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martedì 9 Febbraio 2021, 18:24

I giornali, l’antisemitismo e il disprezzo per gli ultimi

Premetto, giusto per chiarezza, che a me regolarmente danno del sionista antipalestinese e amico di Israele, quindi credo di poter parlare dello scandaloso post di Monica Amore senza poter essere accusato di antisemitismo più o meno coperto.

Naturalmente quella vignetta (che non ho visto: mi baso sui racconti) è una schifezza, e qualsiasi altra persona se ne sarebbe resa conto prima di condividerla. Ma Monica no, perché è fatta così, perché (e in questo non potremmo essere più diversi) la sua storia, la sua cultura, il suo approccio alla vita la portano a credere possibili cose che io definirei immediatamente complotti, bufale e propaganda, e perché anche dei tragici riferimenti culturali ovvi a chiunque altro possono volare alto sopra la sua testa.

Ma allora, vi chiederete, perché una persona così sta nel consiglio comunale di Torino? (E non per sbaglio: alle elezioni prese 565 preferenze, che per dire furono quasi il triplo di quelle di un attuale assessore.) Beh, è semplice: perché è una persona che si sbatte davvero e con impegno per gli altri, per quelli come lei. Per gente, ed è tanta, che non ha avuto la fortuna che ho avuto io, quella di partire da condizioni sociali che garantivano un minimo di solidità economica e un facile accesso all’istruzione superiore e alla conoscenza, e che fatica a capire le complessità del mondo, ma ha uguale bisogno, e soprattutto uguale diritto, di essere ascoltata dalle istituzioni. Per gente che proprio per il suo livello culturale finisce sempre presa in giro da tutti, e poi turlupinata, e poi fregata ancora, nel lavoro, nei contratti, nella burocrazia, nelle cose di tutti i giorni, da quelle élite che poi la guardano anche dall’alto in basso perché è “ignorante”.

Se avessi visto per tempo il post in questione, avrei fatto l’unica cosa che aveva un senso fare: spiegare a Monica cosa volevano dire davvero quelle figure, e magari farla parlare con qualche amico ebreo che potesse efficacemente farle capire cos’è davvero l’antisemitismo e cosa concretamente abbia voluto dire nelle vite di milioni di persone.

Di sicuro non mi sarei affrettato a scaricarla come hanno fatto i vertici del M5S: capisco che davanti alla pressione della stampa sia difficile fare altrimenti, ma i voti di Monica e delle persone che rappresenta hanno fatto tanto comodo per vincere le elezioni, e i voti ricevuti vanno sempre rispettati e onorati. Di sicuro non mi sarei precipitato a prendere in giro la sua cultura e il suo curriculum vuoto come hanno fatto oggi diversi esponenti del PD, dimostrando di non avere più alcuna idea di quale dovrebbe essere in teoria la fascia sociale rappresentata dal centrosinistra.

Men che meno, però, avrei reagito come hanno reagito i giornali in oggetto: perché è evidente a me, e credo pure a Monica, che il direttore de La Stampa che pubblica una reazione video intitolata “Il post di Monica Amore con le vignette antisemite è un gesto infame: cosa ne pensano i vertici di M5S?” non ha come obiettivo prioritario quello di combattere l’antisemitismo; sta più che altro montando il caso il più possibile per mettere in difficoltà il M5S ai massimi livelli.

Mi sembra pure questo un uso strumentale, e dannoso, della questione; di sicuro una reazione del genere non aiuta le persone che fanno girare quel tipo di vignetta a capire e superare i propri pregiudizi e tutti i tristi luoghi comuni sugli ebrei ricchi che controllano i media. Ma soprattutto, ironicamente, questa reazione prova a posteriori che, se si eliminano le caricature antisemite e ci si limita alla partigianeria dell’informazione italiana, il post di Monica aveva davvero molto senso.

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lunedì 1 Febbraio 2021, 13:57

Di regole e rischi di contagio

Vi chiedo perdono se questo post sarà un po’ lungo, ma spero che vi sarà anche utile a capire come funziona (o dovrebbe funzionare) la gestione di una pandemia. Nasce dal fatto che l’interessante discussione di ieri su Facebook sulla messa e sulle distanze in chiesa mi ha fatto accorgere di una cosa che non avevo ancora focalizzato.

Personalmente, durante questa pandemia, distinguo ciò che è pericoloso da ciò che non è pericoloso in base alla lettura regolare di report e articoli scientifici. Spesso, come è normale, i report si contraddicono un po’, ma ormai, dopo un anno, sappiamo con buona certezza diverse cose:

  • i contagi all’aria aperta sono molto improbabili, a meno che non ci si fermi a parlare con un positivo senza mascherina, o non si attraversi la nuvola di uno che ha appena tossito senza mascherina, o non si stia per mezz’ora tutti pigiati; del resto, nonostante i moralismi sui giornali, nessuno ha ancora mostrato legami statistici evidenti tra maxi assembramenti in piazza e forti ondate di contagi nella zona;
     
  • i contagi da superficie, toccando un oggetto su cui qualcuno ha lasciato del virus, sono altrettanto improbabili, anche se su questo i dati sono minori ed è comunque provato che il virus resiste per diversi giorni sulle superfici a temperatura ambiente, e ben di più a bassa temperatura (da qui i contagi nei mattatoi);
     
  • le situazioni di pericolo sono dunque principalmente quelle in cui si sta al chiuso per un periodo di tempo superiore a, diciamo, dieci minuti (c’è chi dice 5, c’è chi dice 15), e nella stanza c’è o c’è appena stato un infetto;
     
  • la probabilità di infettarsi dipende sia dall’efficacia della mascherina dell’infetto, sia dal tempo di permanenza, sia da quanto l’infetto è malato, in quanto alcune persone “super-spreader” emettono cariche infettive molto superiori alle altre, e pare che il 20% dei malati sia responsabile dell’80% dei contagi o giù di lì; dipende anche da cosa fa l’infetto, perché respirare normalmente emette relativamente poche particelle, mentre parlare (in particolare dicendo lettere tipo p e t), e ancora di più gridare o cantare, e ancora di più tossire, provoca una emissione di fiotti di particelle potenzialmente infette;
     
  • al chiuso, il fatto di mantenere le distanze è relativamente poco rilevante; la distanza minima di sicurezza, misurata sulla ricaduta di particelle sputate, sarebbe due metri (mentre noi, a differenza di altri paesi, ne abbiamo imposto uno, che è di suo insufficiente), ma va bene solo se non c’è circolazione d’aria; bastano una corrente d’aria o un condizionatore per trasportare le particelle anche a 5, 10, 20 metri di distanza attraverso una sala o un ufficio, come nel famoso diagramma del ristorante di Wuhan che vedete sotto, tanto che c’è anche chi dice che aerare le stanze con le persone dentro sia controproducente;
  • per questo, gli ambienti più pericolosi sono quelli chiusi in cui la gente “emette” particelle senza mascherina (ristoranti), in cui c’è tanta gente rispetto al volume, o in cui il ricambio d’aria è minimo (tipo un ascensore, se uno ci stesse dentro più di un minuto).

In base a tutto questo, io stimo il rischio di quello che sto per fare e mi comporto di conseguenza, decidendo se accettarlo o meno e come proteggermi.

Ieri ho invece scoperto un sacco di gente che applica un principio piuttosto diverso: se una cosa è permessa dalle regole è certamente sicura, altrimenti è molto pericolosa. Quindi, tu spieghi che c’è una situazione di pericolo e loro rispondono “quindi sono state violate le regole?”, tu dici che le regole erano rispettate e loro rispondono “allora certamente non c’è pericolo”.

Ora, non so bene come si faccia a essere ancora convinti di questo a fronte del fatto che le regole cambiano ogni settimana, e che cose indicate fino a un minuto prima come vietatissime sono d’incanto permesse o viceversa. Il punto delle regole restrittive infatti non è distinguere ciò che è sicuro da ciò che è pericoloso, ma gestire il rischio in maniera statistica.

Infatti, il numero di contagi ogni giorno è pari al numero di persone infette in circolazione moltiplicato per il rischio medio di contagio delle attività che fanno (rischio medio che si riflette direttamente sul famoso Rt). Immaginate di avere un tabellone in cui a ogni attività è associata una probabilità di contagio: sarà un insieme di valori sparsi per tutto il campo tra zero (nessun rischio) e uno (contagio sicuro). Permettendo o vietando una attività, in funzione anche di quanto tale attività è frequente, si altera il rischio medio complessivo delle attività di tutti.

Per questo motivo, se diminuisce il numero di persone infette in circolazione si possono permettere attività più rischiose, facendo risalire un po’ il rischio medio; viceversa, durante i momenti di picco bisogna ridurre il rischio medio vietando attività anche meno rischiose.

Naturalmente, un paese efficiente avrebbe un tracciamento efficiente e saprebbe stimare almeno un po’ il fattore di rischio di ciascuna attività. In Italia, invece, non si faceva bene il tracciamento nemmeno quando i casi erano dieci, figuriamoci oggi. Infatti, il governo non è mai stato in grado di produrre dati precisi su dove e come avvengono davvero i contagi; ogni tanto qualche ministro fa una sparata, citando vaghi numeri senza fonte purché utili alla sua propaganda. Ma i dati veri non sono mai stati pubblicati e non sono nemmeno emersi di straforo, segno che essenzialmente non ci sono proprio.

Per questo, le nostre scelte su cosa chiudere e cosa aprire vanno un po’ per imitazione di altri paesi più organizzati (vedi l’ansia di inseguire Merkel prima di Natale), parecchio per le fisime dei decisori e dei media, a cui “pare” che una cosa sia pericolosa e lo ripetono fin che non diventa ufficialmente tale, e molto per scelta politica, in base a chi accontentare e chi scontentare e ai costi in termini di consenso, prima ancora che economici.

In conclusione, non c’è dubbio che le regole siano utili e che vadano generalmente rispettate, e che nell’aggregato siano importanti per contenere la pandemia, ma riferirsi alle regole per capire cosa sia sicuro e cosa no non è una grande idea; men che meno la conclusione completamente errata a cui spesso arriva chi lo fa, cioè che la gestione della pandemia sia una questione di polizia, e che tutto si risolverebbe militarizzando le strade e le case in modo che tutte le regole siano rispettate alla lettera, cosa che secondo loro farebbe certamente scendere a zero i contagi.

Quando si discute invece di quanto un determinato comportamento sia davvero pericoloso, è bene invece lasciare stare le zone colorate del momento, e riferirsi soltanto alla meccanica di spostamento di piccole goccioline piene di virus; anche perché il virus non ha preferenze politiche né riguardi costituzionali, e si limita a spostarsi nell’aria e riprodursi più che può.

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domenica 10 Gennaio 2021, 11:35

Il disco della settimana

Era l’ottobre 1994, Ligabue aveva già finito le idee e aveva trascorso l’annata a riascoltare tutti i dischi dei REM degli anni ’80 (è noto che, come i Litfiba, anche i REM veri sono quelli degli anni ’80, fino a prima della firma con una major e del grande successo). E così se ne uscì con un disco che era, diciamo così, molto ispirato ad essi, a partire dal singolo di lancio, che era semplicemente una cover di It’s the end of the world as we know it (canzone peraltro molto bella, al punto che i REM stessi ne fecero una quasi cover con un nuovo titolo dieci anni dopo).

Il disco conteneva però questo piccolo gioiellino di chitarra acustica (e piano, nella versione su disco), che potrebbe veramente essere un pezzo dei REM, ed è un complimento. Anche il giochino della seconda voce che parte all’improvviso cantando qualcosa di completamente diverso è copiato dai REM, e senza grande sforzo: solo nel gennaio 1994, pochi mesi prima, era uscito Your Ghost, il singolo di lancio della sfortunata carriera di Kristin Hersh, con Michael Stipe che appariva dal nulla a metà pezzo, come un fantasma, a cantare “you were in my dream”. Your Ghost è un pezzo bellissimo e soprattutto molto in linea col clima totalmente depresso della musica del 1994, l’anno d’apice del grunge e del suicidio di Kurt Cobain; ma può darsi che dopo la morte di Cobain nessuno avesse più tanta voglia di depressione, perché del singolo e della cantante si persero presto le tracce.

Il pezzo di Ligabue invece, come Ligabue stesso, è ancora qui con noi, e non so se sia un bene. Ma se a fare il secondo ci si mette Mauro Pagani, persino in modalità “timbrare il cartellino, due svisate di flauto e via”, lo possiamo tranquillamente passare come disco della domenica mattina per un inizio di 2021 collettivamente depresso come il 1994, anche se per motivi diversi. Speriamo che domenica prossima il clima sia più rosa e meno “giallo rafforzato”, che non ho ben capito che colore sia ma temo assomigli molto al marrone.

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giovedì 7 Gennaio 2021, 14:16

Così muore un populista

Vedo molta confusione nelle analisi politiche sul modo in cui è finita la presidenza Trump. In particolare c’è gente che dice: visto, noi abbiamo sempre detto che i politici populisti puntano al colpo di stato, e che non dovrebbe nemmeno essergli permesso di esistere.

In realtà, quello di ieri non è stato affatto un tentativo di colpo di stato. Lo era forse nella testa di quelli che hanno provato a entrare in Parlamento, magari dello stesso Trump e di altri ingenui stupidotti americani. Ma anche se entri in massa nel Parlamento e lo conquisti, poi che fai? Non è così che si fa un colpo di stato nel ventunesimo secolo. Lo si fa con i media, con l’apparato statale e/o con l’esercito, e nessuno dei tre, ieri, era al seguito dei trumpiani. Anzi, i media – specialmente i social – non vedevano l’ora di poterlo finalmente censurare per bene.

In fondo, la parabola di Trump conferma l’assunto di base per cui i populisti al potere devono adeguarsi al sistema. Se non lo fanno, finiscono per isolarsi e ridicolizzarsi da soli; se sono pazzi, come forse è adesso Trump, possono rischiare di fare grossi danni, ma non di distruggere il sistema. Del resto, non appena si è capito che il cavallo era definitivamente perdente, persino i suoi fedelissimi, Pence in testa, hanno immediatamente iniziato il riposizionamento verso lidi più sicuri; e quei pochi che ancora circondano Trump, come quelli che ancora circondano Berlusconi, son lì solo per ereditare i suoi residui voti.

Quindi, insomma, tranquillizzatevi; ieri, alla fine, non è successo niente di che. L’episodio sarà certo ingigantito all’infinito nei racconti e nei commenti, essenzialmente per suggerire alla gente di non rompere troppo le scatole, una cosa che al potere piace sempre ricordare. Ma poi, ragazzi, la ricreazione è finita.

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martedì 5 Gennaio 2021, 19:12

Sulle prossime elezioni comunali

Oggi mi hanno girato questo appello per la nascita di una lista civica di centrosinistra per le prossime elezioni comunali (l’appello, se ben capisco, è perché ne nasca una sola invece di tante in concorrenza tra di loro). Lo riporto qui, per chi può essere interessato, e colgo l’occasione per qualche commento o confessione personale.

Naturalmente mi fa piacere che alcuni dei firmatari dell’appello abbiano pensato a me come una persona potenzialmente da coinvolgere. Un po’ mi sorprende anche, perché diversi degli attuali esponenti del PD cittadino, pur nell’ambito di ampia e reciproca stima, mi hanno sempre considerato un po’ troppo liberale e liberista per il centrosinistra, nonostante io in tutta la mia “carriera” di elettore abbia sempre, tranne che nel periodo M5S, votato da quella parte (un paio di volte persino comunista… ah, la gioventù 😃 ). Ma va detto che al giorno d’oggi le differenze ideologiche sono minime e c’è una grande area grigia al centro in cui probabilmente ricado anch’io, a maggior ragione in una elezione amministrativa.

Come ben sa chi mi segue da sempre, considero le cariche elettive come una forma alta di servizio pubblico, nella quale bisogna darsi da fare e mettere le proprie energie e competenze al servizio della “clientela” che ti paga lo stipendio, cioè dei cittadini. Quando l’ho fatto credo di averlo fatto bene, sia quantitativamente che qualitativamente; almeno, questo è il responso che ho avuto più o meno da chiunque, tranne che dalla base e dalla dirigenza del M5S.

Allo stesso tempo, se la mia esperienza in politica è finita come è finita, e al di là delle evidenti dinamiche degenerative interne al Movimento 5 Stelle una volta annusato il potere, vuol dire che probabilmente non sono così adatto a questo tipo di attività.

Ammetto – non so se l’ho mai detto prima – che sedere in Sala Rossa era un sogno che avevo fin da ragazzo. Quando si è realizzato, per un breve lasso di tempo ho pensato che forse avevo trovato la mia strada, un modo di esprimere un certo talento con soddisfazione reciproca, mia e della collettività; ma quello che è successo dopo mi ha fatto abbandonare questa idea. E poi, dopo il modo in cui è finita l’altra volta, non so con che faccia potrei di nuovo chiedere il voto a chicchessia, né come potrei ottenerlo.

Per quanto dunque sia sempre ben disposto a partecipare a uno scambio di idee sul futuro di questa città, non credo che abbia molto senso una mia partecipazione attiva alla prossima elezione comunale. Ma se qualcuno di voi vuole provarci, perché no: per me, è stata comunque una esperienza che valeva assolutamente la pena di essere vissuta.

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sabato 2 Gennaio 2021, 10:54

La maledetta password dello SPID di Poste

Stamattina ho aperto l’app IO per vedere alla fine quanto cashback ho accumulato. Diversamente dal solito, però, l’app mi ha detto che il mio login era scaduto e mi ha chiesto di rifare un login con SPID.

Tuttavia, a differenza di tutti gli altri login SPID, questo non avviene tramite QR code e/o impronta digitale nell’app PosteID; bisogna inserire a mano username e password.

Ovviamente, siccome questo è l’unico login SPID che richiede di inserire esplicitamente la password, io non ricordavo più la password dello SPID.

Normalmente io uso un set di password base e di loro varianti che ricordo a memoria, diverse a seconda del livello di sicurezza, e che generalmente memorizzo nel browser, a sua volta protetto da una password unica. Ovviamente, però, non memorizzo nel browser la password dello SPID (o della banca o di altri servizi cruciali).

Tuttavia, quando si cerca di scegliere una password per lo SPID di Poste, si riceve un set di requisiti assolutamente folle (nell’immagine qui sotto).

In più, PosteID obbliga a cambiare la password regolarmente: una pratica che era ritenuta sicura 10-15 anni fa, ma che è stata generalmente abbandonata perché l’unico risultato è che la gente non si ricorda mai la password del momento e, oltre a intasare tutti i sistemi di recupero e rimanere regolarmente chiusa fuori dal proprio account, finisce per scriversi la password da qualche parte.

I requisiti di PosteID sono talmente complicati che anche se nel proprio set di password ricordate a memoria ce ne fossero alcune che ci entrano, al secondo o terzo cambio forzato non le si può più utilizzare, nemmeno con delle varianti.

Insomma, l’unica cosa possibile con le attuali policy di PosteID è davvero scriversi la password su un pezzo di carta in casa o nel portafoglio, una cosa potenzialmente ben più pericolosa di memorizzare una sola password (non banale) mantenuta nel tempo. Anche perché poi, quando recuperi l’appunto scritto, se sei poco ordinato può succedere che non sia veramente la password attuale, e che tu rimanga chiuso fuori lo stesso.

Comunque, mi pare strano che non sia possibile avere su Android una interfaccia applicativa con cui l’app IO chiede l’autenticazione all’app PosteID, che la chiede all’utente con l’impronta digitale come per tutti gli altri servizi. Spero che il moloch informatico parastatale riesca prima o poi a sistemare pure questo.

(Ah, comunque ho accumulato 48 euro di cashback in 20 transazioni.)

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giovedì 31 Dicembre 2020, 18:52

Il mio 2020: la storia di come non ho fatto il covid

La mia foto dell’anno per il 2020 è sicuramente quella qui sotto. Era il 6 marzo e io stavo rientrando in ufficio dopo una misteriosa febbriciattola. L’Italia era in subbuglio, ma ufficialmente poco era successo; la parola “lockdown” era ancora sconosciuta, ed esisteva soltanto la “zona rossa di Codogno”.

Non so dove avessi preso quella febbre; forse – proprio mentre l’Italia scopriva per la prima volta la presenza del virus – sabato 22 febbraio, di ritorno da San Francisco su uno dei miei tanti voli da Monaco a Torino, su uno di quegli aerei che da anni facevano ogni giorno su e giù senza sosta tra l’hub bavarese e gli aeroporti di Piemonte, Lombardia e Veneto. O forse lunedì 24, quando ero andato – in auto, vista l’improvvisa paura per i treni lombardi – fino a Milano, al consolato russo, per chiedere un visto per una conferenza a Mosca in aprile che poi non si svolse mai.

Martedì 25 e mercoledì 26 ero andato in ufficio, e così, per caso, il mio collega alla scrivania di fronte mi aveva fatto notare che mi era venuta una tosse secca e insistente, sempre più frequente; e fece anche qualche battuta sul fatto che a metà gennaio ero stato in Cina, “non porterai mica il covid?”. Ma no, era impossibile: il covid, si diceva allora, emerge in 14 giorni e ormai erano passati da un pezzo; anche a San Francisco, per farmi imbarcare sul volo di ritorno, mi avevano chiesto se fossi stato in Cina negli ultimi 14 giorni, e io gli avevo detto di no, che era passato almeno un mese.

Comunque, dato che ero stato in giro per il mondo senza sosta sin dalla fine delle vacanze di Natale, decisi di cambiare ambiente, e mercoledì sera partimmo per la montagna, con l’idea di lavorare da lì e magari prendere un giorno di riposo extra, per compensare il fatto che domenica alle 13:15 avrei avuto un altro volo, da Caselle per Londra, e poi il martedì da lì in Germania.

Eppure giovedì 27, man mano che lavoravo, mi vennero degli strani brividini; ma niente di che, e il massimo di temperatura fu di 37 gradi precisi a fine pomeriggio. Ero preoccupato per un solo motivo: se avessi avuto più di 37,5 di febbre, domenica non mi avrebbero lasciato salire sul volo e sarebbe stato un disastro. Venerdì 28 la storia fu circa uguale; al mattino avevo 36,5, ma verso fine giornata arrivai addirittura a 37,3.

Non ero quindi preparato a una serata particolare. Dopo cena, ci mettemmo nel letto a guardare la televisione. Erano già le dieci passate quando mi accorsi che facevo sempre più fatica a respirare, e che non riuscivo affatto a rilassarmi. Cominciai ad andare in bagno ripetutamente, con la sensazione di affanno e di dover vomitare, ma senza che venisse fuori niente. All’ennesimo giro, ed era quasi mezzanotte, dopo diversi minuti a guardare la tazza del WC stando malissimo senza riuscire a vomitare decisi di tornare in camera, e… non ci arrivai: i quattro metri dal bagno alla camera divennero infiniti, ero in apnea, mi girava la testa, non vedevo niente, e ansimavo cercando di respirare, senza molto successo; alla fine, mi appoggiai ai mobili per non cadere, cercando di gridare per attirare l’attenzione di Elena. Lei venne di corsa, mi trascinò nel letto, mi mise orizzontale, e per qualche motivo, di botto, la crisi finì; ricominciai a respirare un po’ meglio, ma ci volle fino alle due di notte perché riuscissi a rilassarmi e poi a dormire. Naturalmente ci chiedemmo se chiamare il 118, ma eravamo in mezzo ai monti, a un’ora di curve dall’ospedale di Aosta, e se fosse stata una vera emergenza nessuno sarebbe mai giunto in tempo. Sperammo in bene, e così andò.

Il mattino dopo, sabato 29 febbraio, chiamai subito la mia dottoressa, che mi chiese: negli ultimi 14 giorni sei stato in Cina? No. Sei stato a Codogno? No. Allora, mi disse, non è covid, e anche se avessimo il dubbio, non mi è comunque permesso di farti fare un tampone; così erano le linee guida di quel momento. Mi disse comunque di comprarmi un saturimetro e di chiamare subito il 118 se avessi avuto una nuova crisi. Non essendo covid, e continuando io a non avere febbre, non ero nemmeno soggetto a quarantena; e così, per sicurezza, decisi di mettermi in macchina e tornare fino a Torino, più vicino a un qualunque ospedale.

Nel frattempo, sia gli inglesi che i tedeschi che dovevo incontrare mi avevano scritto chiedendomi di stare a casa, perché quella era la settimana in cui gli italiani erano pericolosi untori e il resto d’Europa pensava di potersi salvare. Quindi tornai a casa senza uscire mai dalla macchina, e per sicurezza mandai Elena da sola a fare la spesa, aspettandola fuori dal supermercato; il medico mi aveva detto che certamente non era covid, e comunque all’epoca non si sapeva ancora che ci fossero così tanti asintomatici e nemmeno che gli asintomatici fossero potenzialmente infettivi.

Domenica fu un giorno altrettanto straordinario; cominciò a colarmi il naso. Ma non normalmente; continuamente, a fiotti. Non la pubblicherò, ma fui così impressionato da fare la foto alla grossa scatola di cartone del Lidl che tenevo vicino al letto, completamente piena di pezzi di carta igienica usati per soffiarmi il naso. Dopo di quello, bon: non ebbi più febbre né brividi, e anche la tosse andò rapidamente scemando; ricominciai a stare bene.

Lunedì 2 marzo decisi da solo di mettermi in smart working; non era un obbligo (se ricordate, la maggior parte delle aziende italiane continuò a tenere anche gli impiegati in ufficio fino a fine marzo) ma mi chiesi perché, pur non avendo il covid, avrei dovuto rischiare di contagiare qualche collega. Lunedì pomeriggio, tre giorni dopo la crisi, mi arrivò anche il saturimetro da Amazon: alla prima prova segnava 93.

C’era però un problema: a febbraio avevo viaggiato e accumulato spese per quasi mille euro, che avrei dovuto rendicontare appena possibile, con tanto di allegati cartacei. E così, arriviamo alla foto: venerdì 6 marzo verso le sei del pomeriggio, contando di non incontrare nessuno, mi presentai in ufficio per fare la mia pratica. In realtà incontrai un collega, ma ci tenemmo ben alla larga (all’epoca non esistevano mascherine, ma si diceva che bastassero due metri di distanza per evitare il contagio anche al chiuso) e lui andò via praticamente subito. In più, io mi portai da casa il disinfettante, e disinfettai attentamente tutto quello che avevo toccato: la stampante, le buste, le scrivanie, le maniglie. Anche se non avevo il covid, anche se il venerdì pomeriggio era stato scelto apposta per far passare più tempo possibile fino al nuovo riempimento dell’ufficio, anche se mi sembrava talmente assurdo da farmi fare la foto da Elena, sono contento di averlo fatto lo stesso.

Alla fine, nessuno nel nostro ufficio ha mai avuto il covid. Più tardi, verso l’estate, diventò possibile fare i test sierologici per capire se lo si aveva avuto, ma il governo dispose che i positivi dovessero mettersi in quarantena in attesa di un tampone, e a quel punto mi sembrò stupido rischiare settimane di quarantena solo per capire che cosa avessi davvero avuto. Non lo saprò mai: resterà uno dei misteri della mia vita.

So solo che spero di non provare mai più quella sensazione di non riuscire a respirare, mentre gli occhi si spengono, e ti sembra proprio di stare per morire; e spero che il 2021, almeno da un certo punto in poi, non la regali più a nessuno.

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sabato 19 Dicembre 2020, 08:46

In memoria di San Giuseppi

Quest’uomo, Giuseppi Conte, l’abbiamo fatto impazzire. L’hanno fatto impazzire i partiti della sua maggioranza, ognuno dei quali aveva da piantare una piccola bandiera per un proprio gruppo elettorale, ottenendo una deroga per i barbieri pugliesi sotto i 45 anni o per gli abitanti dei paesi di mezza montagna in condizione disagiata. E l’hanno fatto impazzire gli italiani, all’inizio ligi e solidali, poi, a ogni nuovo giro di norme sempre più irrazionali e incomprensibili, dediti – in maniera più che giustificata dal crescente, tragico ridicolo della situazione – alla grande arte italiana di trovare il modo di arrangiarsi lo stesso; e se gli italiani vogliono arrangiarsi, il modo lo trovano.

Così, da giurista, Conte ha partorito nei mesi un capolavoro di azzeccagarbuglismo che sarà studiato per anni nelle facoltà di diritto, con strati di DPCM e di decreti legge impilati a lasagna con in mezzo besciamelle di FAQ e di interpretazioni in conferenza stampa. Conte ha fatto quel che sa fare meglio: non lo statista, ma l’avvocato cavillista.

L’effetto, alla fine, è cosa nota: troppe regole vogliono dire nessuna regola, e di fatto bisognerà affidarsi al buon senso, sia della gente che delle forze dell’ordine chiamate a scoglionarsi in un gelido Natale di posti di blocco, a cui gli italiani sono già pronti a rispondere mandando il nonno in avanscoperta per individuare i militi e poi segnalare via SMS, su un telefono dai tasti belli grossi, il momento in cui la strada è libera.

Ma se tanto bisognava affidarsi al buon senso, sarebbe stato molto meglio avere al governo uno statista, invece che un avvocato cavillista; qualcuno che potesse guidare gli italiani con l’esempio e con la credibilità, con regole di tre righe dette guardando la gente negli occhi. Non è, purtroppo, la classe politica che abbiamo (opposizione compresa).

E quindi, la fine di Conte è segnata: con la popolarità a picco (calata dal 70% di aprile al 26% di oggi, e vedrete la settimana prossima) è diventato una macchietta per meme divertenti, come quello qui sotto, o per prime pagine sardoniche come quella di Repubblica (“Aggiungi due amici a tavola”: non si è mai vista Repubblica perculare così, a nove colonne, il capo di un governo del PD). Il meme sembra esagerato, ma poi provate voi a riassumere il decreto legge 18 dicembre 2020 numero 172; anche in una versione semplificata, suona così:

“Lo spostamento massimo in due, più eventuali figli sotto i 14 anni e disabili non autosufficienti, in una abitazione nella stessa regione è consentito in tutti i giorni dal 24 al 6 (rossi e arancioni), per una sola abitazione al giorno. Lo spostamento dai comuni piccoli (sotto i 5000 abitanti) per 30 km, anche fuori regione, ma non verso un capoluogo di provincia, è consentito solo nei giorni arancioni.”

Spiace, eh (ammiro molto, seriamente, il senatore Gabriele Lanzi che ieri sera era in giro sui social a rispondere a tutti), ma il governo giallorosso è socialmente alla frutta: e forse, una amara risata collettiva l’ha già seppellito.

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giovedì 26 Novembre 2020, 18:38

Un discorso razionale contro le restrizioni inutili

La discussione sullo sci e sulle vacanze natalizie, solo temporaneamente nascosta da Maradona, non è ancora arrivata alla fine; adesso, secondo i giornali, il governo pensa di nuovo di bloccare gli spostamenti e di vietare di andare in montagna persino da soli. Lo sci, in particolare, è l’ennesimo capro espiatorio trovato dalla politica per nascondere le proprie responsabilità, la propria incapacità di definire e far rispettare regole logiche e efficaci; eppure, sembra essere di moda criticare anche solo l’idea che ci si possa divertire in questo periodo.

A me questo approccio sembra assurdo, e se lo sembra anche a voi, ecco una comoda guida a come rispondere ad affermazioni che nell’ultima settimana sono state ripetute all’infinito.

“Lo sci è pericoloso, poi con gli infortuni si intaserebbero gli ospedali!”
A parte che l’attività di gran lunga più pericolosa per gli infortuni è stare in casa a cucinare o fare lavoretti, le regole però permettono di andare per divertimento in bicicletta o a fare una corsetta. In zona rossa è permesso persino il free climbing, se stai in un Comune che ha una palestra di roccia all’aperto. Sono tutti sport che, dicono le statistiche, hanno tassi di rischio comparabili o superiori a quelli dello sci. Che cavolo ha fatto lo sci di male per essere trattato diversamente da tutti gli altri sport individuali?

“Eh ma lo sci è una roba da gente della Torino e Milano bene! Allora non è vero che c’è crisi se la gente ha i soldi per sciare!”
Ok, ho capito cosa ha fatto lo sci di male: costa ed è considerato una roba da ricchi, quindi per principio immorale. Ma lo sci non è solo questo, è anche la vita di molte zone di montagna che hanno solo quello per sopravvivere e non spopolarsi; e in montagna c’è molto altro da fare oltre allo sci, quindi non è nemmeno accettabile bloccare del tutto gli spostamenti verso le montagne perché se no la gente va a sciare. Quanto alla crisi, per fortuna che non ha portato in miseria tutto il Paese e che c’è ancora gente che può spendere qualcosa, se no avremmo problemi ancora più gravi di quelli che abbiamo.

“Ma non è credibile che gente che l’anno scorso dichiarava di guadagnare mille euro al mese oggi dichiari di perderne ventimila!”
Non è credibile nemmeno che una persona adulta non sappia distinguere tra utile, fatturato e spese di una attività economica, eppure nel tuo caso evidentemente è così.

“Ma ti pare che in piena pandemia si debba pensare alle vacanze? Infatti le altre attività di divertimento, come i cinema e le discoteche, sono state fermate!”
Le altre attività di divertimento sono ferme perché si svolgono in luoghi chiusi con molte persone insieme, non perché sono di divertimento. L’idea che non ci si debba divertire fin che c’è la pandemia è piuttosto allucinante.

“Invece no, bisogna smettere di pensare al divertimento! Parlate di sci mentre oggi sono morte centinaia di persone, vi vadano di traverso i bastoncini, infami!”
Mi sfugge davvero il legame logico: le centinaia di persone mica sono morte perché sono andate a sciare, sono morte per via dei comportamenti di un mese fa. La questione è se lo sci o la vacanza tra un mese possano aumentare significativamente il numero dei contagi oppure no. Per il resto, seriamente: la gente muore sempre, dappertutto. Ogni giorno nel mondo muoiono circa 150.000 persone, e quest’anno grazie al covid se ne sono aggiunte circa altre 4.000. I lutti fanno parte della vita, toccano a tutti, ma questo non vuol dire che tutto il mondo debba passare tutta la vita in lutto.

“Ok, ma oggi in Italia sono morte 750 persone! E’ come se fossero caduti due jumbo jet!”
Ok, ma ogni giorno in Italia nascono anche mediamente 1200 bambini! E’ come se fossero nati tre jumbo jet! (Scusate la risposta altrettanto insensata.)

“Teniamo le scuole e i ristoranti chiusi e invece permettiamo attività inutili e di puro divertimento!”
Certo, le permettiamo perché hanno un profilo di rischio più basso delle scuole e dei ristoranti. Non si capisce perché o a che titolo dovremmo vietarle. Una delle peggiori stupidaggini della gestione dell’epidemia di questo governo è quello di introdurre spesso divieti senza alcun tipo di correlazione logica con il rischio di trasmissione del virus che le attività vietate comportano effettivamente, a partire dal divieto di uscire dal proprio Comune. In un paese civile, si può vietare solo ciò che presenta una ragione chiara che giustifichi il divieto, non quello che non piace al governo del momento.

“Non possiamo permettere attività che rischiano di creare anche solo un contagio e un morto in più!”
Veramente permettiamo quotidianamente e da sempre di andare in macchina, di bere alcool, di fumare, di fare lavori usuranti in ambienti malsani o pericolosi, di correre sui veicoli in un circuito e di lanciarsi col paracadute dai grattacieli, anche se queste attività provocano ogni anno numeri di morti significativi, in certi casi ben superori a quelli del covid. Ovviamente bisogna prendere tutte le precauzioni possibili per limitare i rischi, ma le attività a rischio zero sostanzialmente non esistono e l’umanità non si è mai fermata per questo.

“Ma allora liberi tutti e facciamo finta di niente?”
No, nessuno ha detto che il covid-19 non esiste, che non si debbano limitare le attività e prendere precauzioni, o che si possa passare il Natale in discoteca. Semplicemente si può fare come altri paesi europei, cioé trovare regole che limitino il rischio ed evitino gli assembramenti. Per esempio, per lo sci si può ridurre la capienza, eliminare le code in biglietteria, garantire le distanze e chiudere i punti di ritrovo al chiuso dove si genererebbero affollamenti. Questi sono i provvedimenti già presi in Svizzera e in Austria, dove le piste stanno riaprendo senza tanti drammi. Basta poi sbattersi a farli rispettare.

“Ma non si può andare a sciare senza assembrarsi! La cabinovia è al chiuso! E poi uno va in montagna ma poi deve andare in albergo, a mangiare al ristorante, a fare l’aperitivo…”
Ci sono stazioni sciistiche che non hanno neanche una cabinovia, solo seggiovie e skilift; e comunque, il tempo di permanenza in una funivia è limitato, certamente più quello che in un negozio o in una metropolitana, la capienza può esserlo altrettanto, e l’aria può essere cambiata semplicemente tenendo i finestrini aperti. Quanto alle attività dopo lo sci, in realtà parecchia gente va a sciare in giornata dalle città. Molta altra gente va in montagna in una seconda casa, sua o affittata; mangia a casa, sta per conto suo e poi va a sciare. Dal punto di vista economico ovviamente sarebbe meglio per le comunità locali se fossero aperti anche gli alberghi e i ristoranti, ma questo dipende dalle normali regole in vigore in tutta Italia.

“Ma non ha senso riaprire i ristoranti a Courmayeur e non a Milano!”
Infatti tutta la discussione nasce dal presupposto che l’Italia stia per ritornare uniformemente zona gialla, quindi con ristoranti aperti normalmente a pranzo e per l’asporto a cena, sia a Courmayeur che a Milano. Ovviamente i ristoranti devono essere trattati tutti allo stesso modo, anche se, come detto, c’è un sacco di gente che va a sciare senza aver bisogno dei ristoranti aperti. D’altra parte, non si capirebbe nemmeno perché concedere di andare al ristorante a Milano e non a Courmayeur, a meno che Courmayeur non vi stia sulle scatole più di Milano.

“Allora va bene però facciamo che se uno si fa male sciando poi non lo soccorriamo!”
Allora non soccorriamo nemmeno chi si è preso il cancro fumando o chi si schianta in macchina, ok? Anzi, a me non piacciono i pitbull, quindi facciamo che se uno viene morso da un pitbull impazzito lo lasciamo lì sanguinante, mi raccomando! Aveva solo da non prendersi un pitbull!

“Comunque non mi hai convinto! Ti aspetto a febbraio, quando ci sarà la terza ondata e sarà tutta colpa della gente come te che ha spinto per andare a sciare!”
Intanto, io non scio da vent’anni e non ci andrò nemmeno stavolta (spero semplicemente di poter passare il periodo natalizio in casa in montagna invece che a Torino), però frequento la montagna e mi dà fastidio vederla maltrattare come una appendice inutile del resto d’Italia, specie confrontando con il trattamento di favore ricevuto dalle spiagge del centro-sud in estate, con tanto di vacanze a spese dello Stato. Dopodiché, quasi certamente a febbraio ci sarà una terza ondata, ma prima di dire che è lo sci a causarla ci andrei piano; mi sembra più probabile che la possa causare l’assembramento nei negozi o un eventuale giro di cenoni al chiuso con venti persone per volta.

“Non è vero, le spiagge estive aperte hanno causato la seconda ondata!”
Mi sembra una teoria un po’ strana, hai dei dati a supporto? No, perché la crescita esponenziale e ubiqua della seconda ondata è iniziata due settimane dopo che sono state riaperte le scuole, non due settimane dopo le feste di Ferragosto. Sono tutte ipotesi abbastanza campate in aria, ma se proprio dovessi ipotizzare una causa specifica…

“Appunto, sarebbe meglio tenere tutto chiuso fino ad aprile, altro che cenoni e shopping natalizio!”
Per quanto mi riguarda potrei anche essere d’accordo, però capisco che sarebbe un disastro epocale per categorie già alla canna del gas: è facile dirlo quando sei un dipendente pubblico e la tua maggior preoccupazione è organizzare uno sciopero il 9 dicembre perché il 4% di aumento non ti basta, è meno facile quando sei un operaio in cassa integrazione dalla primavera e aspetti ancora che l’INPS ti paghi quella di luglio, o quando senza riaprire il negozio non sai più come pagare le bollette di casa e il governo ti promette “ristori” che arrivano poco e tardi o non arrivano proprio, e in più ti prende anche per il culo regalando 500 euro a testa anche a gente senza problemi economici perché si compri la bici da corsa nuova. Detto questo, il punto è un altro: se si decide di riaprire i negozi, i ristoranti e pure le chiese per le messe collettive, non si capisce perché gli unici sfigati debbano essere quelli che vivono di sport invernali all’aperto in montagna. Cosa hanno fatto di male?

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mercoledì 25 Novembre 2020, 23:24

Pensavo fosse ovvio (una esegesi di Maradona)

Pensavo fosse ovvio, ma visto che c’è gente che si lamenta degli omaggi a Maradona dicendo che era un cocainomane evasore fiscale che picchiava la fidanzata, mi tocca precisare quanto segue.

Maradona è una leggenda, è al di sopra del bene e del male e delle leggi del mondo e della fisica, e lo è proprio perché è stato insieme esagerato nel bene e esagerato nel male. Ma lo è anche perché non era malvagio lui, ma piuttosto il male ce l’aveva dentro come ostacolo, era geneticamente stampato nel suo essere piccolo, brutto e figlio delle favelas, con una montagna da scalare solo per avere le stesse opportunità dei nati meglio. Era il male di tutte le periferie del mondo, di tutti gli sconfitti in partenza che una volta su un milione per miracolo, con talento e con furbizia, arrivano in cima; e per questo tutti gli sconfitti del mondo si riconoscevano in lui, e lui in loro.

Inoltre, Maradona – a differenza di altri che sono grandi calciatori e niente di più, da Pelé a Platini, alla cui morte non piangeranno i popoli – è riuscito ad arrivare in cima senza leccare culi, senza accomodarsi col e al potere, senza comportarsi da bravo bambino e sorridere alle telecamere, ma piuttosto abbracciando Fidel e Hugo Chavez e mandando affanculo i giornalisti, ben sapendo che questo lo avrebbe tagliato fuori da tante cose e fregandosene lo stesso.

Io sulla tomba di Maradona metterei una foto come quella qui sotto, quella in cui al mondiale del 2018 fa un doppio dito medio alle telecamere, dopo che l’Argentina a quattro minuti dalla fine ha segnato il gol qualificazione a una di quelle classiche nazionali africane che a ogni mondiale vengono strapompate dai media in nome del politicamente corretto, salvo poi fare regolarmente cagare a spruzzo. Maradona col politicamente corretto ci si puliva il culo, e se questo non vi piace, potete andarvene affanculo anche voi.

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