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mercoledì 4 Agosto 2010, 16:54

Una gita altrove

Era quasi mezzogiorno e la nostra giornata di gita a Hangzhou prometteva malissimo: viaggio terrificante (cinque ore abbondanti dall’albergo di Shanghai alla sponda del Lago Occidentale), macchina fotografica mezza rotta (se uso troppo zoom impazzisce e tiene aperto l’obiettivo tanto da bruciare la foto) e caldazza mostruosa e intollerabile (del clima non vi ho ancora parlato e forse è meglio non farlo, se no in Cina non ci verrete mai). E invece, zitta zitta, la Cina ha piazzato uno dei suoi miracoli e ci ha regalato un’ora memorabile, che da sola valeva tutto il viaggio.

Hangzhou si trova a circa 200 km da Shanghai; è una cittadina – solo cinque o sei milioni di abitanti – che vive tra un glorioso passato e il suo ruolo amministrativo di capoluogo dello Zhejiang. Ci sono comunque parecchie cose da vedere a Hangzhou, in particolare templi e pagode, ma l’attrazione della città è indubbiamente il Lago Occidentale, un bacino circolare di circa tre chilometri di diametro su cui si affaccia il centro storico. Su un lato del lago c’è la città, ma sugli altri tre ci sono delle bellissime colline punteggiate di monumenti. Le sponde del lago sono occupate da altri monumenti, da giardini cinesi, da varie isolette collegate tra loro da ponticelli che superano laghetti pieni di fiori di loto.

Il posto è dunque un esempio magnifico della filosofia cinese tradizionale nell’approccio alla natura, che è quello di non violentarla ma piuttosto di “appoggiarvisi†armonicamente. Come la Grande Muraglia segue perfettamente il crinale dei colli senza tagliarne via un metro, così nel lago l’intervento umano è stato discreto, cercando di sottolinearne la bellezza invece di dominarla. In particolare, già secoli fa gli imperatori cinesi fecero costruire due passeggiate artificiali, parallele alla riva, che tagliano il lago nei punti di basso fondale con un viale alberato e ombreggiato, e permettono di goderne appieno, creando al tempo stesso un sistema di altri laghi più piccoli e poi più piccoli ancora, punteggiati di isolette.

Eppure, stamattina la magia funzionava poco: il posto era bellissimo, ma i quaranta gradi avevano provocato una cappa di calore che era diventata foschia; voi avete presente la foschia delle estati italiane, ma qui il calore è tale che la foschia diventa nebbia e il paesaggio d’agosto sembra quello di novembre, precludendo alla vista ogni paesaggio, e però diventando anche insopportabilmente soffocante. A questo vanno aggiunte le orde di turisti, per quanto un po’ meno dense che a Pechino; tra l’altro in tutto il giro abbiamo visto solo altri tre occidentali in tutto, e infatti più volte siamo stati additati e abbordati dai locali.

Poi però è successo un primo miracolo: arrivati a forza di camminare nell’angolo nordoccidentale del lago, il cosiddetto Giardino Quyuan, abbiamo percorso un magnifico ponticello di pietra a svolte – uno di quei ponti classici cinesi che non collegano le due sponde in linea retta, ma compiono più e più svolte ad angolo retto, poiché si riteneva che i demoni potessero inseguire gli umani per assalirli ma non fossero capaci di seguire le svolte. Abbiamo attraversato un piccolo padiglione e la superficie di fiori di loto, siamo arrivati in una piazzetta su una delle isolette, e lì c’era una cartina del giardino.

Ho visto un gruppetto di isolette nell’angolo più estremo del parco e ho detto: prima di tornare sul percorso principale, infiliamoci da lì e facciamoci un giro. Dopo un paio di curve, siamo rimasti soli: nonostante la grande densità di turisti, nessuno si era spinto fin lì. Abbiamo camminato per un buon quarto d’ora senza incontrare nessuno, scoprendo un nuovo scorcio a ogni metro, tra gli alberi, i laghetti, i ponti, gli edifici in stile cinese. Abbiamo fatto tante foto, ma non rendono il senso di meraviglia che abbiamo provato perdendoci in quel luogo finalmente e incredibilmente tranquillo, eterno, sospeso nell’altrove. E’ stato un incantesimo, finché dopo l’ennesima svolta, senza nemmeno più sapere dove stessimo andando, ci siamo ritrovati inaspettatamente al punto di partenza, pur volendo andare da tutt’altra parte; prelevati dalla realtà e riportati infine in essa.

Proprio allora, senza preavviso, abbiamo sentito quattro scoppi sordi e ritmati, come quattro grandi colpi di tamburo. Guardando il cielo, sopra le colline era comparso di botto un nuvolone grigio, che da un lato sbordava dentro un bianco osceno ed alieno, pieno di una luce innaturale. In breve abbiamo percepito l’arrivo del temporale, e temendo le prime gocce, che ancora non arrivavano, ci siamo affrettati a concludere il giro verso un magnifico ponte dal tetto a pagoda a due piani, visibile da varie angolature al fondo del laghetto e uscito direttamente da qualche fiaba cinese.

Siamo arrivati al viale tra gli alberi che portava dritto al ponte; era buio del buio del cielo e poco amichevole, ma tra i rami sui lati si distinguevano le acque del lago che avevamo costeggiato e dall’altra parte quelle del lago successivo, molto più grande. Giunti all’inizio del ponte, ci siamo infilati tra gli alberi per fare le foto al lago dalla riva, prima di salire gli scalini di pietra. Tutto era fermo e immobile, e poi d’un tratto, all’improvviso, un lampo e un tuono terribile.

Di colpo, dal niente, si è alzato il vento; e le foglie già gialle degli alberi hanno cominciato a caderci in testa, lentamente, dal buio della volta di rami, come coriandoli messaggeri di sfortuna; in un attimo si sono piegati gli arbusti, si sono piegati i rami, i salici piangenti si sono distesi in orizzontale e hanno cominciato a scuotere i capelli davanti alla corrente d’aria.

Siamo saliti sul ponte, dove si era già rifugiata una torma di bimbi cinesi che ci hanno guardato con tanto d’occhi, come fossimo noi gli spiriti; si sono dati di gomito, ci hanno indicati e guardati e alla fine il più coraggioso ha tentato un “ni hao!â€, spaventandosi poi per la risposta. Aspettandoci la pioggia non ci siamo fermati sul ponte, ma abbiamo proseguito di corsa per ritornare verso la riva, al sicuro tra i negozi e i ristoranti, invece che insistere su una lingua di terra larga una decina di metri, chiusa tra un lago e l’altro e coperta di alberi.

Siamo così arrivati di nuovo ad affacciarci sul lago principale; il vento era aumentato ancora, le nuvole grigie tempestavano la città dall’altro lato dell’acqua, e lo spettacolo era incredibile. Il Lago Occidentale è grande ma comunque solo qualche chilometro, eppure la forza del vento era tale da scatenare una vera mareggiata. L’acqua era bianca di schiuma e urtando le pietre delle antiche rive spruzzava in alto verso chi provasse a passare; le barche che normalmente navigano il lago, portando i turisti dalla riva all’Isoletta delle Fate che sta proprio al centro, correvano per tornare agli attracchi, sballottate dalle onde. Tuoni e fulmini continuavano da un pezzo e il tifone stava per arrivare, e ora non volavano solo più le foglie ma cespugli e rami, e l’acqua con essi.

Cadevano le prime gocce di pioggia, grosse, calde e pesanti come solo nei climi tropicali; non portavano freddo, ma colpivano come stanchi proiettili. Aprire l’ombrello era inutile, a meno di non voler finire come Mary Poppins. Ma la sensazione strana, davvero unica, era quella dello scontro di cieli; un attimo arrivava una folata d’aria a quaranta gradi, e l’attimo dopo una in senso contrario a quindici o venti. Le gambe erano fresche, la testa era in un phon; e le due correnti tiravano con forza in direzione opposta, in un invisibile braccio di ferro.

E poi, di nuovo senza preavviso, tutto si è acquietato; alle prime gocce di pioggia non sono seguite né le seconde, né le terze. In fretta come era arrivato, il temporale è passato prima di cominciare a esistere; e abbiamo avuto per un’ora il privilegio di un cielo finalmente quasi azzurro, senza più la cappa di caldo e la nebbia estiva, e una luce bianca e fortissima davvero particolare, moltiplicata dai riflessi delle colline sul lago. Abbiamo fatto i video del temporale e le foto della luce, ma di nuovo non rendono; bisognava essere qui per vivere tutta la magia di questo luogo.

[tags]viaggi, cina, hangzhou, lago occidentale[/tags]

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martedì 3 Agosto 2010, 17:58

Il circo a Shanghai

A me non è mai piaciuto il circo; l’ultima volta che ci ero andato avrò avuto dieci anni. Qui mi ci hanno trascinato a forza; ci andava praticamente tutto il gruppo e non volevo fare l’asociale.

Invece mi sono ricreduto; già era bello il posto – lo Shanghai Circus World, un teatro circolare costruito appositamente per il circo e dotato persino della sua apposita fermata della metro. Poi, lo spettacolo mi ha lasciato davvero a bocca aperta.

Era uno spettacolo cinese per cinesi, per quanto ci fossero alcuni gruppi di turisti occidentali; ed era basato su un mix di acrobazia e suggestione audiovisiva. Alcuni erano numeri da circo classici, altri mescolavano danza, ginnastica artistica, arti marziali, il tutto con un sottofondo di musica suonata dal vivo. Ora, io non mi intendo di queste cose, ma sono rimasto spesso a bocca aperta di fronte alla difficoltà apparente di ciò che vedevo a pochi metri da me: tipo il tizio che sta in piedi su un tubo rotondo, sul quale è posta un’asse, sulla quale stanno quattro bicchieri ai quattro angoli, su cui sta un’altra asse, con altri quattro bicchieri, e così via per quattro piani; sopra c’è lui, che sta in equilibrio su un piede solo e regge sulla testa tre tazze, mentre sull’altro piede mette impilate altre tre tazze, poi le lancia in aria e hop!, le tre tazze volteggiano e si infilano tutte insieme in pila sulle tre che ha già in testa. E questo era solo il secondo numero della serata… più avanti, per esempio, un altro tizio ha fatto giocoleria con un vaso di porcellana grosso come un catino, lanciandoselo e passandoselo un po’ su tutto il corpo.

In alcuni casi mi sono seriamente preoccupato, anche perché solo in un paio di casi gli acrobati erano legati in qualche modo; sembravano spesso sul punto di spiaccicarsi da venti metri d’altezza. Ma c’è un numero che ha colpito tutti, quello dei tessuti aerei – una coppia di acrobati che si aggrappano a lunghi drappi e cominciano a volare. Sono a dieci, venti metri da terra e apparentemente non sono legati in nessun modo; a turno, uno dei due si stacca dai tessuti e rimane a penzolare nel vuoto girando vorticosamente, tenuto soltanto per un braccio o una gamba dall’altro. Tutto questo, sottolineato dalle luci e dalla musica, è un insieme di grazia, forza, bellezza, tecnica e allo stesso tempo una grande metafora dell’amore, in cui ognuno deve buttarsi e lasciarsi andare e fidarsi ciecamente che l’altro lo prenderà e non lo lascerà cadere. Dev’essere per questo che siamo rimasti tutti tanto emozionati.

[tags]viaggi, cina, shanghai, circo, acrobati[/tags]

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lunedì 2 Agosto 2010, 17:15

La settimana enigmistica con gli ideogrammi

Imparare veramente il cinese è difficile, ma districarsi tra le indicazioni durante un soggiorno lo è molto meno di quello che sembri.

Certo, il primo passo è riuscire a leggere decentemente il pinyin – la traslitterazione del cinese in caratteri latini – e a questo scopo ci vuole un primo sforzo, ovvero farsi entrare in testa la pronuncia di una serie di consonanti che si pronunciano in maniera nettamente diversa da ciò che un italiano si aspetta, dalla c (che è la z di zucchero) alla q (che è la c dolce), dalla x (che corrisponde al nostro sc) alla zh (che è la g dolce), fino alla r che indica convenzionalmente il suono neutro di un gargarismo, dato che nell’alfabeto c’è già la l e che una delle cose più frustranti che potrete fare nella vita è cercare di insegnare a una guida cinese a dire “grazie†in italiano: lei risponderà trionfante “ok: glazie!†e tu “no: grazie†e lei “glazie†e così via.

Le vocali sono più abbordabili, a parte la e che si pronuncia una cosa tipo öa; dopodiché la pronuncia è risolta, dato che il cinese è fatto di sillabe e che ogni sillaba è data da una consonante iniziale (talvolta mancante) seguita da un numero abbastanza ridotto di possibili finali, fatti da una o due vocali seguite opzionalmente da n, ng (una n più lunga) o più raramente r. Aggiunti pochi casi particolari (il più frequente è che la i in fine sillaba è muta dopo buona parte delle consonanti), la pronuncia poi è piuttosto regolare.

Superato il primo scoglio, sarà possibile perlomeno leggere dalla guida o dai cartelli (che, almeno nelle città, riportano praticamente tutti anche il pinyin sotto gli ideogrammi) i nomi delle fermate della metropolitana, dei quartieri e delle vie, nonché quelli dei luoghi e delle persone. Certo, il cinese ha i famosi “toniâ€, che però, se non dovete costruire frasi di senso compiuto ma semplicemente leggere una parola in modo vagamente comprensibile a un tassista, potete tranquillamente ignorare; al massimo si può imitare la pronuncia dei cinesi.

Ma non vorrete certo fermarvi qui! I cinesi sono persone piuttosto metodiche, almeno per quanto riguarda la toponomastica; e infatti nei nomi di vie e luoghi si assiste a un abuso dei quattro punti cardinali. A Xi’an (che già di suo si chiama “pace dell’ovestâ€) le quattro vie principali che si diramano dalla piazza centrale si chiamano Viale Nord, Viale Est, Viale Sud e Viale Ovest; a Pechino (che già di suo si chiama “capitale del nordâ€) le strade hanno nomi come “parte ovest della via all’interno della porta est†e “parte nord del terzo anello ovestâ€. Di Nanchino (“capitale del sudâ€) vi saprò dire tra qualche giorno, mentre Shanghai è divisa in due grandi parti: Pudong (“a est del fiumeâ€) e Puxi (“a ovest del fiumeâ€). Dunque, una volta imparato bei, dong, nan, xi – magari aggiungendoci una manciata di altre parole come zhong (centro), men (porta), jie (via) e lu (strada) – potrete decifrare buona parte della geografia locale.

Vale anche la pena di impararsi i numeri, anche perché sono del tutto regolari: imparato a contare da uno a dieci, di lì in poi si prosegue con dieci uno, dieci due… due dieci, due dieci uno, due dieci due… Ormai quasi ovunque i numeri sono scritti con la nostra scrittura anziché con i loro ideogrammi, alcuni dei quali peraltro sono abbastanza intuitivi – scritti con le barrette orizzontali anziché quelle verticali usate dai romani, mentre dieci è scritto con un + anziché con X.

A questo punto però val la pena di essere ambiziosi e di cercare di imparare almeno qualche ideogramma! In questo si è facilitati da una cosa: il cinese è una lingua “monosillabicaâ€. A ogni ideogramma corrisponde una e una sola sillaba: dunque per la strada troverete continuamente scritte di tre o quattro ideogrammi sottotitolate in pinyin con tre o quattro sillabe. L’associazione tra ciascun ideogramma e la sua lettura a quel punto è immediata; e chi ama l’enigmistica, quando trova una scritta di cui conosce la traduzione, può dunque divertirsi a riconoscere gli ideogrammi noti e provare ad assegnare per esclusione un significato a quelli ancora ignoti, tenendo conto che le parole più semplici si scrivono con un solo ideogramma mentre quelle più complesse sono composte da due ideogrammi (dunque due sillabe) uno di seguito all’altro.

Il problema è che molti ideogrammi sono talmente complicati che noi non riusciamo nemmeno a distinguerli l’uno dall’altro; i cinesi imparano a scomporli in componenti, il che permette da una parte di trovare le similitudini (dunque intuire i significati per paralleli) e dall’altra di memorizzarli e distinguerli con facilità. Eppure, quelli più semplici restano in testa quasi subito.

Le prime scritte che vedrete ovunque, già all’aeroporto, sono “entrata†e “uscitaâ€. “Entrataâ€, in particolare, è composto da due ideogrammi facili facili: il primo è ru (entrare) e rappresenta due radici che entrano nel terreno, e il secondo ha la forma di un quadrato attraverso cui si può passare e più precisamente è kou (bocca e dunque anche apertura, passaggio). Il secondo ideogramma che subito si distingue è ren (persona), che si distingue dalle radici perché ha la testa dritta; la persona con le braccia aperte è da (grande), mentre aggiungendo un’altra barretta in cima si ha tian (cielo, dio). La porta (men) è rappresentata dai tre pali di una porta con un trattino in alto a sinistra; e i quattro punti cardinali, anche se non semplicissimi, entrano in testa perché sono molto frequenti.

Con un po’ di attenzione si riconoscono in fretta anche gli ideogrammi per sopra e sotto e quelli per unità di misura piuttosto comuni, come metro, giorno, mese, ora e minuto (questi ultimi due familiarmente detti l’anatroccolo e il calamaretto), nonché l’ideogramma di “numero identificativo” (l’omino inginocchiato), che viene messo dopo il numero vero e proprio, scritto all’occidentale, nelle scritte come “linea della metropolitana numero 8†o “terminal 2 dell’aeroportoâ€.

A questo punto se vedete sul tabellone una lunga sequenza di ideogrammi con in mezzo “3 omino inginocchiato 5 calamaretto†potete capire che mancano cinque minuti al prossimo treno della linea 3, e non tre minuti al prossimo treno della linea 5. Non è molto ortodosso, ma funziona!

P.S. Poi potrete togliervi delle belle soddisfazioni: per esempio, noi che siamo cresciuti nei gloriosi anni dell’elettronica da bar ci chiedevamo sin dall’età di dieci anni cosa cavolo volesse dire Yie Ar Kung Fu. Detto che la traslitterazione corretta è “yi er gong fuâ€, basta girare un po’ con i turisti cinesi per vederli continuamente in posa davanti all’amico che fa la foto gridando “yi, er…†e poi facendo click. Infatti, mentre noi per sincronizzarci contiamo alla rovescia, loro contano semplicemente “uno, due…†e al tre fanno quel che devono fare!

[tags]viaggi, cina, lingue, cinese, enigmistica[/tags]

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domenica 1 Agosto 2010, 16:49

Storie di comunismo cinese

Rieccomi qui, dopo tre giorni di giro a Pechino. Forse pensavate che la polizia cinese mi avesse portato via (qualcuno ci sperava anche) e invece no, è che portarmi dietro il PC sembrava esagerato, anche perché all’andata abbiamo preso il treno notturno (e già quella è un’esperienza che meriterà un post).

Per questo racconto serale però non parlerò di Pechino, anche perchè la visita di stamattina alla Città Proibita è stata una delle esperienze più miserabili della mia vita: immaginate la calca del Festival delle Sagre, addensatela di tre o quattro volte, moltiplicatene l’estensione per venti e avrete una vaga idea di cosa abbiamo trovato. Mentre ero lì pensavo che vale davvero la pena di sconsigliare di venire a Pechino in agosto, perlomeno nei fine settimana… E ovviamente va sottolineato che gli stranieri erano non più del venti per cento: considerate che c’è circa un miliardo di cinesi che non ha mai potuto spostarsi dal suo paesello e che ora si trova la possibilità di visitare il centro della Cina in torpedone e pentole, e immaginate cosa succederà ai luoghi turistici di questo Paese nei prossimi anni.

Volevo dunque raccontare invece della cena di ieri sera – no, non dell’anatra alla pechinese, che è buona ma comunque secondo me non vale i soldi che te la fanno pagare e il mito che la circonda (alla fine, stringi stringi, è un burrito con salsa di soia). Ma della signora che abbiamo invitato, dopo averla reperita per conoscenze varie.

E’ una signora italiana che è venuta per la prima volta a Pechino nel 1988, mentre studiava cinese all’università; e dal 1992 vi è venuta a vivere, sposando un cinese e rimanendo qui per quasi vent’anni. Ha dunque vissuto direttamente tutta l’evoluzione della società cinese, e la sua conclusione è stata che per lei che ci vive è infinitamente meglio adesso, ma che chi la visita ora non potrà più vedere ciò che la Cina è stata per secoli e che sopravviveva ancora fino a quindici anni fa.

Ha cominciato descrivendoci della sua esperienza di studente straniero, che allora doveva vivere in una foresteria separata dentro l’Università; a ogni studente lo Stato, che allora era comunista sul serio, forniva un corredo fatto di un letto di ferro, un materasso spesso pochi centimetri, una sedia e un tavolino di legno per studiare, e un armadio di cartone ad un’anta. Fine: non si poteva avere altro, perchè come in tutti i sistemi comunisti non bastava avere i soldi per procurarsi oggetti, a meno di non ricorrere ai prezzi folli e ai pericoli del mercato nero. Per poter comprare qualsiasi cosa, dal riso ai vestiti, serviva un coupon; lo Stato decideva quanti coupon potevi avere ogni anno per ogni bene, in base alla tua professione e al tuo livello di anzianità, e tu al massimo quello potevi avere e nulla più.

Quello era il momento delle prime libertà: tra gli studenti circolavano giornali e notizie sul resto del mondo. Il contatto con gli occidentali non era comunque gradito, tanto che lei conobbe il suo futuro marito il quale, semplicemente per essere stato visto parlare con lei un po’ di volte, fu punito dopo la sua partenza. L’anno dopo ci furono le manifestazioni studentesche, che subito furono represse, ma che fecero capire al regime che il livello di chiusura e la povertà che esso generava non erano più sostenibili.

La signora ci ha dunque raccontato di quando il partito annunciò con grande enfasi che da quel momento in poi veniva introdotta, ovviamente tra molti vincoli, la libertà di commercio a titolo privato. Nel giro di una settimana i custodi dello studentato misero su un bazar e cominciarono a farsi i soldi…

Nella prima metà degli anni ’90 cominciarono timidamente a nascere le aziende private, sia cinesi che straniere (gli stranieri non potevano possedere più del 50%, limite che poi è stato tolto alcuni anni fa). Ovviamente quasi tutti i cinesi – tranne pochi pionieri, che ora sono in buona parte tra i mille uomini più ricchi del pianeta – le schifavano e preferivano continuare a lavorare per le “unità di lavoro†(in un sistema comunista classico non solo tutte le attività economiche sono dello Stato, ma non esiste nemmeno il concetto di “aziendaâ€: tutto è semplicemente un pezzetto infinitesimo dei vari ministeri). L’unità di lavoro era la mamma, come noi le fabbriche fino alla prima metà del Novecento: ti dava la casa, la mensa, l’assistenza. Le case non avevano i bagni, ma vi erano (vi sono tuttora) toilette pubbliche ogni isolato e docce in comune in fabbrica: la gente si lavava al lavoro prima di tornare a casa.

La signora venne a lavorare qui come interprete per le prime sparute aziende italiane, entrate negli anni precedenti per accordo diretto tra il governo cinese e il PCI, e si sposò con il suo cinese. Allora la norma era che l’unità di lavoro dello sposo assegnasse alla nuova coppia una casa, condivisa con un’altra coppia per i primi cinque o sei anni, trascorsi i quali il lavoratore avrebbe avuto una promozione – che avveniva principalmente per anzianità e poco per merito – e con essa un appartamento di livello superiore e così via (per questo motivo le case cinesi cadevano a pezzi, dato che nessuno ne era proprietario, nessuno ci restava per più di qualche anno e dunque nessuno aveva interesse a investirci).

Come coppia mista, allora assolutamente rara, loro ebbero il privilegio di avere da subito una casa da soli: una costruzione semi-fatiscente con una espansione abusiva in mattoni che crollò appoggiandoci la mano, perché non ci avevano nemmeno messo la malta non essendo riusciti a procurarsela. Tuttavia la casa aveva un problema: non solo non aveva il bagno, ma non aveva nemmeno il gas; e il livello del lavoratore non era sufficiente ad avere diritto ai coupon per le bombole di gas. Dunque non si poteva cucinare; la cosa fu risolta solo quando il capo della signora, ottenuto un appartamento in un palazzo nuovo e dotato dei tubi del gas, donò sottobanco alla signora la sua vecchia bombola e la tesserina che autorizzava alla ricarica (ovviamente trasportandosi la bombola a spalle fino al negozio).

In Italia, racconti di questo genere risalgono come minimo agli anni ’40, se non prima; eppure qui stiamo parlando della prima metà degli anni ’90, meno di venti anni fa. Capite allora perché ora i cinesi siano così orgogliosi della loro ricchezza e del loro splendore, e allo stesso tempo siano determinati ad emergere, per certi versi calpestando tutto e tutti senza pietà, per altri impegnandosi al massimo.

A parte la generazione dei ventenni, che vivono di McDonald’s e magliette firmate, tutti gli altri hanno vissuto sulla loro pelle questo sistema (per esempio uno dei docenti universitari ci ha parlato di Mao con odio evidente spiegandoci che lui, bambino a inizio anni ’70, non aveva potuto studiare – una attività pericolosamente borghese – ma era stato subito spedito a lavorare nei campi e aveva dovuto aspettare la morte di Mao per poter avere un’istruzione). Ora che molti di loro – anche se sempre una minoranza rispetto agli 800 milioni di contadini straccioni dell’interno – possono comprarsi un’auto, un cellulare, i vestiti che vogliono, possono scegliere che cosa studiare e che lavoro fare (nel sistema comunista entrambe le cose erano decise dallo Stato per te, in base alla pianificazione economica generale), possono prendersi addirittura due giorni di riposo a settimana pur lavorando dodici ore al giorno negli altri, hanno tutte le intenzioni di godersi la situazione.

Ancora quindici anni fa era tutto all’età della pietra: la signora nel 1995 era andata a lavorare come traduttrice in un cantiere di una diga nel Sichuan, e loro erano i primi occidentali ad aver messo piede in quella zona (allora ancora vietata agli stranieri) dal 1950. Avevano reclutato come operai le minoranze etniche del posto, gruppi semi-nomadi che giravano scalzi, vivevano cacciando e raccogliendo quel che trovavano e non avevano mai avuto in mano del denaro in vita loro. Al pagamento dello stipendio del primo mese, dopo poche ore i soldi erano già spariti: così dovettero insegnargli loro il concetto di risparmio. Con i primi soldi la tribù comprò un bene preziosissimo: ciabatte di plastica rosa per tutti. Nel giro di breve tempo però scoprirono i modi classici di spendere i soldi: fumo, alcool e prostituzione (il giorno di paga richiamava prostitute da decine di chilometri di distanza). Alla fine, comunque, molti di questi divennero operai qualificati: e così ne convertì al proletariato di più l’arrivo del capitalismo che quarant’anni di comunismo.

[tags]viaggi, cina, pechino, comunismo, capitalismo[/tags]

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mercoledì 28 Luglio 2010, 14:28

Come farsi voler bene

La lezione di stamattina verteva sui modi di fare affari in Cina, descrivendoci l’importanza di questo Paese come mercato per le merci italiane, specialmente di lusso: anche nell’anno della crisi mondiale le esportazioni italiane, crollate in tutto il mondo, qui sono salite del 30%. Ci hanno ribadito che loro stessi vivono il loro grande attivo commerciale come un problema, per cui vorrebbero importare di più e far crescere i consumi, passando da fabbrica di prodotti senza nome di bassa qualità a competitor diretto dell’Occidente sull’innovazione, sulla tecnologia e persino sui brand.

E poi, ci hanno fatto vedere come non entrare sul mercato cinese: vincitrice del primo premio per il peggior marketing in Cina è stato uno spot della Nike del 2004 con protagonista LeBron James (per chi non lo conoscesse, è un nero americano che gioca a basket) che in un minuto riusciva a stendere un vecchietto cinese a pallonate, sconfiggere due dragoni (in Cina animale portafortuna nonché sacro simbolo nazionale), semidistruggere una pagoda e infine trionfare su un avversario cinese, con i grattacieli di Shanghai e le torri tradizionali sullo sfondo. Come a dire: arriviamo noi americani, manchiamo di rispetto a tutti i vostri simboli e spacchiamo tutto; veramente un messaggio ben concepito per essere accolti favorevolmente (infatti lo spot fu vietato sull’onda della furia popolare).

Fuori categoria, comunque, si classifica una pubblicità di un’auto Toyota dove la marca giapponese presenta il proprio modello che corre su un ponte cinese decorato da due classici leoni di pietra con le zampe alzate in segno di resa. A nessun cinese può sfuggire che sul Ponte Marco Polo di Pechino, decorato da centinaia di leoni identici a quelli della pubblicità, nel 1937 un incidente tra soldati giapponesi e cinesi divenne il pretesto per l’invasione e sottomissione giapponese della Cina; e probabilmente non sfuggiva neanche al pubblicitario giapponese che ha ideato il messaggio. Ah, l’amicizia tra vicini!

E’ anche vero che l’italiano nell’approccio alla Cina non è meglio, anzi si distingue per la difficoltà nel relazionarsi con un minimo di buone maniere. Oggi l’università locale ci ha organizzato una visita in un piccolo villaggio rurale alla periferia di Shanghai, nascosto tra strade e superstrade ma ancora dedito all’agricoltura. Si tratta essenzialmente di piccoli orti di frutta e verdura – nessuna coltura intensiva e tutto fatto a mano – circondati da qualche grappolo di case; da una parte c’era uno stradone nuovissimo con una serie di villette a due piani che sembravano venire dalla periferia americana e non vi avrebbero affatto sfigurato, mentre dall’altra sopravviveva il villaggetto di case un po’ più vecchie, ma non molto diverse – a parte lo stile decorativo un po’ tronfio, con tanto di colonne corinzie all’ingresso – dal genere di villette che si trovano nei paesi liguri o nelle campagne del centro-sud, con tanto di vicoletti percorsi da motorini e fazzoletti di terreno con gli alberi di pesche o le viti.

In una casa di questo villaggio ci hanno invitati a fare cena, con tutte le vecchiette a guardarci nel cortile – e i vecchi qui sono veramente grinzosi e sdentati, consumati da decenni di lavoro manuale nei campi. Ci hanno fatti entrare e ci hanno sistemati un po’ in salotto e un po’ in cucina, e ci hanno dato un piatto di riso con maiale e verdure e una zuppa con dentro uovo (frittata) e pomodoro, in buona parte roba coltivata da loro.

I piatti erano decisamente buoni, ma anche non lo fossero stati avremmo dovuto onorare l’ospitalità; e invece alcuni degli studenti (non tutti per fortuna) hanno cominciato a lamentarsi che non volevano il riso, che chissà dove l’avevano cucinato, che la zuppa era poco salata, troppo salata, mezza salata, troppo oliata, insomma era una zuppa e stando lì rischiavano di fare tardi per andare in centro in tempo per due spaghetti alla carbonara al ristorante italiano e poi il Mint, che sarebbe la discoteca più di moda della Cina orientale. Alla fine, molti piatti sono stati lasciati lì intonsi o quasi.

Da bravi italiani abbiamo un po’ recuperato con la simpatia, facendo i piacioni con le vecchiette (in qualche caso sfiorando un po’ la sindrome specchietto & perline, cioè facendo loro la foto e poi facendo vedere che schiacciando un pulsante compariva la loro faccia). Alla fine credo che l’evento sia andato bene, anche se non lo sapremo mai perché comunque un ospite cinese non ti verrebbe certo a dire in faccia che ti sei comportato da maleducato; mi ha stupito comunque l’assoluta incapacità di comprendere la differenza di comportamento che deve esserci tra andare al ristorante ed essere ospiti di qualcuno, anche (anzi a maggior ragione) di un contadino cinese per cui la tua visita è un evento importante.

Certo che alla fine questa manciata di ventenni italiani, quasi tutti figli di buona famiglia del Varesotto, seduti lì con le loro magliette firmate e i loro iPhone sui gradini di pietra in un cortile di cemento cinese (lamentandosi che per terra c’era la polvere e i pantaloni si sporcavano), ci hanno fatto tenerezza: non sono per niente cattivi, è che oggi i giovani in Italia vengono generalmente su così. Nel gruppo dei docenti ci dicevamo che magari tra quarant’anni qualcuno di loro si troverà così, seduto nel cortile di una casetta padana e senza denti, a vedere i ricchi turisti cinesi che passano e lo indicano col dito. Non glielo auguro, ma non è affatto improbabile.

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martedì 27 Luglio 2010, 16:40

Un giro nel cuore della Cina

Shanghai è come Los Angeles, solo più nuova nelle infrastrutture e più povera negli slum che vengono attraversati dalle stesse (anche se ricordo che South Central LA non ha niente da invidiare alle favelas brasiliane, figuriamoci agli animati vicoli cinesi). Xi’an, invece, è ancora Cina verace; anch’essa ha la sua brava dose di palazzoni nuovi nuovi col tetto a pagoda del ventunesimo secolo e di centri commerciali di iperlusso con le Porsche parcheggiate davanti, ma sono nettamente di meno; e intorno ad essi resta la Cina che fu, quella dei grigi condomini-alveare, delle casupole fangose e delle industrie pesanti di Stato.

Intanto, però, Xi’an ha qualcosa di magnifico e cioé le sue mura cinesi ancora sostanzialmente intatte (ok, davanti alla stazione ferroviaria le hanno trasformate in tre giganteschi viadotti di cemento per permettere il passaggio del flusso immane di gente dalla stazione alla città e viceversa, ma sopra le arcate di cemento hanno rimesso i mattoni medievali uguali uguali). Sono davvero immense: noi vediamo un centro città racchiuso da un rettangolo di mura e pensiamo “beh, dentro ci saranno i vicoletti e tutto sarà a portata di piediâ€. Ma per niente: il rettangolo è di circa 5 x 3 chilometri e dentro c’è la città moderna, visto che man mano che il tempo passava i cinesi hanno raso al suolo tutto e ricostruito vialoni a otto corsie e palazzoni a venti piani, che ora si trovano circondati dalle mura con un effetto abbastanza straniante.

Gli edifici antichi sopravvissuti sono soltanto due, la Torre della Campana e la Torre del Tamburo, mentre all’interno delle mura non vi è un edificio che abbia più di cinquanta o cento anni. Eppure quei due edifici sono davvero belli, forse perché corrispondono pienamente al nostro immaginario dell’antica Cina. Si può entrare e salire per vedere il panorama, e intanto godersi le travi colorate, le decorazioni a forma di drago, l’esposizione di campane o tamburi e anche una mostra di mobili antichi di mogano davvero meravigliosi.

Il quartiere islamico consta di una serie di vicoli pieni di negozietti e bancarelle che cercano di vendere qualsiasi cosa… a cominciare da forme di cibo tanto sconosciute quanto invitanti, quasi tutto alla griglia o alla piastra. Certo il macellaio con la carne marcia sul tavolo e la bandierina che girava cercando invano di scacciare le mosche non prometteva bene per le sorti del nostro intestino, dunque non abbiamo comprato niente… ma fatto tante foto.

Fuori dalle mura, abbiamo visitato la Pagoda della Grande Oca, che poi sarebbe una antica pagoda del VII secolo piazzata dentro un grande tempio buddista a sua volta piazzato dentro un enorme spiazzo pieno di giochi d’acqua e di bambini che fanno il bagno nei giochi d’acqua, ai lati dei quali si trovano fast food e bancarelle. Arrivarci è stato facile, perché la Lonely Planet consigliava il bus 610, che unisce la stazione ferroviaria, la Torre della Campana e appunto la pagoda; ciò nonostante sono stato ben contento di riuscire a capire in che direzione andasse preso, semplicemente guardando l’elenco delle fermate sulla palina, cercando quelle che cominciavano per da (“grande”) – è un ideogramma molto facile da identificare, quello con la persona con le braccia aperte a dire “ho preso un pesce grande cos솖 e poi confrontando il resto con la scritta sulla guida. Altro che Settimana Enigmistica

Ci siamo dunque goduti i giochi d’acqua e musica, che qui vanno fortissimo e prevedono un programma fatto in ugual misura di musica classica cinese modernizzata e musica classica occidentale easy listening – Mozart, l’Inno alla Gioia, le Valchirie e così via. Poi con 50 yuan siamo entrati nel tempio, e non è troppo diverso da entrare in un nostro santuario se non che cambiano i simboli e le forme degli edifici, e che i templi buddisti hanno anche dei giardinetti bellissimi, oltre che un’abbondanza di negozi di souvenir al loro interno. Poi con altri 30 yuan ci siamo arrampicati sulla pagoda, ma al quarto piano di sette ne abbiamo avuto abbastanza, abbiamo fatto le foto da lì e siamo tornati indietro. Valeva comunque la pena.

E poi, lunedì, è stato il momento dell’Esercito di Terracotta. Già arrivarci è un’avventura; i dilettanti vanno alla reception dell’albergo e, per almeno 400 yuan, si fanno affibbiare una guida che parlicchia inglese e che lungo il percorso si fermerà in almeno tre diversi negozi di “artigianato locale†e simili. Noi invece ci siamo affidati al trasporto pubblico: preso il solito 610 – e c’è voluta mezz’ora perché sulla palina in direzione est si erano dimenticati di indicarlo, ma alla fine abbiamo capito che non bisogna curarsi di simili sottigliezze, ma semplicemente placcare il bus quando lo vedi arrivare e lui si ferma – siamo arrivati alla stazione; lì, con un fogliettino con scritto “306 ?â€, siamo riusciti a farci indicare a gesti il capolinea del pullman suddetto.

Abbiamo dovuto attraversare il piazzale della stazione, e nemmeno questo è stato facile: abbiamo scoperto che le leggende sulle stazioni cinesi strapiene di gente che bivacca in attesa di trovare un biglietto o di chissà cos’altro sono assolutamente vere, e in pratica non si riusciva ad arrivare a meno di cento metri dall’ingresso, perché tutto era bloccato da persone stese per terra. Comunque, con un po’ di slalom abbiamo oltrepassato le mura e siamo arrivati nel parcheggio sul lato est della stazione, da dove parte il 306, un bel pullman turistico che parte appena si riempie (cioè in cinque minuti) e per 7 yuan 7 ti porta al parco del Monte Li (con la funivia e le sorgenti termali) oppure all’altro capolinea, cioè il parcheggio dell’Esercito di Terracotta. Ci ha messo un’ora e venti a causa di ingorghi in uscita da Xi’an, ma alla fine ci è arrivato.

L’Esercito di Terracotta, pur trovandosi in mezzo alla campagna a una trentina di chilometri a est di Xi’an, è una delle maggiori attrazioni turistiche di tutta la Cina, e dunque è normale che per arrivarci uno sia costretto ad attraversare una vera città di negozietti e ristoranti appositamente costruita per intercettare i turisti… che, badate, sono per almeno tre quarti cinesi, e solo in piccola parte occidentali. L’ingresso costa 90 yuan (oltre 10 euro), una piccola fortuna per qui (è la cifra con cui oggi, dal sarto, ho comprato una camicia su misura).

Però, insomma, li vale. All’inizio la scena lascia un po’ perplessi, perché ci si trova di fronte a una specie di hangar coperto, grosso come un campo da calcio, dentro il quale c’è lo scavo con queste centinaia di statue, in parte rimesse in sesto e visibili, in parte frantumate o ancora da scavare. Non è quello che ci si aspetta… e però dopo un po’ si comincia a percepire la grandiosità della scena.

La storia è nota: il primo imperatore della Cina, oltre duemila anni fa, dopo aver sconfitto tutti i nemici, unificato il regno e ottenuto il controllo del mondo voleva mantenere il proprio impero anche nell’aldilà: a tale scopo fece costruire una replica in terracotta di tutta la sua corte – i suoi principi, i suoi animali, i suoi suonatori, i suoi ministri e ovviamente anche il suo esercito. Il tutto fu messo in una replica della sua capitale e interrato, in modo da essere pronto nell’altro mondo.

Non sappiamo se il piano per la conquista dell’aldilà sia riuscito, ma queste figure hanno conservato magicamente in sé un soffio di vita: viste nell’insieme, sembrano davvero un esercito pronto a muoversi e a conquistare il mondo. Molto fa il fatto che le statue siano l’una diversa dall’altra, siano in fila ma non perfetta, e sembrino per questo molto più realistiche di qualsiasi statua della nostra antichità. Ma poi, man mano che ci si addentra nella drammatica megalomania di questo imperatore che non voleva morire – ci sono altre due fosse, un piccolo museo e un centro proiezioni – si viene conquistati dal fascino del luogo.

Al ritorno, poi, ci siamo concessi un’altra avventura: dovete sapere che, siccome questo è un paese comunista, c’è concorrenza persino sulle rotte dei pullman. Pertanto, oltre al 306, anche il 914, gestito da una ditta concorrente, fa lo stesso servizio, passando però non per l’autostrada ma per la strada statale (a pedaggio pure quella…). Il 914 costa uguale ma è più lento e scassato del 306; a questo svantaggio competitivo si sopperisce con una signorina che alle fermate principali scende dal mezzo e letteralmente prende e butta dentro le persone che, come noi, aspetterebbero il 306.

E così, abbiamo visto l’Africa: perché i gruppetti di casupole contadine in mezzo ai campi della piana tra Lintong e Xi’an sono pari pari al Mozambico, con le strade sterrate, i veicoli arrugginiti carichi di rumenta e i vecchi sdentati su una sedia a guardare la strada. Perché alla fine la Cina è tutto: è Los Angeles e l’Africa nello stesso posto, a vivere di vite parallele che forse si incontrano, o forse invece no.

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lunedì 26 Luglio 2010, 19:38

Spostamenti cinesi

Qui è l’una di notte passata e siamo appena rientrati in albergo, a Shanghai, dopo un lungo viaggio di ritorno che comprendeva: Airport Bus No. 1 dal centro di Xi’an all’aeroporto; volo Shanghai Airlines FM9602 per Shanghai Pudong; taxi notturno per circa 45 chilometri dall’aeroporto di Pudong all’albergo dell’università.

Il primo tratto in bus è stato epico; c’è voluta circa un’ora e dieci, ma la prima mezz’ora, necessaria per percorrere i due chilometri dalla Torre della Campana alla Porta Ovest delle mura di Xi’an, è stata spettacolare. Prima o poi spero di avere il tempo di montare i filmati e farvi vedere i cinque minuti di sportellate creative che servono al bus per immettersi nella rotonda che attraversa le mura, negoziando il passaggio con il traffico che attraversa nell’altra direzione, con i pedoni, con i risciò, con i motorini e con altri veicoli non meglio definibili.

Il volo purtroppo era in ritardo di un’ora; ma bisogna dire che per il resto i dubbi sui voli interni cinesi sono stati abbastanza dissipati. Atterrando a Xi’an abbiamo scoperto una dozzina di linee aeree nazionali cinesi a noi totalmente sconosciute (in realtà, a occhio, ogni provincia della Cina ha la sua, e immagino che siano possedute dagli enti locali o almeno lo fossero all’inizio). Shanghai Airlines, di cui voi probabilmente non sospettavate nemmeno l’esistenza, è stata recentemente ceduta al gruppo China Eastern, ma per ora resta un partner Star Alliance (dunque posso persino accumulare miglia Lufthansa). I prezzi sono alti per i locali ma comunque abbordabili, il volo sola andata (due ore di aereo) costava sui 150 euro ma sono riuscito a trovarlo in offerta alla metà. E siccome queste linee aeree hanno tutte avuto un boom negli ultimi dieci anni, gli aerei sono nuovi e ben attrezzati, magari non ultimo modello (il nostro era un Boeing 737) ma comunque varati da pochi anni.

Certamente, se l’aeroporto di Pudong è nuovissimo e sfoggia nei corridoi gli orologi marchiati Rolex, quello di Xi’an era un po’ meno nuovo e un po’ più caotico – anche se ovviamente di fronte ad esso stanno già costruendo un nuovo modernissimo terminal, con la solita joint venture cinese-tedesca. Così ci siamo sorpresi di notare che il nostro gate era lo stesso gate di un altro paio di voli in partenza alla stessa ora o quasi; arrivando lì, abbiamo scoperto che quello è il gate finto per i voli in ritardo, dove c’è un omino che su una lavagnetta scrive e aggiorna continuamente le informazioni, in cinese e in inglese.

Alla fine ci hanno assegnato un gate vero e ci hanno imbarcato prima ancora che sui terminali comparisse la scritta “Boardingâ€, il che ha confuso gli altri occidentali che aspettavano il volo con noi, che erano italiani pure loro. Insomma, siete al gate, vedete una folla che si alza e comincia a infilarsi nel tunnel verso gli aerei, il dubbio vi verrà no? Però lo stesso gruppo si è distinto per un’altra cosa: all’arrivo a Shanghai, a mezzanotte meno dieci, l’aereo si è fermato sulla pista in attesa di ricevere l’indicazione del gate di attracco e di recarvisi. In un aereo occupato da 150 cinesi, indovinate chi sono gli unici che si sono slacciati le cinture e si sono alzati?

Il viaggio in taxi infine è stato piacevole. Eravamo un po’ preoccupati che il tassista non capisse dove dovevamo andare, pur disponendo del canonico bigliettino dell’albergo con le istruzioni in cinese. Invece si è infilato sulle tangenziali giuste (e qui ce n’è un reticolo mica male) e in mezz’oretta, sfrecciando a 120 all’ora con i finestrini aperti e un’arietta finalmente della temperatura giusta, ci ha portato a destinazione (anche se l’ultimo paio di svolte gliel’ho dette io a gesti). Costo circa 25 euro; di giorno sarebbero stati 18 ma la notte dopo le 23, che qui sono notte fonda, costa di più.

Questo giro a Xi’an in due giorni è stata una faticaccia, ma ne valeva la pena, sia per vedere l’esercito di terracotta che per sfrecciare sui bus della città. Ora però vado a dormire, il resto del racconto nei prossimi giorni.

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domenica 25 Luglio 2010, 15:20

Prova (burp)

Questo post serve soltanto a dimostrare che è tecnicamente possibile collegarsi con il mio cellulare al wi-fi di un albergo di Xi’an e scriverne uno: l’attività è talmente macchinosa che non intendo andare oltre. E poi devo ancora digerire la fantastica cena al self-service dell’Hotel Primo Maggio, dove Elena ha un po’ sbagliato le dosi e ci siamo abbuffati con 5 euro a testa, avanzando anche riso e ravioli come colazione di domani in un sacchetto di plastica. Domani sera saremo di nuovo a Shanghai e l’attività blogghistica riprenderà regolarmente.

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sabato 24 Luglio 2010, 13:19

Famolo strano

Roma, qualche tempo fa, in qualche ministero.

“Aoh, senti…â€
“Aoh, dimmi…â€
“Se devemo trovà per prennere ‘na scelta sur padiglione… er padiglione pe’ Sciangai…â€
“Er padiglione?â€
“Sì, quello de l’Expo de Sciangai… c’avemo da fà bella figura… nun poi mica annare llà cor solito cubo de cemento…â€
“Chettefrega, famolo fare a qualcuno no… a quarche architetto…â€
“Eh, è vero, mi’ cugina conosce un tizio che fa l’architetto… è famoso eh, già ha lavorato pe’ nnoi…â€
“E tu chiamalo, chiedije quarche proggetto… quarcosa che sia carino e nun costi tanto, che qui nun ce sta ‘na lira…â€
“Sì però già so come so’ sti architetti… so’ tutte star… ma alla fine l’idea je la devi dare te… dai sprememose le teste, famo un trust de cervelli… io e te… quarcosa che poi viene Silvio a inaugurarlo e sta contento…â€
“E famolo a mausoleo de Silvio no? Silvio Massimo, le colonne, i gladiatori, i baccanali… Cesare dell’antica Roma…â€
“No dai, troppo scontato… già visto…â€
“E farlo co’ quarche simbolo nazzionale? Tipo, che so, a forma de pallone… a forma de pizza…â€
“Ma no, ma no! Cheap, te stai a pensà troppo cheap! Elegante e moderno c’ha da esse… e simbolico ar tempo stesso… e poi anche ‘n po’ cinese, famose venì n’idea cinese…â€
“E chiediamolo a Verdone no? Che c’aveva fatto er film der cinese… quello là…â€
“No, Verdone no, è de sinistra, poi ce cacciano! N’idea cinese ce l’avemo o no?â€
“Trovato! Senti che idea, aoh, so’ troppo forte!â€
“Trovato? E dimme ‘n po’…â€
“Visto ch’avemo d’annà a Sciangai, famolo a forma de sciangai… c’hai presente i sciangai no? I bastoncini che li butti ‘n tera e poi s’accatastano e te li devi tirà senza farli cadere… il gioco… m’hai capito no?â€
“A forma de sciangai! Ma te sei un genio, sei! Grande, grande! Mo’ co’ sta cosa, in Cina ce famo un figurone!!â€

DSC04010s.JPG

Shanghai, 2010.

L’Italia svela con orgoglio il proprio padiglione dell’Expo 2010, caratterizzato da incavi e pilastri storti “a forma di shanghaiâ€. Sconcerto e perplessità tra gli ospiti cinesi, che non riescono a capire l’indicazione. Alla fine, a gesti, la delegazione italiana riesce a fargli capire che in Italia c’è un gioco che si chiama Shanghai, fatto di bastoncini a forma di grosso stuzzicadenti che vengono buttati alla rinfusa e poi estratti senza farli cadere. I cinesi conoscono il gioco, che peraltro da loro è un gioco per bambini di cinque anni, ma ovviamente in Cina non si chiama Shanghai. A dire il vero, non si chiama Shanghai da nessuna parte se non in Italia, e comunque non è certo per un giochino con gli stuzzicadenti che i cinesi vorrebbero che la loro maggior città commerciale fosse ricordata nel mondo. Ed è così che, all’esposizione universale, l’Italia ha partorito l’ennesima genialata per farsi subito riconoscere.

P.S. Comunque, nonostante la nostra ormai proverbiale approssimazione culturale, oggi abbiamo visitato l’Expo e il padiglione italiano era tra i più apprezzati, sia perché qui impazziscono per lo stile italiano, sia perché comunque ci siamo impegnati a riempirlo di cose interessanti da vedere. Però non era difficile: molti degli altri padiglioni europei erano chiaramente fatti a forma di bruttura!

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venerdì 23 Luglio 2010, 15:25

La follia del raviolo

Qui a Shanghai si mangia veramente bene. Abbiamo provato già un po’ di tutto, dal ristorante nel centro commerciale di lusso al baracchino per strada, passando per i ristoranti eleganti per cinesi, le catene di fast food locali e la gastronomia del supermercato: e abbiamo sempre mangiato bene, spesso cavandocela con un paio di euro a pasto (però occhio, se volete un locale dall’aspetto occidentale e un cameriere che parli qualche parola di inglese allora i prezzi si moltiplicano subito per cinque o per dieci). L’unica condizione è che vi piaccia il piccante, altrimenti una buona metà dei piatti risulteranno per voi poco o per niente mangiabili.

L’occidentale, tuttavia, è tratto spesso in inganno dalle proprie consuetudini culinarie – e non parlo solo dell’uso delle bacchette, che a livello base non è poi così difficile, ma che non riuscirete mai a padroneggiare veramente se non dopo lunga pratica. Per esempio, io mi sono trovato con una ciotola di riso bollito da una parte, buono ma insipido, e con il sughetto del pollo o del manzo dall’altra: a un italiano viene naturale pensare di condire il riso col sugo. Errore! Infatti l’appiccicume del riso bollito è fondamentale per la sua prendibilità con le bacchette: mescolando il sugo col riso, i chicchi si staccheranno e diventeranno scivolosi e sarà praticamente impossibile tirarli su, costringendovi a una poco fruttuosa caccia al riso per tutto il piattino.

Il problema principe viene insieme al piatto principe: il raviolo. Qui tutti mangiano ravioli: è il cibo più normale e frequente. E sono buonissimi: la pasta è sottile, appiccicosa (spesso bisogna tirare per staccarla dal piatto o dalla carta che mettono sotto), elastica e resistente, ma consistente quando la mordi; il ripieno varia dalla semplice palletta di carne (ma decisamente più grossa che nei nostri ravioli) a misture varie, ad esempio granchio e maiale, oppure verdure, oppure tutto quello che volete, accompagnato dal suo brodo. In più, dopo essere stati cotti al vapore nelle caratteristiche scatole tonde di legno, spesso vengono “fritti†ovvero passati alla piastra su un fondo di grasso non meglio precisato, ottenendo su un lato una crosta più dura e croccante.

Nel centro commerciale qui vicino, all’interno del “palazzo del cibo†– quattro piani in cui ai livelli più bassi vendono il cibo, ai livelli intermedi te lo danno da mangiare al volo e ai livelli più alti ci sono dei ristoranti – c’è un bugigattolo che dà ravioli fritti preparandoli al momento. La catena del lavoro è la seguente: c’è una gigantesca palla di ripieno, grande come un bambino, in mezzo a un tavolo, attorno al quale ci sono una dozzina di inservienti gomito a gomito che ne prendono una manciata alla volta e lo mettono nel tondino di pasta, quindi con gesti frenetici chiudono il raviolo e lo mettono in una grossa teglia rotonda. La teglia viene cotta e passata sulla piastra, fino ad arrivare al capo cameriere che fa le porzioni e le mette nelle vaschette, servendo il primo della fila. Il tutto si svolge a una velocità da capogiro che nel nostro immaginario assomiglia molto all’idea dei bambini pakistani che cuciono palloni, ma che qui è considerata normale e anzi segno onorevole di un meritevole duro lavoro da parte dei dipendenti del posto.

Si fa presto, però, a pensare di mangiare un raviolo; la realtà purtroppo è diversa. Il primo livello è riuscire a prenderlo con le bacchette; generalmente ciò è reso semplice dalla flessibilità e appiccicosità della pasta, ma le cose diventano difficili se per caso comincia a colare del sugo, in quanto si verificherà il fenomeno già citato dell’unzione della pasta e della bacchetta, che trasformerà il raviolo in una saponetta.

Potreste poi essere tentati di prendere il raviolo e darci un morso per mangiarne metà alla volta: anche questo è un errore mortale. Infatti, non solo la pasta non è così facile da tagliare e spesso vi troverete la pasta attaccata ai denti che viene via per intero e il ripieno che cade di sotto, ma l’apertura inconsulta del raviolo provocherà la fuoriuscita di un lago di brodo a temperatura ustionante; il brodo si trova spesso ad alta pressione e dunque partirà uno schizzo che colpirà la vostra maglietta, la maglietta del vicino, il vostro naso, la borsa del tizio di fronte o altri oggetti vicini a piacimento.

La seconda strategia che viene naturale, imparando dai propri errori, è dunque quella di mangiare il raviolo tutto intero. Siete già sulla buona strada, ma occhio: dopo averlo preso con le bacchette e inserito in bocca, evitate di darci un bel morso, perché a quel punto lo schizzo di brodo a ventottomila gradi vi colpirà il palato e la lingua e ve li porterà via; avrete poco da piangere e da strapparvi i capelli, il vostro senso del gusto sarà volato via per sempre o perlomeno per un paio di giorni. Inoltre, se il raviolo è un po’ grosso, vi occuperà tutta la bocca e la gola, e dopo dieci secondi vi troverete nella spiacevole situazione di non poterlo masticare perché la temperatura è ancora ustionante, non poterlo rigirare perché non c’è lo spazio per farlo, e di non riuscire più a respirare perché la gola è bloccata dal raviolo: rischierete il soffocamento.

Alla fine abbiamo elaborato una terza strategia: sollevare il raviolo con le bacchette, e darci un piccolo morso in un angolo, prendendo soltanto la pasta, per aprirvi un buco. Quindi soffiare dentro per raffreddarlo, e nel contempo succhiare il brodo dal buco un po’ alla volta fino a depotenziare l’arma letale del raviolo. A quel punto è possibile morderlo con più tranquillità e masticarlo un po’ alla volta. Così, più o meno, funziona: sempre che qualcosa non vada storto, e ad esempio il brodo non cominci a colare generando l’effetto saponetta, oppure il raviolo vi cada dalle bacchette a buco aperto e si rovesci cominciando a sputare fuori brodo su tutta la vaschetta.

Però, nonostante questo, ne vale davvero la pena: perché qui i ravioli sono davvero buonissimi.

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