la casa

Ultimamente odio la politica, non solo quella della casta ma anche quella di certi colleghi, per cui il problema fondamentale del momento è se Grillo faccia o meno togliere i video da Youtube o come organizzare la fronda contro il famigerato Casaleggio.

La odio perché so che i problemi veri sono altri; per esempio, dopo la vicenda dell’anziano senza casa morto in macchina a Lanzo, ora finalmente i giornali si accorgono che non è un caso isolato. A Torino – a tre isolati da casa mia, in una zona che si vanta spesso di non avere i problemi di Barriera o di Porta Palazzo – una intera famiglia, due anziani e figlia trentenne, vive in un parcheggio sotterraneo dopo lo sfratto (la storia intera è qui).

E’ la crisi che avanza; in passato, vi si è sempre fatto fronte con il blocco forzoso degli sfratti, scaricando il costo dell’assistenza sui proprietari. Ora però questo non è più possibile, perché sempre più spesso i proprietari hanno bisogno del reddito della casa per sopravvivere o per aiutare a sopravvivere i propri figli, e talvolta ne hanno bisogno perché sono loro stessi finiti in mezzo a una strada.

Rispondere è non solo possibile, ma doveroso. Nel caso della famiglia di via Lera, ad esempio, il problema è duplice: queste persone hanno un reddito, ma non riescono a mettere insieme i soldi per la caparra di un nuovo alloggio; inoltre, sono in attesa dei tempi burocratici per ottenere un assegno di invalidità.

Il Comune – invece di rispondere, come hanno fatto le assistenti sociali, che la casa non è una competenza del loro ufficio – può farsi carico di assistenza temporanea; magari non è nemmeno questione di soldi, ma di aiutare persone poco esperte a trovare e gestire l’ingresso in un nuovo alloggio. Servirebbe un ufficio che, previa la massima trasparenza, possa dare su due piedi piccoli aiuti pratici o economici a persone che si trovano all’interno di una serie di condizioni predefinite – senza casa e senza lavoro, innanzi tutto anziani, senza dipendenze e senza pendenze penali.

Resta comunque la questione di fondo: ha senso che a Torino esistano 50.000 alloggi vuoti e contemporaneamente persone che letteralmente muoiono di stenti per strada? Ovviamente no, ma domanda e offerta non si incontrano; il Comune, pur provandoci, non ha soldi per pagare affitti anche calmierati per tutti quelli che non hanno una casa (e tantomeno per costruire un numero apprezzabile di case popolari); i proprietari, in assenza di offerte di mercato, preferiscono tenere sfitte le case proprio per la paura di non riuscire più a cacciare gli inquilini, e per i nuovi quartieri c’è anche la paura di “svalutare la zona” accogliendo inquilini squattrinati.

Nel lungo periodo bisognerebbe arrivare, a livello nazionale, a una legge che permetta di recuperare forzosamente almeno gli stabili lasciati in abbandono, che già sarebbero sufficienti a tamponare l’emergenza. Nel breve, quel che si può fare è assumersi ognuno la propria responsabilità; i proprietari potrebbero arrivare ad accettare affitti stracciati in cambio di garanzie assicurative su possibili danni e legali sugli sfratti; le fondazioni bancarie potrebbero metterci dei soldi. Il Comune dovrebbe essere efficiente nell’individuare e gestire i singoli casi, nel fornire soluzioni tampone per i periodi di passaggio, nel sollecitare le altre istituzioni a fare la propria parte.

Non è che non si faccia già, ma la dimensione del problema è destinata ad esplodere; o ci attrezziamo, o finiremo presto come negli Stati Uniti, dove in molte piazze e giardini delle città ci sono più barboni che foglie per terra.

[tags]politica, casa, torino, movimento 5 stelle, sfratti, edilizia, assistenza, povertà[/tags]

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giovedì 1 Settembre 2011, 18:10

Fassino bum bum e la chiusura di Porta Nuova

Come sapete, il consiglio comunale di Torino è ancora in ferie; l’ultima commissione si è riunita il 29 luglio e la prossima sarà lunedì mattina. L’Italia, tuttavia, non si ferma, e nemmeno apprezza queste cinque settimane di ferie; e allora, che fare?

E’ semplice: basta far finta di lavorare, e anzi sfruttare la mancanza di notizie politiche per occupare i giornali amici con la classica “politica degli annunci” imparata da Berlusconi: ogni giorno, a turno, spararne una grossa per ottenere l’agognata “visibilità”. E così, Fassino e i suoi assessori da alcuni giorni si danno il cambio ad annunciare di tutto un po’.

Il punto più basso – mi ha fatto veramente incavolare – l’ha toccato secondo me l’assessore allo Sport Gallo, che sabato scorso è passato con un lungo servizio al TGR Piemonte nel quale si raccontava come egli, a nome della Città, abbia donato un “kit” al velista professionista Marco Nannini, reduce da un fantozziano disalberamento dopo sole due ore di gara nel Rolex Fastnet 2011, per accompagnarlo nelle sue prossime competizioni. E io a chiedermi: ma con tutte le volte che mi avete detto che non ci sono i soldi per l’assistenza, per le strade, per i servizi, ma perché dobbiamo spenderne (anche pochi, la quantità non importa) per fare un regalo a un ex banchiere della City, che manco risiede a Torino, e che di mestiere gira gli oceani… solo perché così l’assessore può passare per due minuti al telegiornale?

La sparata più grossa tuttavia l’ha fatta il sindaco, annunciando di avere deciso di chiudere la stazione di Porta Nuova per farci, indovinate un po’, un centro commerciale, seguito da palazzine nello spazio occupato dai binari. A parte la scarsa fantasia, io mi sarei aspettato che una decisione del genere fosse perlomeno discussa col consiglio comunale prima di essere annunciata, anche perché non mi pare di averla letta nel programma che Fassino ha presentato solo a luglio. Evidentemente Fassino considera i consiglieri comunali della sua maggioranza degli yes-men, dando per scontato che, se lui così vuole, loro pigeranno i pulsanti per approvare senza aprire bocca; e ritiene, come da abitudine del PD, che il dialogo con l’opposizione e le relative procedure democratiche siano un fastidio inutile.

Ora, esaminiamo meglio nel dettaglio questa sparata. C’è qualche problemino tecnico: si dice che i treni che ora partono e arrivano da Porta Nuova (stazione con venti binari) partiranno invece da Porta Susa e Lingotto. Peccato che Porta Susa abbia solo sei binari, e che siano già ampiamente prenotati per il traffico attualmente previsto (ricordate che per una decina d’anni, secondo questa gente, dovrebbero pure passarci le famose millantamila tonnellate di merci provenienti dal Tav Torino-Lione).

L’idea sarebbe allora di far partire e arrivare i treni a Lingotto, per fermarsi a Porta Susa giusto il tempo per caricare i passeggeri. Ora io lo voglio proprio vedere, un bel Torino-Lecce estivo che deve caricare tutti in un minuto per liberare il sotterraneo di Porta Susa; e poi, se il treno va a Genova o a Piacenza o a Savona o a Modane cosa fa, parte da Lingotto, va a Porta Susa e poi torna indietro? Ma anche così facendo, Lingotto ha comunque solo quindici binari, già in buona parte utilizzati. Dove li mettiamo i treni di Porta Nuova?

Capite insomma che questa gente parla senza sapere? L’unico scenario in cui una roba del genere può stare in piedi è quello in cui si elimina la gran parte del traffico ferroviario di medio-lungo raggio da e per Torino, lasciando solo i treni suburbani e l’alta velocità, e privando la città dell’ottimo servizio – sia per il traffico business che per i turisti – di una stazione a distanza di camminata da tutto il centro.

In compenso, così gli amici potranno realizzare una grande speculazione edilizia e commerciale, usufruendo oltretutto di costosi servizi pensati per la stazione – la metropolitana, il tram 4, il parcheggio sotterraneo per il quale hanno anche abbattuto l’alberata di via Sacchi – mentre noi dovremo pagare di nuovo per ricrearli a Lingotto, la stazione più irraggiungibile della città.

C’è davvero da sperare che sia solo una sparata estiva per finire sul giornale… nel dubbio, però, abbiamo prontamente presentato due interpellanze (qui e qui) e vediamo che spiegazioni tireranno fuori.

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mercoledì 31 Agosto 2011, 18:37

La verità sulla situazione economica dell’Italia

Non volendo piangere, è inevitabile mettersi a ridere per le continue giravolte del governo Berlusconi in materia di manovra finanziaria. Prima volevano tassare i ricchi e tagliare i fondi ai Comuni, poi i ricchi si sono incazzati e i sindaci sono scesi in piazza e allora hanno deciso di eliminare invece il riconoscimento degli studi ai fini pensionistici, ma in due giorni si è creata una tale ondata di lamentele che si sono rimangiati pure quello. E’ chiaro che non sanno dove sbattere la testa per trovare 40 miliardi di euro, non volendo mettere mano seriamente all’unico capitolo dove ci sarebbe ancora qualcosa da tagliare – i costi della politica e delle sue clientele, sia in termini di regalie che in termini di posti di lavoro.

A ben vedere, però, è proprio il caso di mettersi a piangere; è giusto criticare il governo, ma onestamente quali alternative ci sono sul piatto? La contromanovra del PD è evanescente, ed è stata già distrutta persino sul giornale di famiglia, Repubblica, dal buon Tito Boeri; se va bene il PD recupererebbe 4 miliardi, non 40, e perdipiù a forza di nuove tasse.

Il primo passo è ovviamente quello di cacciare tutti questi cialtroni e tagliare il costo della politica; dimezzare i parlamentari, eliminare le province… fanno alcuni miliardi di euro, non di più. Rinegoziare le privatizzazioni, i sussidi e le concessioni pubbliche date a condizioni di favore, cacciare i dirigenti incompetenti e mettercene di capaci, e poi tassare i capitali evasi rimasti all’estero e lanciare una campagna contro l’evasione fiscale, fermare le grandi opere inutili, far pagare le tasse alla Chiesa, e tutte le altre cose elencate nel (più che condivisibile) post di Grillo… ok, dai, così 40 miliardi li troviamo… magari ne troviamo anche 100.

Peccato che il nostro debito pubblico sia di circa 2000 miliardi di euro; peccato che solo l’aumento degli interessi che dovremo pagare sui nostri titoli di Stato, nelle ultime aste, si sia già mangiato in pochi giorni i 40 miliardi che stiamo ammazzandoci per recuperare. Mi spiace dovervi dare una cattiva notizia, ma qui siamo messi straordinariamente male.

Io sono preoccupato non solo per la situazione, ma perché si sta diffondendo per la rete e per le strade una furiosa euforia irreale, un piano d’azione che dice “attiviamoci, occupiamo le piazze a oltranza, cacciamo tutti i politici con i forconi, poi andiamo al potere, togliamo i soldi ai ricchi che li hanno rubati, cambiamo le regole dell’economia e potremo tutti tornare allo stile di vita di vent’anni fa”. Scusatemi per la lunghezza, ma voglio proprio fare una analisi approfondita di questo piano d’azione.

Innanzi tutto, in Italia non si sono mai viste rivoluzioni di piazza che abbiano avuto successo. Al contrario, nelle situazioni di disordine c’è sempre stata una reazione dell’italiano medio che ha portato al potere regimi autoritari e corrotti; agli scioperi dei primi anni Venti è seguito il fascismo, agli anni ’70 Craxi e agli anni ’90 Berlusconi. Tutto fa pensare che quel che sta succedendo ora sia solo un altro cambio della guardia, programmato colà dove si puote e legato non solo alla nostra spesa pubblica fuori controllo, ma al tentativo di Berlusconi di smarcarsi dal guinzaglio euroatlantico e di coltivare amicizie pericolose tra Mosca e Tripoli. Ve lo dico, così state accuorti.

Comunque, supponiamo invece che l’indomito popolo italiano prenda le piazze e riesca a mandare al potere un nuovo gruppo dirigente (nuovo davvero, non il figlioccio e sodale dei maggiori esponenti italiani del club Bilderberg). Ok, adesso abbiamo 2000 miliardi di euro da pagare e che non ci fanno più credito se non ne restituiamo almeno una bella fetta, che facciamo? Niente paura, il piano dice “togliamo i soldi ai ricchi che li hanno rubati”.

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La prima opzione è fare un bel collettone – ma chi ha soldi da tirar fuori? Tassiamo i patrimoni immobiliari? In teoria gli italiani possiedono 6000 miliardi di euro in case: facciamo che ognuno di noi paga allo Stato una cifra pari al 20% del valore delle proprie case? Ok, tu che possiedi un appartamentino in città (che comunque vale, a seconda della città, dai 100 ai 300 mila euro), ereditato dai tuoi o magari comprato con un mutuo che ti stai strozzando per pagare, domani mattina mi devi versare sull’unghia 20-60 mila euro, ok? Tanto li hai lì, no? No?

Ok, la facciamo pagare solo ai ricchi, però – in un paese in cui quasi tutti possiedono almeno una casa se non due – a questo punto l’aliquota sui ricchi deve salire al… 90%? Facciamo che requisire le ville ai ricchi? E anche se lo facessimo, poi dobbiamo trasformarle in soldi… chi le compra, e quanto riusciremmo veramente a realizzare, in un mercato immobiliare già saturo e improvvisamente inondato di case?

Va bene, realisticamente dalle case non si può tirar fuori che qualche decina di miliardi una tantum; allora tassiamo i conti in banca… ops, il totale dei depositi bancari in Italia è solo di 750 miliardi di euro, nemmeno azzerandoli tutti ripagheremmo il debito; e poi, per via del meccanismo della riserva frazionaria, le banche mica hanno lì 750 miliardi pronti da dare allo Stato.

Gli italiani dispongono se mai di un significativo patrimonio mobiliare in titoli, ma è investito soprattutto in… ops, titoli di Stato? Magari titoli di Stato di paesi messi poco meglio di noi o magari anche peggio? E anche qui, per poter chiedere agli italiani una fetta di questi soldi bisogna che prima gli italiani li vendano, e quanto riuscirebbero a incassare in una situazione del genere, costretti a svenderli di corsa ad investitori stranieri?

Incidentalmente, in tutto questo c’è comunque un assunto che disturba, cioè che non ci debbano essere remore nel tassare pesantemente i grandi patrimoni perché tanto “li hanno sicuramente rubati”. E’ ovvio che in una situazione di crisi la tassazione debba essere progressiva, colpendo di più chi non ha problemi ad arrivare a fine mese, ma l’Italia è piena di persone che si sono arricchite onestamente col proprio lavoro, spesso dando anche lavoro agli altri. Uno di questi peraltro è Beppe Grillo, dunque se pensate che tutti i ricchi siano ladri forse avete sbagliato movimento.

A questo punto è chiaro che non è realisticamente possibile per noi ripagare il nostro debito. Veniamo dunque alle maniere forti, ovvero “cambiamo le regole dell’economia”: una combinazione di 1) non ripagare i debiti e 2) ripudiare in tutto o in parte le regole dell’economia occidentale.

Un buon modo per non ripagare i debiti è farli pagare agli altri, ad esempio facendoci sovvenzionare da tedeschi e francesi (o dal Fondo Monetario Internazionale) o trasformando il nostro debito in Eurobond garantiti da loro, contando sul ricatto di “se no falliamo e vi va ancora peggio”, o rinegoziando il credito verso di loro, stile Argentina. Può darsi che funzioni, ma scordatevi che Merkel e soci lo facciano col sorriso sulle labbra e senza chiedere niente in cambio. Chiederanno appunto tutte quelle misure per cui critichiamo Berlusconi: licenziamento di dipendenti pubblici, taglio alle pensioni passate e future, chiusura di servizi pubblici. D’altra parte, se a voi chiedessero di tirar fuori 500 euro per permettere a greci o portoghesi di continuare a vivere a debito, cosa rispondereste?

Un altro modo per non ripagare i debiti è fallire e basta, dire ai creditori “sai che c’è? non ti pago” – magari pure in modo selettivo, cioè prima ripago i cittadini italiani che avevano in mano i miei BOT, e poi se avanza qualcosa per banche e governi stranieri vediamo. In questo si inserisce il filone “nazionalizziamo le banche e non paghiamo i debiti esteri come ha fatto l’Islanda”, che francamente continuo a non capire.

L’Islanda non ha certo nazionalizzato le banche perché vuole passare ad una economia socialista in stile Venezuela, ma perché l’alternativa era che fallissero portandosi con se i risparmi di tutta la nazione. Non c’è niente di sovversivo in questo: l’ha fatto pure, anche se parzialmente, Obama con Bank of America (la più grande banca americana). Anche la maggior parte delle banche italiane sono in rosso: nazionalizzare queste banche vorrebbe dire accollarsi altri debiti, non certo arricchirsi.

L’altro punto, però, è che l’Islanda non ha pagato i debiti esteri DELLE BANCHE, non i propri. E a buon diritto: ha detto ai creditori stranieri “voi avete investito in una azienda privata che è andata gambe all’aria e come è normale avete perso il vostro investimento, ci spiace ma il rischio d’impresa era vostro”. L’Islanda oltretutto non è né dentro l’Euro né dentro l’Unione Europea, quindi non è nemmeno soggetta alle garanzie del mercato unico intra-europeo; infine, l’Islanda è duecento volte più piccola dell’Italia e dunque le cifre in gioco erano relativamente irrisorie (4 miliardi di euro in tutto). Per questo motivo alla fine l’Islanda ne è uscita relativamente bene… ma il debito pubblico dello Stato italiano è cosa molto diversa.

Io penso che in una situazione del genere ci troveremmo gli aerei della NATO in casa, ma se anche così non fosse, il minimo è un embargo commerciale, che per un paese che vorrebbe vivere di turismo ed esportazioni è il bacio della morte; e poi, ovviamente, saremmo buttati fuori dall’Unione Europea e dall’Euro. Questo, per alcuni, fa parte del piano: ci liberiamo dell’Euro, così riconquistiamo la nostra “sovranità monetaria” e possiamo fare come abbiamo sempre fatto fino a vent’anni fa, cioè stampare moneta per continuare a pagare stipendi e pensioni, e svalutare la nostra valuta per migliorare la nostra competitività. Sai che boom nelle esportazioni, finalmente avremmo la ripresa!

Permettetemi di avere qualche dubbio anche su questo: una ipotetica “pizza de fango de Roma”, come sarebbe la nostra nuova valuta, varrebbe poco e continuerebbe a valere ancora meno man mano che il governo la svaluta o ne stampa per far fronte ai propri impegni, con il serio rischio di una iperinflazione stile Zimbabwe o Germania di Weimar. Tutti quelli che vivono dei risparmi o delle pensioni del nonno sarebbero velocemente in mezzo a una strada.

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Inoltre, l’Italia è tanto un bel Paese ma è praticamente privo di risorse naturali. Il gas che ci serve per scaldarci, il petrolio che ci serve per produrre la nostra elettricità, per spostarci e per non trovare gli scaffali dei supermercati vuoti, devono essere comprati all’estero – in dollari o in euro. Più la pizza de fango si svaluta, più i prezzi di tutto aumenteranno, a maggior ragione se ci siamo fatti troppi nemici in giro per il pianeta. Perché vedete, Chavez può fare il cacchio che gli pare perché ha il petrolio pure nella tazza del cesso… noi no.

A questo punto, comunque, potremmo riuscire a sopravvivere, come sopravvisse l’Italia del periodo autarchico fascista. Per esempio, potremmo completare l’opera e nazionalizzare le aziende straniere; saremo poveri ma saremo liberi e giusti, bloccando le delocalizzazioni e gestendo quel po’ che c’è nell’interesse di tutti e senza più essere costretti a tagliare i servizi sociali o ad allungare l’età pensionabile solo per ripagare i banchieri della City… no?

Ecco, tutto quello che avete letto finora in realtà dimenticatelo, sono problemi minori. Perché anche se potessimo ricominciare domani mattina da capo, senza debiti e senza sfruttatori, resterebbe una piccola questione da risolvere – quella che ci ha portato fin qui. Basta andare sul sito Istat, sezione “Lavoro”, per scoprire che in Italia ci sono circa 60 milioni di residenti, in parte stranieri, ma solo 23 milioni di occupati, di cui 18 milioni di lavoratori privati, in buona parte ormai precari e sfruttati. Questi 18 milioni producono la ricchezza che mantiene non solo gli odiati padroni, ma anche tutti gli altri, e cioé: 5 milioni di dipendenti pubblici, che svolgono lavori spesso fondamentali (talvolta no) ma istituzionalmente in perdita; 7 milioni tra bambini, ragazzi e studenti universitari; 2 milioni di disoccupati “ufficiali”; 12 milioni di inattivi per altro motivo, ovvero disoccupati “non ufficiali” e casalinghe; e 17 milioni di pensionati, di cui 5 con meno di 65 anni di età. Il nostro tasso di occupazione è insomma il più basso dell’UE a parte Malta e Ungheria, e si aggiunge a uno Stato sprecone e spendaccione come nessuno.

Per questo, quando io sento che la luminosa via della rivoluzione di piazza prossima ventura permetterà non solo di mantenere tutte le attuali prerogative, ma anche di aggiungerne di nuove – ad esempio il tanto evocato “reddito di cittadinanza”, perché è giusto che chi non lavora abbia comunque dei soldi dalla collettività per mantenersi – ecco, mi vengono i brividi. Chi ve lo dice, o è ingenuo e non ha fatto i conti (se ha dei conti è pregato di tirarli fuori, magari mi convince), o vi sta prendendo per il culo, magari perché agitare la folla fa sempre bene alla propria immagine pubblica.

Una economia che parte su queste basi, evasione o no, corruzione o no, non può che generare istituzionalmente debito, e non reggersi in piedi (se non in particolari periodi . E dunque non se ne esce, prima o poi il problema di tagliare le pensioni, il pubblico impiego e in generale la spesa pubblica va affrontato, senza diritti acquisiti per nessuno, così come quello di far sì che gli italiani lavorino tutti e di più; per questo ho molto apprezzato che Grillo, anche se molti hanno fatto finta di non sentire, l’abbia detto chiaramente.

Questo vuol dire che l’economia internazionale va bene così, e che dobbiamo cavarci il sangue e buttarci tra le braccia del Fondo Monetario Internazionale? Assolutamente no, anzi più riusciamo a tener lontana quella gente meglio è. Vuol dire però che dobbiamo essere realistici, e che nessuno potrà chiamarsi fuori dai sacrifici che andranno fatti; potremo pretendere equità e solidarietà – e per averle è necessario cacciare l’attuale classe politica – ma non potremo dire “noi la crisi non la paghiamo”… anche perché abbiamo goduto tutti di trent’anni di società drogata dal debito, e se abbiamo permesso, col voto e con l’acquiescenza, che alcune parti della società ne godessero molto più di altre, è anche colpa nostra.

Cosa succederà veramente non lo sa nessuno; magari una crisi globale ci grazierà, assorbendo anche la nostra; magari l’Italia si spaccherà, il Nord nell’Euro e il resto nel fango; magari, dopotutto, la via dell’autarchia sarà l’unica possibile; sono convinto che ci sarà da soffrire ma che sarà anche una chance storica per costruire un’Italia stabilmente migliore. Per il momento, io vorrei soltanto pregarvi di non ridere troppo di Berlusconi, perché comunque neanche Superman saprebbe come ripagare il debito pubblico italiano; e perché presto, a sbattere la testa al posto di Berlusconi, ci saremo tutti noi.

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martedì 30 Agosto 2011, 18:55

Guidare negli Stati Uniti (3) – La velocità

L’approccio procedurale degli americani si applica ovviamente anche ai limiti di velocità: se c’è un limite ci sarà un motivo, e dunque bisogna rispettarlo attentamente. Oddio, forse su questo si sono un po’ rilassati, e le velocità di crociera sono tipicamente di qualche miglio all’ora superiori al limite; ma non esiste che un americano sfrecci a ottanta all’ora dove il limite è dei cinquanta.

C’è inoltre un altro fattore che impedisce, anche volendo, di violare i limiti di velocità: ed è proprio il fatto che li rispettano tutti. Se anche riuscite a superare una persona che viaggia alla velocità limite, dopo breve tempo vi troverete di nuovo chiusi da un altro che viaggia alla stessa velocità… e dopo un po’ lascerete perdere. Nemmeno sulle autostrade la situazione è diversa: infatti, anche lì tutte le corsie – anche quando sono sei per senso di marcia – sono occupate da veicoli che vanno tutti alla stessa velocità, salvo qualche minima differenza.

Non esiste, come da noi, l’obbligo di tenere la destra e farsi superare, se non su tratti in salita dove i mezzi pesanti vanno più lentamente. Non esiste nemmeno il divieto di sorpasso a destra, anzi è perfettamente normale, se l’auto sulla corsia più a sinistra va qualche miglio all’ora più lentamente di voi, spostarsi su una corsia più a destra per passarla. Il punto è che tanto le differenze sono minime, dunque l’americano medio si sceglie una corsia, regola la sua velocità su quella del veicolo che gli sta davanti, attacca il cruise control – il dispositivo che mantiene costante la velocità senza bisogno di accelerare o frenare – e poi sta lì così per i successivi 500 chilometri. Se anche voi voleste sfrecciare oltre i limiti, vi trovereste molto spesso tutte le corsie occupate da veicoli che vanno più o meno alla stessa velocità, quella del limite; un vero sbarramento fisico che, dato che un sorpasso con così poca differenza di velocità richiede chilometri, vi trattiene per lungo tempo.

In realtà, durante i miei 7000 chilometri di guida, ho visto alcune auto comportarsi male e fare a zigzag per superare i limiti – tre o quattro in tutto. In compenso, dovunque sia stato, in otto diversi Stati, in città e in autostrada, nei parchi e sui monti, ho visto almeno tre o quattro pattuglie al giorno ferme a bordo strada in attesa di clienti.

Negli Stati Uniti non esiste il concetto di “autovelox” o “tutor”, insomma un sistema automatico che ti manda la multa a casa. La violazione del codice della strada, peraltro, non è una questione amministrativa ma una vera e propria infrazione penale che richiede un fermo e un processo, per quanto semplificato. Dunque, le strade sono piene di agenti acquattati e pronti a scattare dietro a chiunque superi i limiti o commetta altre infrazioni. Talvolta semplicemente ti si mettono dietro e guardano il loro tachimetro per capire a quanto vai; non esistono tutti i nostri bizantinismi di tarature dei macchinari, margini di errore e fotografie di prova, se un agente testimonia che andavi troppo veloce vuol dire che andavi troppo veloce.

A quel punto, se si mettono dietro a te e accendono i lampeggianti rossi e blu, la procedura prevede che tu accosti a bordo strada, ti fermi e attenda dentro la macchina col finestrino abbassato, mentre l’agente scende e ti raggiunge a piedi… anche in autostrada! Non devi proseguire e non devi scendere dalla macchina – entrambe le opzioni presentano significative possibilità di farti sparare addosso (sul serio).

L’agente prima controlla via radio chi sei e se la macchina è in regola, poi ti recita tutto ciò che hai violato, e se la violazione non è grave ti dà la possibilità di pagare immediatamente, in contanti o con carta di credito, e chiuderla lì; in alternativa, hai diritto a un regolare processo in tribunale, in cui l’agente che ti ha fermato sarà chiamato a testimoniare.

I limiti di velocità americani, a prima vista, appaiono devastantemente bassi, tali appunto da farti morire di sonno. In Oregon, che è l’equivalente americano della nostra provincia profonda, il massimo concesso sulle autostrade è di 65 miglia orarie (105 km/h), ma solo in pochi tratti, mentre più normalmente si scende a 60, 55 o 50 miglia; sulle statali il limite è spesso di 45 miglia (70 km/h). Gli stati più liberali o più stressati, ad esempio Arizona e California, arrivano a permettere 75 miglia orarie (120 km/h) sulle autostrade e 60-65 miglia sulle statali. In ogni caso, in qualsiasi paese o villaggetto di tre case, il limite è di 25 miglia orarie (40 km/h), che scende a 15 miglia vicino alle scuole in orario scolastico. Tenetene conto quando valutate i tempi di spostamento, perché ogni centro abitato sulla strada vi rallenterà di parecchio.

Tuttavia, bisogna dire che dopo un po’ non solo ci si abitua a queste velocità, ma ci si rende conto che effettivamente si viaggia più sicuri, e quasi non si capisce come facciamo noi ad andare sempre così veloce (peraltro l’eccezione siamo noi; basta andare in Svizzera per trovarsi in una situazione simile a quella americana). Da quando sono tornato, anche in Italia vado istintivamente più piano.

Ah, tra l’altro – non esiste, come da noi, l’idea di ripetere continuamente i segnali, di mettere dieci luci al semaforo al posto di una perché il rosso sia più evidente o di piazzare lo stesso segnale ogni 300 metri per essere sicuro che tu l’abbia visto. Il limite di velocità è scritto dopo gli incroci principali, se non lo vedi o non lo conosci sono cavoli tuoi.

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lunedì 29 Agosto 2011, 15:52

Guidare negli Stati Uniti (2) – La disciplina

Il secondo elemento fondamentale della guida americana è in realtà tipico della società americana nel suo complesso: la disciplina. Gli Stati Uniti funzionano per procedure: qualcuno ha già pianificato in anticipo tutto ciò che può succedere e definito esattamente come ci si deve comportare nei vari casi. Questo è vero sul lavoro, nella burocrazia, persino nei rapporti interpersonali (non dimenticate che al saluto si risponde “hello, how are you today?” a cui si risponde “fine, thank you”; il protocollo non prevede risposte diverse da “fine”). Ed è vero sulle strade.

Il traffico americano è dunque “microgestito”. Tutte le strade sono chiaramente divise in corsie, ognuna delle quali ha una chiara indicazione sulle direzioni permesse all’incrocio successivo. Se per caso l’incrocio ha delle caratteristiche strane che potrebbero creare pericolo, sui pali del semaforo saranno affissi cartelli con lunghe e dettagliate prescrizioni scritte di procedure aggiuntive, per esempio “DO NOT BLOCK INTERSECTION” (non occupare l’incrocio in caso di coda), “LEFT TURN YIELD ON GREEN” (se girate a sinistra col verde date la precedenza al traffico che arriva nel senso opposto) oppure “NO U TURN” (vietata inversione di marcia).

Qualsiasi situazione è prevista e pianificata: per esempio, da quando esiste Lance Armstrong, gli americani hanno cominciato ad andare in bicicletta anche fuori città. Tuttavia, un ciclista in uno dei (rari) tunnel su una statale extraurbana è un pericolo; e allora hanno cominciato a installare all’ingresso dei tunnel una luce accompagnata da un cartello giallo con scritto “WARNING – CYCLISTS IN TUNNEL WHILE FLASHING”. Quando un ciclista arriva all’ingresso della galleria, schiaccia un bottone (c’è anche un cartello più piccolo con scritto “CYCLISTS PRESS BUTTON”) e la luce comincia a lampeggiare, così gli automobilisti sanno che incontreranno il ciclista nel tunnel.

Analogamente in California, nei lunghi tratti di statale stretta e tortuosa dove non si può superare, vengono predisposte ogni tanto delle piazzole (“turnout”) dove i veicoli lenti devono fermarsi per farsi passare da quelli più veloci che sono bloccati dietro. Per ogni piazzola, di solito c’è un cartello di preavviso più lontano, un cartello che ricorda a cosa serve la piazzola, un cartello che ricorda che non fermarsi alle piazzole è reato, un cartello che ricorda che reimmettendosi dalla piazzola bisogna dare la precedenza a chi arriva, un cartello di preavviso più vicino e infine, accanto al turnout, un cartello con scritto “TURNOUT”. Più chiaro di così…

L’americano medio è abituato a seguire le procedure, perché tutto questo – oltre a rendere effettivamente più tranquilla la navigazione – gli dà un caldo senso di certezza. Lo svantaggio di tutto questo, sulle strade come nella vita, è che se per caso si verifica una situazione non prevista dalla procedura l’americano sbarella completamente. Le possibili reazioni sono due: la negazione – non è possibile che questa situazione si sia verificata, dato che non è prevista dalla procedura, dunque non è possibile risolverla in alcun modo – e il panico.

Per esempio, supponete che a un incrocio cittadino scatti per voi il verde, ma che dal lato dell’incrocio sporga di un metro il retro di un’auto che è rimasta lì in mezzo, ferma dietro a una coda nell’altra direzione. Da noi questa è una situazione normale e si risolve partendo e aggirando l’auto ferma con un piccolo spostamento di lato nella direzione opposta. Per il guidatore americano, tuttavia, questo è un caso impossibile, perché nell’incrocio c’era sicuramente un cartello “DO NOT BLOCK INTERSECTION”: e dunque, non sa cosa fare.

Non potendo negare la situazione, il che lo porterebbe a partire e a centrare la macchina che non può essere dov’è, va in panico. L’idea di spostarsi leggermente a sinistra per aggirare l’auto ferma non viene nemmeno considerata, perché non c’è nessuna procedura che la preveda; per poterlo fare, servirebbe una procedura per invadere leggermente la corsia a fianco quando è libera, o peggio, se la strada ha una sola corsia per senso di marcia, invadere leggermente la corsia in direzione opposta quando non passa nessuno – una procedura che non può esistere perchè nessun americano potrebbe mai concepire di andare contromano, nemmeno in una città deserta dopo una esplosione nucleare. Non sapendo che fare, dunque, il guidatore americano medio sta fermo.

Ora, inserite in questo sistema un guidatore italiano, abituato ad arrangiarsi nel traffico e a considerare le indicazioni stradali come “interpretabili” (quanti di noi vanno veramente a 60 orari in mezzo ai cantieri in autostrada?) o come semplici consigli di massima, quando non delle pure e semplici rotture di scatole. E’ chiaro che questa scheggia impazzita, magari pure spaesata, un po’ persa e non perfettamente in grado di comprendere le indicazioni in inglese, può creare problemi di ogni genere. Nel caso precedente, ad esempio, un italiano che si trovasse dietro all’automobilista che nonostante il verde non parte penserebbe che egli abbia appena avuto un colpo di sonno, per cui si aggrapperà al volante ruotandolo per partire di storto e riuscire ad aggirare l’americano spostandosi di corsia… scatenando ulteriore panico in tutti gli americani presenti, per via della manovra assolutamente fuori da qualsiasi procedura.

Io ho cercato di comportarmi nel modo più americano possibile, ma qualcosa mi è sfuggito: per esempio, ho imboccato una strada in mezzo alla foresta e ho fatto inversione a metà bloccando il traffico, oppure, a Seattle, sono uscito allo svincolo sbagliato e ho dovuto capire dove girare per riprendere l’autostrada nel senso opposto. In quest’ultimo caso, avendo visto all’ultimo le indicazioni per l’autostrada mentre arrivavo al semaforo, mi sono spostato lateralmente di una corsia in un punto in cui le strisce per terra tra le corsie erano già continue… e un’auto dietro mi ha suonato, non perché abbiamo rischiato l’incidente – era parecchi metri indietro ed eravamo sostanzialmente fermi – ma perché il guidatore è andato in panico vedendo un’auto immettersi nella sua corsia in un modo non previsto dalle regole, infrangendo le sue certezze.

L’altra conseguenza di tutto questo si verifica quando, dopotutto, gli americani fanno qualche violazione. Alla fine sono esseri umani anche loro! Il problema è che, non avendo mai violato le procedure in vita loro, non hanno la minima capacità di valutare autonomamente la pericolosità o le conseguenze di ciò che stanno facendo. E’ per questo che così tanti americani vincono il Darwin Award: hanno il buon senso e la capacità di giudizio di un bambino di cinque anni, perché, a forza di seguire procedure già pronte, non li hanno mai esercitati. (E’ anche per questo che devono scrivere sui vestiti di toglierseli prima di stirarli e sulle tazze di caffé di fare attenzione perché potrebbe essere caldo.)

E così, succederà anche a voi, come è successo a me sulla discesa dal Grand Canyon verso Cameron, di imboccare a buona velocità un lungo curvone cieco in discesa, su una statale a una corsia per senso di marcia, e di trovarvi improvvisamente fermo in mezzo alla carreggiata un grosso SUV con il tettuccio aperto e un americano che spunta da sopra per fare la foto al meraviglioso panorama. Per fortuna nell’altro senso non arrivava nessuno, e dunque io ho potuto varcare la doppia striscia continua e superare il tizio nella corsia contromano – una manovra che un americano farebbe molta fatica a concepire in pochi secondi, dato che implica una violazione di regole. Se al mio posto ci fosse stato un locale, sono piuttosto sicuro che avrebbero fatto un incidente.

Oppure, succederà anche a voi, come è successo a me sulla costa della California settentrionale, di vedere un tizio davanti a voi che si ferma a bordo strada, a filo della carreggiata, e apre la porta per scendere e andare in spiaggia senza minimamente guardare se arriva qualcuno, costringendovi a scartare di botto per non investirlo; ok, fermarsi a bordo strada è una violazione, ma una volta che ci si è parcheggiati lì, perché guardare prima di aprire la porta? In una vita spesa a parcheggiare a lisca di pesce in mezzo ai piazzali, non è mai stato necessario farlo.

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domenica 28 Agosto 2011, 20:43

Guidare negli Stati Uniti (1) – Le auto

Come avrete notato, alla fine non ho scritto quasi nulla del mio viaggio di quest’anno, essenzialmente perché è stato talmente intenso che non ne ho avuto il tempo. Visto che alcuni dei miei lettori storici si sono lamentati, ho buttato giù velocemente un testo di alcune pagine, che pubblicherò a puntate. In superficie è un manuale per mettersi alla guida negli Stati Uniti, utile a chi prima o poi, per lavoro o per diporto, si trovasse a doverlo fare. In realtà, l’obiettivo è anche quello di descrivere in modo divertente le caratteristiche della società americana, e farvi viaggiare un po’ con il pensiero.

Introduzione

Guidare negli Stati Uniti, per un italiano, è un’esperienza molto particolare. Nonostante gli americani guidino dal lato giusto della strada e nonostante anche lì i semafori usino rosso, giallo e verde, questi sono più o meno i soli due punti in comune tra noi e loro. Il resto richiede al guidatore italiano uno sforzo di adattamento, che sarà peraltro centrato su un problema fondamentale: non addormentarsi al volante.

Avete presente il nostro stereotipo del vecchietto con cappello in testa alla guida di una fiammante Fiat 131, estratta dalla rimessa solo per il viaggetto della domenica, che viene in città a piazzarsi nella corsia centrale dei viali a 35 chilometri orari? Ecco, quello è il prototipo del guidatore americano medio, solo che sotto il sedere non ha una Fiat 131, ma un SUV da tre tonnellate. Gli americani al volante, visti da un italiano, giustificano una abbondante quantità di bestemmie e, se l’italiano ha confidenza con il lessico americano, l’uso frequente del termine “retarded”. Molti sono i fattori che spiegano un simile comportamento, ma i principali sono due: le auto e la disciplina.

Le auto americane

Le auto americane sono una dimostrazione pratica di cosa accada secondo l’evoluzionismo darwiniano quando individui di una stessa specie vengono improvvisamente divisi da un oceano di distanza e si sviluppano separatamente per molte generazioni: le auto americane infatti sono riconoscibilmente simili alle auto europee, ma presentano differenze profonde. Esse racchiudono in sè elementi presi con cura da tutti i veicoli del mondo: l’accelerazione di un camion, la manovrabilità di un camper, la parcheggiabilità di una limousine, la spaziosità di una utilitaria, i consumi di una Ferrari. Peggio ancora se, come successo a me, il vostro autonoleggio vi rifila un clone giapponese di un’auto americana (nello specifico, una Mitsubishi Galant).

Sicuramente, essendo europei, voi avrete chiesto al noleggio un’auto piccola. E loro vi daranno un’auto “piccola”, ovvero lunga sui cinque metri, di cui un metro orizzontale di cofano e un metro orizzontale di baule, dato che il concetto di portellone posteriore verticale là non è ancora arrivato; due tonnellate di lamiera di cui buona parte con funzioni essenzialmente estetiche, visto che l’abitabilità non è poi tanto migliore delle nostre berline (vi verrà il dubbio che gli americani valutino le auto in funzione della quantità di lamiera che contengono). Provate a fare manovra con un’auto così: è impossibile, perché non si vede dove finisce, né davanti né, soprattutto, indietro. Immaginatevi di dover mettere la retromarcia per entrare o uscire da un parcheggio: è un incubo, anche perché un’altra cosa che là non è arrivata sono i sensori di ostacolo in manovra.

Se vi state chiedendo allora come facciano gli americani ad andare in retromarcia, la risposta è semplice: non lo fanno. Tutto il sistema stradale è concepito in modo da evitare il più possibile l’uso della retromarcia, che avviene solo in situazioni dove il retro è tendenzialmente libero da ostacoli – ovvero, per uscire da parcheggi a lisca di pesce o dall’immancabile vialetto del garage della loro villetta suburbana. Le strade senza uscita, se appena è possibile, finiscono con un grande slargo o meglio ancora con una rotonda che vi permette di girare senza problemi.

Di conseguenza il parcheggio parallelo accanto al marciapiede, che da noi è la norma, negli Stati Uniti è meno frequente. Infatti, gli americani hanno risolto il problema del parcheggio urbano in modo molto semplice: abbattendo interi isolati dei centri cittadini e trasformandoli in sei piani di parcheggio a lisca di pesce. Immaginate di camminare per il centro di Torino dove però un isolato su quattro è stato sostituito da un autosilo: ecco, i centri americani sono generalmente così.

In alternativa, nelle zone appena un po’ meno centrali, semplicemente hanno abbattuto l’isolato per trasformarlo in un piazzale dove parcheggiare a pettine in file ordinate, come i nostri piazzali dei centri commerciali, ma in più protetti da filo spinato e con un messicano, nero o asiatico che riscuote la tariffa (di solito fissa, indipendentemente dalla durata della sosta) ed evita che vi vandalizzino la macchina (la notte però la guardia spesso se ne va e lì son cavoli vostri). In questo caso, l’americano medio non di rado si concede, pur con un po’ di paura, una manovra da brivido: se trova due posti contigui su due file affiancate, entra dal primo ma prosegue e si ferma nel secondo, perché poi così potrà uscire in avanti, evitando di mettere la temuta retromarcia.

Ad ogni modo, in molti centri urbani è previsto anche il parcheggio parallelo a bordo strada, ma solitamente è pieno di limitazioni, riportate in cartelli rettangolari piccoli piccoli che dovrete leggere con attenzione. Tipicamente, non solo si paga al più vicino parchimetro (ma si pagano anche i parcheggi-edificio, in generale per l’americano urbano è scontato che ogni movimento costi anche 10 o 15 dollari di sosta) ma vi sono limiti temporali (es. massimo due ore) e ore vietate (es. una notte a settimana per la pulizia strade); non di rado, la strada è riservata ai residenti. E soprattutto vengono disegnati sull’asfalto gli angoli dei singoli posti, riservando sette-otto metri per auto – quello che vi serve per uscire, e spesso anche entrare, senza dover fare retromarcia.

La seconda caratteristica delle auto americane che giustifica il comportamento alla guida è il cambio automatico. Se pensate di andare laggiù a guidare per qualche motivo, è bene che siate preparati – altrimenti vi troverete in un parcheggio a lisca di pesce con un addetto dell’autonoleggio che vi dice “ok, vada pure” e voi nell’imbarazzo di non sapere bene come far avanzare la macchina (successe a me nel 2000).

Il cambio automatico ha solo due posizioni utili, P (parcheggio) e D (guida, ovvero marcia avanti); per cambiare bisogna premere il pulsante sulla manopola del cambio e spostare la leva avanti o indietro (il nostro sistema a due file di posizioni è troppo complesso, la leva americana va solo avanti o indietro). La posizione di parcheggio equivale a lasciare la marcia inserita da fermi, e di solito la macchina non vi permetterà nemmeno di estrarre le chiavi se non l’avete messa. Esistono poi anche N (folle) e R (retromarcia), ma come detto non le usa nessuno. Non appena inserite la D, la macchina comincia a muoversi in avanti a passo d’uomo, al che voi potete reagire premendo il freno, per tenere la macchina ferma con la marcia inserita, o accelerando per partire veramente. Ovviamente non c’è il pedale della frizione, sostituito da un padellone per quello del freno che occupa quasi tutto lo spazio dei piedi.

Fin che siete in autostrada o in città e non dovete fare manovre particolari, il cambio automatico è una meraviglia: a patto di restare col freno premuto ai semafori, non dovrete mai cambiare. Anche le partenze in salita funzionano bene, permettendovi di girare per le strade di San Francisco senza problemi e senza dover usare il freno a mano. Le cose sono però diverse se vi trovate in situazioni dove avete bisogno di gestire voi il cambio – ad esempio una strada in salita, o un sorpasso fuori città. Lì, ovviamente, scattano le bestemmie, perché il vostro cambio automatico insisterà a farvi arrancare con una marcia troppo alta o si rifiuterà di scalare per darvi un po’ di ripresa fino a quando lo spazio per il sorpasso non sarà finito.

E poi, c’è il vero punto debole del cambio automatico: la discesa. Un cambio automatico si basa sulla velocità: quando la velocità aumenta, mette una marcia più alta per permettere di continuare l’accelerazione. Il problema è che il cambio automatico non è in grado di distinguere se la velocità sta aumentando perché voi volete accelerare, oppure se la velocità sta aumentando perché voi siete nel mezzo di una discesa verticale in mezzo alle montagne e vorreste solo riuscire a rallentare ma non potete. In pratica, il cambio automatico non permette di usare il freno motore, e le vostre chance di non ammazzarvi in discesa si riducono all’uso del freno normale, per rallentare un barcone da svariate tonnellate di lamiera su strade spesso molto ripide (gli americani non si fanno problemi, se c’è una montagna tirano dritto appena possibile).

Un buon modo di gestire la situazione è quello di frenare solo per lo stretto necessario, lasciando correre allegramente l’auto dove possibile (in fondo la strada è ripida ma dritta). Il problema è se, come successo a me giù dal passo Towne all’uscita della Valle della Morte, vi trovate davanti un americano medio, che terrorizzato dall’idea di sfrecciare su una statale a più di 70 chilometri all’ora percorre la discesa aggrappato ai freni, fermandosi ogni tanto nelle numerose “brake check area” (come potete immaginare, tutte le discese americane sono precedute da accorati appelli a controllare se funzionano i freni, e spesso sono dotate di corsie di emergenza in salita e altri dispositivi). A quel punto, in assenza di possibilità di sorpasso, sarete costretti anche voi a passare la discesa aggrappati al freno fin che l’ostacolo non si toglie di mezzo. Dopo due minuti, il freno comincia a saltellare, e dopo cinque minuti l’abitacolo viene invaso da un distinto odore di bruciato. A quel punto il pedale del freno comincia a saltellare vistosamente, l’effetto frenante è quasi nullo e voi potete solo sperare che la discesa finisca presto, per fermarvi a bordo strada e assistere a un denso fumo bianco che esce dalle vostre ruote.

A quel punto ho scartabellato il manuale dell’auto per capire: possibile che non ci fosse alternativa? Alcune auto hanno una posizione aggiuntiva sul cambio automatico, ad esempio “2” o “3”, che vuol dire che al cambio automatico non viene permesso di andare oltre tale marcia; ma la mia non aveva nulla. Alla fine ho scoperto che si poteva attivare lo “sports mode”, che era… il cambio manuale, o meglio la possibilità di ordinare al cambio di scalare; infatti, secondo gli americani, per voler cambiare manualmente bisogna necessariamente essere un pilota di Formula 1!

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