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venerdì 21 Maggio 2010, 18:09

La zona rossa

Se in questa settimana non vi è ancora capitato di vedere le immagini di un gruppetto di studenti dell’Onda che entra al Salone del Libro, cerca di arrivare alla sala dove Giancarlo Caselli presenta un suo libro, i cui proventi vanno a favore di Libera e dell’azione antimafia di don Ciotti, e viene respinta con abbondante e gratuita violenza dalla polizia, con tanto di caccia al ragazzino isolato tra gli stand, vi consiglio di dedicarci dieci minuti.

Naturalmente si potrebbe partire con le generalizzazioni: e “polizia fascista polizia assassina” di qua, e “studenti fancazzisti andate a lavorare” di là. Non è questo l’interessante; a me interessa soprattutto notare una situazione che mi ha molto ricordato i racconti letti sul ’68, e forse più ancora sul ’77.

Caselli e don Ciotti sono due simboli del bene e della sinistra, giusto? Lo sono almeno per quelle persone che identificano il bene con la sinistra e non ammettono su questo discussioni; persone come Michele Dalai, editore del libro suddetto, che su La Stampa si scandalizza per l’accaduto e pianta un pippone moralista contro i giovani contestatori. Si tratta di persone talmente convinte di essere il bene, di essere nel giusto, che non riescono a concepire di poter subire una contestazione e che tale contestazione possa avere una qualsiasi ragione non dico condivisibile, non dico comprensibile, ma anche solo degna di qualcosa di più che una risposta scandalizzata.

Persone che non riescono ad accorgersi di essere invece chiuse in una torre d’avorio, in una sala pagata coi soldi degli operai e della fu classe media di cui loro non hanno mai fatto parte, dentro una ex fabbrica che la famiglia Agnelli si tolse dal groppone grazie al provvido aiuto di abbondanti fondi pubblici da loro destinati, promosse, presentate e montate in prima pagina dal giornale della famiglia suddetta, in una fiera organizzata e presieduta da un piduista (Rolando Picchioni, tessera P2 numero 2095) sempre grazie ad abbondanti fondi pubblici, protette dai manganelli della polizia al loro servizio, a presentare il libro di un “giovane uomo di legge”, tal Carlo Dalla Chiesa; uno che si è assolutamente fatto da sè, come potete leggere sul blog di suo padre, che si vanta di aver visto l’editore del libro del figlio quando stava in culla “all’Elba nel ’73”, cosa peraltro non strana dato che anche l’editore lo è in quanto “figlio di”, e precisamente dell’altro editore Alessandro Dalai, da cui lo divide profondamente la scelta della corrente PD in cui militare.

E’ questa la zona rossa dell’Italia di oggi: l’area protetta militarmente – con la forza pubblica, con l’occupazione dei media, con le auto blu e i giochi di partito, con l’uso comodo delle casse pubbliche – in cui vive l’establishment della sinistra italiana, sempre più solo, sempre più isolato, sempre più lontano dal mondo e sempre più sorpreso – anzi no, indignato – ogni volta che qualcuno osa indicare col dito la sua nudità.

Le accuse mosse da Caselli agli studenti dell’Onda, viste da fuori, sembrano davvero poco sostenibili, tanto è vero che Dalai si guarda bene dal menzionarle. Gli studenti sono stati accusati di “concorso morale” negli scontri per il G8 Universitario – altro evento da zona rossa militare costruito solo per l’orgoglio dei gerarchi della città, di cui feci al tempo un ampio reportage con tanto di foto – non per aver partecipato agli scontri stessi (cosa che andrebbe giustamente punita), ma semplicemente per avere organizzato o fatto parte del corteo.

Eppure la loro protesta scenografica ma pacifica, secondo Dalai, non ha diritto di esistere, anzi deve essere sconfitta da una silenziosa “marcia dei 400” – in realtà è stata bloccata a manganellate dalla Digos e poi dalla Celere in assetto anti-sommossa, ma anche questo Dalai non lo dice, parlando eufemisticamente di “contatto” – che, con il chiaro parallelismo con la marcia dei quarantamila, dimostra l’ormai totale riconversione mentale della dirigenza PD al ruolo del padrone d’antan, com’era l’Avvocato: un caso da manuale di invidia del pene quarant’anni troppo tardi.

E allora, che possiamo concludere? Noi che su Facebook siamo fan dei bulloni addosso a Luciano Lama non possiamo che solidarizzare con gli studenti; di cui non ci sta simpatica l’attitudine da centro sociale, ma che rappresentano la vita che reclama il suo spazio sociale, di fronte a questa congrega di anime morte che pretende di essere sempre nel giusto per diritto divino e di occupare per sempre il centro della scena con il proprio inutile bla bla.

Tanto, di bulloni ormai (e per fortuna) ne volano pochi; volano però le schede con la croce sul simbolo della Lega. La sinistra nelle piazze dovrebbe starci, non dovrebbe temerle esattamente o peggio di come le teme la destra; che girare per strada sia più facile per Borghezio che per Caselli dovrebbe farli riflettere. E invece no; e allora, che dire? Buon Formentini a tutti vent’anni fa, buon Cota a tutti al giorno d’oggi; buon Renzo Bossi a tutti fra vent’an… vabbe’, scusate, vado a vomitare.

[tags]sinistra, caselli, dalla chiesa, dalai, libera, don ciotti, salone del libro, picchioni, torino, pd, lega, borghezio, formentini, cota, bossi, intellettuali, luciano lama, marcia dei quarantamila, invidia del pene[/tags]

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giovedì 20 Maggio 2010, 19:28

Facile come farsi il tè

Non dovrebbe essere difficile andare allo stadio, no? Nemmeno in trasferta, specialmente se l’occasione è quella di fare una bella gita fuori porta in una magnifica città d’arte come Mantova, e già che ci siamo, ecco, passare un attimo dallo stadio a dirimere due faccende, così tra vecchi amici.

Sono infatti quasi quattro anni che il Toro non gioca a Mantova, e per la precisione dalla finale di andata dei playoff di serie B del 2005-2006. Il Toro passò subito in vantaggio, subendo poi quattro-gol-quattro in modo abbastanza incredibile (due colpi di testa e due rigori) e riuscendo solo ad accorciare sul 4-2. Il Mantova era convinto di avere la serie A in tasca, tanto è vero che quella sera fecero festa grande, e che prima dell’inizio della partita di ritorno a Torino, in uno stadio Delle Alpi gremito da quasi 70.000 persone, si distinsero per sfottò e provocazioni, a partire dal loro presidente Lori – industrialotto del posto e prototipo del parvenu – che venne a fare l’aeroplanino sotto le tribune.

Alla fine, in una serata epica, fu 3-1 e promozione del Toro, nonostante il terzo rigore per il Mantova, che oltretutto in campionato era giunto a sette punti di ritardo dal Toro e aveva perso entrambi gli scontri diretti. Comunque, non sapendo perdere, i mantovani se la legarono al dito, accusando l’arbitro e parlando di complotti per favorire la promozione del Toro (si sa, una squadra notoriamente amata dai poteri forti).

E siccome quella sconfitta costituisce gli unici quindici minuti di gloria del Mantova negli ultimi quarant’anni, i mantovani hanno passato gli ultimi quattro anni a rosicare, al punto che quando il Toro l’anno scorso retrocesse in serie B il mitico presidente Lori si mise personalmente alla guida di un corteo festante per le vie della città, mentre tal concessionario Filippini Auto comprò una pagina sul giornalino del posto per sfottere Cairo.

Dopo tanta sportività, si torna a Mantova in un momento delicato per entrambe le squadre: il Toro con una vittoria conquisterebbe matematicamente i playoff per la promozione (ma anche con un pareggio, purché il Crotone non vinca in casa del Cittadella) mentre il Mantova è in zona playout e ha bisogno di punti per non finire in serie C – ammesso che non fallisca, perché nel frattempo il mitico Lori è sull’orlo della bancarotta e non paga gli stipendi da mesi (come peraltro tre quarti delle squadre di serie B; tuttavia Lori non paga nemmeno i suoi operai, e questo è decisamente più grave).

Entrambe le squadre, calcisticamente parlando, fanno schifo al cazzo (perdonate il termine tecnico); non sarà una bella partita, ma non è questo che conta. Conta che sugli spalti ci sarà tanta amichevole rivalità e voglia di scambiarsi gesti di simpatia: per esempio, vari tifosi granata hanno espresso l’intenzione di utilizzare la trasferta anche per provare qualche nuova auto dal concessionario Filippini Auto. In realtà, non dovrebbe succedere nulla di serio, come non successe nulla di serio all’andata (anche se raccontano di incroci tra un pullman di mantovani e il pullman dei tifosi granata di Pesaro, visto che l’autostrada è la stessa). Ma è chiaro che la situazione è speciale.

Per questo motivo, le autorità avevano preso la decisione di limitare la vendita dei biglietti a uno per persona vietando inoltre il cambio di nominativo dopo l’acquisto; significa in sostanza che ognuno deve presentarsi di persona a comprare il proprio, garantendo dunque la schedatura completa e infallibile degli acquirenti (si sa che i tifosi vanno criminalizzati a prescindere).

Lunedì mattina allora sono andato a comprare il mio; i biglietti sono in vendita soltanto “offline” e soltanto nei negozi convenzionati TicketOne (una decina a Torino, ma per chi abita fuori può voler dire molti chilometri di strada). Il primo punto vendita non teneva più il servizio, ma mi ha girato a un secondo… che mi ha detto che la vendita era stata appena sospesa. Sono andato per conferma fino al CTS di via Montebello, che non solo per vendermi il biglietto voleva che facessi la loro tessera da 5 euro (si sa che i tifosi vanno spremuti a prescindere), ma mi ha poi confermato che la vendita era stata bloccata e la trasferta vietata.

Infatti, con 700 biglietti ospiti già venduti, lunedì mattina il questore di Mantova si è svegliato e ha detto: ma ci sarà casino, chiudiamo il settore ospiti! In queste situazioni, chi ha già il biglietto viene (previo sbattimento) rimborsato; peccato che molte persone avessero già anche comprato i biglietti del treno o prenotato i pullman, e chi viene da molto lontano anche l’albergo… in questo caso, peggio per loro: soldi buttati senza preavviso.

Ovviamente è partita un’ondata di proteste, e nel frattempo, a settore ospiti chiuso, i tifosi del Toro hanno cominciato a comprare biglietti per gli altri settori dello stadio, quelli dei mantovani. A quel punto, resosi conto che il problema non era evitabile, martedì mattina la questura di Mantova ha cambiato di nuovo idea: trasferta permessa, ma i biglietti del settore ospiti devono essere venduti solo in Piemonte (come se i tifosi del Toro fossero tutti a Torino), mentre tutti gli altri settori solo in Lombardia.

L’avviso compare sul sito del Toro, molti vanno subito a fare il biglietto; fanno la coda, pagano, escono dal negozio (in questo caso la Fnac di via Roma), leggono bene il biglietto e… gli hanno dato il biglietto non per la curva Cisa, quella degli ospiti, ma per la curva Te, quella degli ultrà mantovani. Infatti TicketOne si è sbagliata e, pare, ha implementato le disposizioni al contrario: settore ospiti in vendita in Lombardia e altri settori in vendita in Piemonte. E il bello è che, essendo i biglietti per disposizioni dell’autorità uno a testa e non trasferibili, chi ha avuto questo biglietto non può nè rivenderlo nè cambiarlo con un altro…

Dopo qualche ora l’errore nel sistema di vendita viene corretto e centinaia di tifosi in attesa (tra cui io, che sono andato al Sassofono di corso Francia, gentilissimi) possono comprarsi il biglietto giusto; ma la frittata è fatta. Inoltre restano tutti i tifosi granata di fuori Piemonte; alcuni hanno mandato per fax copie dei documenti ad amici a Torino, dato che alcuni punti vendita alla fine accettano anche le fotocopie per interposta persona; altri continuano a comprare posti in mezzo ai mantovani. Ma anche in Piemonte non si capisce bene che fare; ad Asti fanno i biglietti del settore ospiti, invece a Novara non vendono niente; c’è gente che sta girando per le autostrade del nordovest pur di trovare un biglietto.

Insomma i tifosi del Toro, dopo aver perso giorni per fare il biglietto, andranno a Mantova sparpagliati per lo stadio, a rischio di scaramucce, a causa dell’approssimazione e delle scelte discutibili di chi gestisce l’ordine pubblico. Ma se ci dovessero essere incidenti, sicuramente si dirà che la colpa è degli esagitati tifosi di Torino… Converrete che per seguire il calcio ci va una certa perseveranza; e che non c’è da stupirsi se, a fronte di tutte queste difficoltà, negli stadi si trovano sempre più ultrà e sempre meno famiglie.

[tags]calcio, serie b, toro, mantova, trasferta, ordine pubblico, ultras[/tags]

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mercoledì 19 Maggio 2010, 08:11

Blu Apple

Scrivo qui un avviso utile agli utenti MacBook Pro: mi capita ogni tanto, riaprendo il portatile dopo averlo lasciato in freeze, che lo schermo abbia una strana tinta bluastra, come se le finestre e le icone fossero state lavate in acqua troppo calda. E’ chiaramente una questione di “profilo colore” dello schermo, con regolazioni del contrasto e della luminosità modificate in modo assurdo, ma non sapevo come risolverla.

Oggi mi sono stancato e dopo un po’ di ricerca ho trovato questo post che spiega la soluzione: è effettivamente un bug del sistema video (documentato dal 2006 e che la Apple non ha ancora risolto…) e si può risolvere, quando si presenta, semplicemente resettando il display premendo Ctrl + Shift + Eject (il pulsante di espulsione CD in alto a destra). In alternativa si può eseguire il seguente comando da terminale, tutto su una riga senza spazi:

/System/Library/Frameworks/ApplicationServices.framework/Versions/A/Frameworks/CoreGraphics.framework/Versions/A/Resources/DMProxy

In attesa che la Apple si svegli e sistemi il problema (saranno troppo occupati a impedire l’uso di Flash sugli iPhone, peraltro non una cattiva idea visto che Flash è la principale fonte di rallentamenti, piantamenti e pubblicità invasiva durante la navigazione), spero che la dritta possa essere utile a qualcun altro…

[tags]apple, macbook, schermo, bug, flash, iphone[/tags]

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martedì 18 Maggio 2010, 15:19

Oscurata RaiNews24

Oggi alla Rai è il giorno del grande salto: non solo Rai2 passa sul digitale terrestre per una decina di milioni di persone – Lombardia, Piemonte orientale ed Emilia occidentale – ma con l’occasione cambiano i loghi dei canali e in parte anche l’offerta. E però, zitti zitti, c’è anche una inquietante novità: è sparita RaiNews (ex RaiNews24).

Accendendo il televisore, infatti, dove prima c’era RaiNews compare ora Rai4; su Sky, al canale 506 – tra una CNN e una BBC World – compare un nuovo canale di sport, RaiSport2 (effettivamente sulle reti Rai c’era un po’ poco sport: domenica pomeriggio in contemporanea trasmettevano su Rai1 il gran premio di Monaco, su Rai2 il campionato di calcio e su Rai3 il Giro d’Italia).

Subito si è scatenata la polemica: giornalisti in sciopero, interrogazioni parlamentari e così via. Infatti, nell’epoca del Minzolini, RaiNews è rimasta l’isola marginale dell’informazione non allineata; diretta dall’ex TG3 Corradino Mineo, è stata ad esempio l’unica rete che ha trasmesso la manifestazione del popolo viola.

Naturalmente la Rai ha risposto che è stato tutto un equivoco; che sul digitale terrestre RaiNews è stata spostata per migliorarne la ricezione e basta risintonizzare i canali (sarà tipo la ventesima volta che bisogna risintonizzare i canali negli ultimi due anni). E sul satellite? Lì non c’è alcuna spiegazione plausibile, ma comunque secondo la Rai è colpa di Sky che ha incrociato i flussi per far notare quanto la Rai faccia casino.

Anche io, più che un grande piano di censura berlusconiana, penso a tre tecnici scazzati di Saxa Rubra che non avevano voglia di fare le cose per bene e che hanno gestito la migrazione in maniera superficiale, magari sapendo che nell’attuale situazione Rai, dovendo scontentare qualcuno, Mineo è chiaramente il vaso di coccio. E’ interessante anche notare come – con la crescita dell’offerta – anche in TV, come già su Internet, il problema non sia tanto il riuscire a trasmettere ma il venire indicizzati in posizioni visibili all’interno del “portale” di accesso, sia esso la numerazione sul telecomando o il risultato di un motore di ricerca. Sta di fatto che nessuno trova più RaiNews.

[tags]rai, rainews, digitale terrestre, sky, mineo, minzolini, censura[/tags]

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lunedì 17 Maggio 2010, 17:46

Dio è morto

La morte per cancro di Ronnie James Dio – aveva già 67 anni – segna davvero la fine di un’epoca delle nostre vite, almeno per chi da ragazzo è stato almeno un po’ metallaro. Dio era la voce epica per eccellenza, che cantasse le leggende fantasy dei Rainbow o i classici dei Black Sabbath; e anche la sua carriera solista non era stata da meno (Holy Diver è un disco magnifico che capita regolarmente nelle mie playlist).

Forse non aveva un grande physique du role, già stempiato all’epoca classica, ma i suoi completini chiodo + jeans e i suoi brani duri ma essenziali, rivisti ora, dimostrano quanta poca distanza ci fosse tra l’hard rock dell’epoca classica e i rocker alla Springsteen. Lui, in più, era noto per aver reso popolare il gesto delle corna, ereditato da una nonna italiana e trasformato nel simbolo dell’heavy metal.

I forum, le piattaforme, i siti di musica sono zeppi di commenti e condoglianze; noi lo ricordiamo con il suo inno spaccastadio (è arrivato persino a Zelig) e con il buffo video di Rainbow in the Dark, con l’assolo dell’allora ventenne Vivian Campbell; e, appropriatamente, con un Long Live Rock’n’Roll degli anni con Blackmore. E poi pensiamo con orrore che, se è morto Dio, potrebbe morire persino Ozzy Osbourne.

[tags]musica, hard rock, metal, dio, rainbow, black sabbath[/tags]

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domenica 16 Maggio 2010, 19:12

Una serata coi Jethro Tull

Sì, sono ancora vivi. Smarcato il punto, vorrei comunque raccontare qualcos’altro sulla veloce gita di venerdì sera a Genova, con i biglietti comprati mesi fa – poco prima che si esaurissero – per l’inizialmente unica data italiana del tour dei Jethro Tull (ora ne hanno aggiunte altre a metà luglio).

Non tutte le leggende del rock invecchiano bene; andando a vedere questo genere di concerto, c’è sempre il rischio di grandi delusioni. E c’è anche un rischio più sottile: quello di trovarsi di fronte non a un concerto ma a una messa, ossia alla stanca riproposizione di un rosario di grandi classici con quarant’anni sulle spalle, suonati secondo il canone e senza più voglia nè energia, soltanto per dare il contentino ai fan in cambio di un biglietto dal prezzo spropositato (ogni riferimento al tour di reunion dei Kiss, martedì prossimo a Milano, è puramente casuale).

La classe si dimostra sul lungo periodo; c’è chi già dopo i primi due dischi ha esaurito le idee (qualcuno ha resistito più di dieci secondi al nuovo singolo di Ligabue?) e chi continua onestamente sulla via già tracciata ma dimostrando l’assoluta mancanza di senso del ridicolo, insistendo attorno ai sessant’anni a sfoggiare vestitini di pelle aderente, chiome fluenti e acuti impossibili in versione ormai afona, cercando di negare il passaggio del tempo (a questo proposito il punto più basso degli ultimi anni è stato raggiunto quando Joe Lynn Turner ha accusato David Coverdale di cantare in playback ai concerti dei Whitesnake, al che Coverdale ha risposto ironizzando sul fatto che Turner si esibisce con una splendida parrucca; ma anche l’idea di rimettere in piedi i Rainbow sostituendo Ritchie Blackmore con lo scarsissimo figlio Jürgen Blackmore, scopo tour in paesi musicalmente gonzi tipo Russia Grecia e Albania, non era male).

I Jethro Tull si sono salvati da tutto questo, perché non hanno mai smesso di suonare e perché hanno avuto il coraggio di cambiare continuamente stile, attraversando blues, hard rock, prog rock, folk rock, new wave elettronica, AOR, jazz/fusion, world music e altro ancora, senza mai perdere la passione. Di fatto, ormai da tempo l’anima del gruppo è ridotta al leader carismatico Ian Anderson e al suo fido chitarrista Martin Barre, che hanno scelto di ridurre al minimo la produzione di nuovo materiale per puntare su una intensa attività dal vivo. Nonostante questo, il concerto è tutt’altro che un “greatest hits” degli anni d’oro; in scaletta ci sono comunque anche brani recenti e altri tratti dai periodi meno conosciuti, ma non per questo meno interessanti – talvolta sono belle scoperte per gli stessi fan.

Il risultato sono quasi due ore di musica, intervallate da una pausa centrale di venti minuti. Si parte alle 21:20 (guai a chi arriva troppo in ritardo…) in modo intimo, con brani quasi acustici; per primo, ripescato dall’oblio, Dun Ringill da Stormwatch, che si rivela un opener fantastico per creare l’atmosfera; e poi due classici deliziosi come Life Is A Long Song e Jack-in-the-Green. Il concerto si scalda passando al blues-rock di Nothing Is Easy e A New Day Yesterday, due pezzi che a tutt’oggi è impossibile ascoltare senza essere trascinati dal ritmo, per poi virare sul rock secco di Cross Eyed Mary e Songs From The Wood; questa è la parte che non convince appieno, perché Cross Eyed Mary è un classico del rock tirato (memorabile anche la cover che ne fecero gli Iron Maiden del periodo d’oro) e a quell’età non è facile averla nelle corde, e perché Songs From The Wood è talmente complessa che rifarla bene dal vivo è umanamente quasi impossibile. Prima dell’intervallo si ritorna ad una atmosfera più intima, con un pezzo nuovo – Hare and the Wine Cup – che non sfigura affatto; poi arriva un vero gioiello, una versione di Bouree in parte fedele all’originale e in parte del tutto nuova, piena di colori e cambi di atmosfera, davvero bellissima.

Dopo l’intervallo è anche meglio; l’inizio è rinascimentale, poi un altro pezzo nuovo, e poi arriva un superclassico come My God, rifatto per intero con grandissimo impatto. Persino quel polpettone melassoso di Budapest (è del periodo in cui andavano di moda i Dire Straits e purtroppo si sente) scivola via senza danno, ma si fanno perdonare perché, dritto sul finale di Budapest e senza un respiro in mezzo, Barre attacca il riff di Aqualung. E’ il delirio; viene giù la sala letteralmente, nel senso che da tutto il palazzetto centinaia di persone si alzano e corrono sotto il palco, causando l’alzata in piedi di tutto il parterre, e addirittura c’è un’invasione di palco, un tizio nudo dalla cintola in su che si arrampica e saluta la platea tutto eccitato prima di venire portato via di peso, robe che non si vedevano dagli anni ’80 insomma. Anche Aqualung è impeccabile, trascina la folla fino a che non finisce, poi la band saluta e se ne va. Il pubblico vuole il bis, e quando si intravede nel buio il tastierista che entra e si siede al piano, che cosa potrà mai attaccare? Ovviamente Locomotive Breath, per chiudere in bellezza.

Valeva decisamente la pena di vederli, anche perché la forma era notevole; la voce di Anderson c’era (da vent’anni ha problemi di voce e non sempre è al meglio) e l’esecuzione è stata impeccabile, nonostante la grande complessità tecnica dei pezzi dei Jethro Tull. Insomma, è stato persino meglio della serata che vidi a Torino ormai sette anni fa… e non capiterà certo più la scena del concerto interrotto da un tizio dell’organizzazione che sale sul palco senza preavviso e, con un accento genovese fortissimo, legge al microfono un pomposo discorso scritto con cui assegnano a Ian Anderson il notissimo premio Mandolino Genovese 2010, davanti a un Anderson basito che non sa se ridere, incazzarsi o chiamare la sicurezza.

Ah, l’approccio a Genova in auto è stato devastante come al solito (treni del ritorno a tarda sera non ce n’erano), ma il luogo del concerto – il PalaVaillant all’interno del centro commerciale della Fiumara, a Sampierdarena – non è male, anche se l’acustica è un po’ da cubo di cemento; io avevo preso la fila più bassa della tribuna est (una gradinata con seggiolini), non vicino al palco ma centrale e rialzata rispetto al parterre di gente seduta, dunque si vedeva e si sentiva comunque bene, perdipiù a prezzo ragionevole (32 euro se ben ricordo). Molto apprezzata però l’idea del parcheggio multipiano del centro commerciale aperto fino alle 3 di notte e dunque utilizzabile per il concerto. Ci mettessero anche una freccia per spiegarti come arrivarci non sarebbe male, io ci sono capitato per caso girando per le viuzze.

Setlist completa: Dun Ringill, Beggar’s Farm, Life is a Long Song, Jack-in-the-Green, Eurology, Nothing is easy, A New Day Yesterday, Songs From the Wood, Cross-eyed Mary, Hare and the Wine Cup, Bouree; intervallo; Past Times with Good Company, A Change of Horses, My God, Budapest, Aqualung; bis, Locomotive Breath.

[tags]concerto, musica, jethro tull, genova, palavaillant, kiss, iron maiden, rainbow[/tags]

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venerdì 14 Maggio 2010, 12:12

Mi raccomando

La raccomandata da me inviata dall’ufficio postale di via Marsigli, nel pomeriggio del 5 maggio, a Vodafone N.V. (la filiale di Vodafone che incassa i miliardi degli italiani ma paga le tasse in Olanda, tutto ciò nell’indifferenza generale del nostro ministero dell’Economia dato che c’è la libera concorrenza europea ecc. ecc.), casella postale 190, Ivrea, è stata ricevuta (timbro e firma) già il 6 maggio: ottimo.

Peccato che la ricevuta di ritorno, quando già davo la spedizione per persa, mi sia arrivata solo stamattina: 8 giorni per fare 40 km. Considerato che ho pagato il disturbo cinque euro e trentacinque centesimi, ossia quasi quello che avrei speso di treno o di bus per portarla di persona e tornare indietro, non mi sembra un gran livello di servizio.

[tags]poste italiane, raccomandate, vodafone, ivrea, tasse[/tags]

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giovedì 13 Maggio 2010, 12:33

Sfide informatiche impossibili

“Per inserire una vocale accentata digitare la vocale seguita dall’apostrofo (es.: ala’ dei sardi invece di alà dei sardi).” (dal sito dell’Agenzia delle Entrate)

[tags]informatica, lettere accentate, programmatori avanzati[/tags]

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mercoledì 12 Maggio 2010, 16:24

Formazione a tenaglia

Giusto ieri mattina, Specchio dei Tempi apriva con la lettera di una ragazza venticinquenne che esprimeva “sdegno”. Barbara, questo il suo nome, finite cinque anni fa le scuole superiori ha scelto il suo mestiere, e ha seguito un corso di formazione pubblico (per lei gratuito, e interamente pagato dalla Regione Piemonte) per diventare “Tecnico Marketing e Promotore Enogastronomico”. Bene, parrà strano, ma a cinque anni dal conseguimento di cotal qualifica la povera Barbara (alla quale, sia chiaro, va tutta la mia solidarietà) ancora non ha trovato lavoro. E allora si indigna: come mai la Regione non “chiama mai a lavorare” alle fiere del salsiccione e della tinca gobba il personale qualificato come lei, che si vede rubare il lavoro da altri ragazzi, assolutamente non preparati e non competenti nel settore della tecnica del marketing per la promozione enogastronomica?

E’ evidente una serie di ingenuità tutte italiane: quella di credere che per lavorare conti il pezzo di carta, anzi che il pezzo di carta conferisca una precedenza inconfutabile nell’accesso al lavoro; quella di immaginare che il lavoro non si ottenga con lo sbattimento dal proprio lato, ma si riceva per chiamata dalla mamma-Stato (o dalla mamma-azienda), ragion per cui il modo di ottenere un’occupazione sia quello di lamentarsi con gli enti pubblici; e quella di pensare che sia il pezzo di carta e il relativo corso di formazione a creare i posti di lavoro, anziché le esigenze del mercato.

Detto questo, Barbara ha ragione a lamentarsi; perché non ha alcun senso che gli enti pubblici spendano ogni anno palate di miliardi per organizzare corsi di formazione per qualifiche assolutamente strambe. Le fiere si sono sempre fatte, e non credo che si sentisse un problema di sottoqualificazione delle signorine messe lì a vendere barbera o salami nostrani. Ma se è l’ente pubblico ad autorizzare speranze poco sensate nei ventenni di turno, a cui spesso non viene data altra alternativa che continuare a studiare perché il lavoro non si trova, la responsabilità è innanzi tutto dell’ente pubblico stesso.

La verità, peraltro, è nota a tutti: il settore della formazione pubblica, che in sè avrebbe ampio merito, negli ultimi anni è stato gonfiato a dismisura proprio per consentire un travaso ottimo e abbondante di fondi dalle casse pubbliche a quelle di cooperative, aziende e gruppi vari ma invariabilmente vicini alla politica; e così altri settori contigui e ricchi di appaltatori pubblici, come quelli sociali, quelli culturali, quelli di vigilanza. In città il caso più noto è quello di Mauro Laus, la cui carriera politica va di pari passo con quella della sua Rear, che insegue o vince o perde appalti proprio mentre lui passa dalla Margherita al PD e poi ai Moderati e poi di nuovo al PD, naturalmente e sempre per motivazioni strettamente politiche.

Non dev’essere nemmeno tanto piacevole gestire un’azienda così, sapendo che al primo cambio di vento rischi di dover mandare a casa la gente. D’altra parte c’è il vantaggio che questi settori ben si prestano all’uso di forme giuridiche defiscalizzate come la cooperativa o l’associazione senza fine di lucro; tanto lo scopo non è pagare dividendi, è sufficiente pagare bei stipendi e bonus a chi li dirige o anche solo far girare i soldi verso sub-fornitori. E in tutto questo è essenziale che i corsi siano gratuiti o addirittura prevedano qualche lira per chi li frequenta, in modo da essere certi che si presentino degli studenti a giustificare lo stanziamento pubblico.

Esistono però anche altri “modelli di business”: ad esempio, il corso può non essere pagato dalle casse pubbliche, ma dagli studenti, costretti mediante l’istituzione di albi professionali dal dubbio significato a mettere mano al portafoglio nella speranza di poter poi lavorare. In questo caso, il ruolo della politica non è quello di finanziare direttamente le aziende incassatarie, ma quello di creare regole pensate essenzialmente per imporre alle famiglie una “tassa sull’aspirazione a lavorare”, nel contempo mantenendo comunque il controllo sui beneficiari dell’affare e creando l’ennesima castina all’italiana che, oltre a diventare un organizzato bacino elettorale, distingue chi può lavorare da chi no (salvo amicizie che permettano di chiudere un occhio).

In questa categoria ricade l’ennesima chicca che mi hanno segnalato oggi: la Regione Piemonte ha pronto un nuovo imprescindibile corso di formazione. Non ho idea di chi sia la fortunata azienda appaltatrice che dovrà farsi in quattro per fornire adeguata istruzione; so solo che si chiama Formont (ossia “formazione per la montagna”) ed è un “consorzio di enti pubblici e privati” non meglio specificato (immagino serissimo, eh; mica è tutto da buttare). Sono tuttavia curioso di sapere chi saranno gli insegnanti, dato che il corso intende formare i ventenni torinesi per una attività di grande valore aggiunto che richiede senz’altro altissima specializzazione: quella di buttafuori.

Ora siete liberi di ipotizzare in cosa consisteranno le 51 ore di corso, divise tra 24 “giuridiche” (come pestare un passante e non finire in galera), 9 “tecniche” (le migliori posizioni spaccaossa) e 18 “psicologico-sociali” (il dramma interiore del buttafuori moderno), che permetteranno poi di iscriversi all’agognato “albo dei buttafuori”. Sono certissimo che l’istituzione di questo pezzo di carta a pagamento permetterà di ridurre quegli incresciosi episodi di accoltellamenti e risse tra buttafuori e clienti: un po’ come l’ordine dei giornalisti garantisce in Italia una grande libertà di stampa.

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martedì 11 Maggio 2010, 11:31

Ripagare le banche con la loro moneta

Il bello dei dogmi è che, dato che non possono essere messi in discussione, permettono di prevedere con certezza cosa succederà. I dogmi di questi giorni, per la precisione, sono due: il fatto che anche gli Stati, come già le banche, non debbano fallire, e il fatto che l’Europa debba essere unita da una sola moneta. E sono talmente forti che alla fine la Merkel ha accettato di perdere le elezioni in casa propria pur di non doverli rinnegare.

E’ chiaro che noi stiamo stappando champagne: la strada imboccata dall’Europa vuol dire che possiamo continuare a fare debiti in allegria, tanto li pagheranno i tedeschi, gli olandesi, gli austriaci e così via; anzi ora abbiamo tirato dentro pure il Fondo Monetario Internazionale, per cui li pagheranno anche gli americani, i giapponesi e persino i brasiliani, gli indiani e i cinesi. In questo senso, la nostra entrata nell’euro è un capolavoro di pacco all’italiana.

D’altra parte, gli economisti escono da questo fine settimana con le ossa ancora più rotte: per motivi politici, la Banca Centrale Europea ora si metterà a comprare i titoli di Stato del Sud Europa per stabilizzarne il mercato. E con cosa pagherà questi acquisti? Si è parlato di una “tassa europea” di qualche genere, anche se limitata alle transazioni finanziarie; e questa è la via che spiacerebbe di meno ai finanzieri, anche perché sarebbe un ulteriore passo avanti verso l’“unione europea dei banchieri”, accentrando per la prima volta nella Storia il potere di imporre tasse nelle mani dell’Unione e dunque sottraendo ancora un po’ di sovranità agli Stati nazionali. La verità però è un’altra; che, alla fine, se la crisi peggiorerà (e prima o poi i debiti verranno al pettine), l’unica cosa che potrà fare la BCE è stampare euro, facendo crollare il pilastro della politica monetaria europea da quando esiste la valuta unica – quello che gli Stati non possono finanziare la propria allegra spesa pubblica con la stampa di nuova moneta.

Dal punto di vista politico sono due le visioni che si scontrano; da una parte, gli economisti e i liberisti sostengono che la crisi non è causata da loro, ma dai livelli insostenibili di spesa pubblica abbracciati dai politici del Sud Europa a fronte di una crescita insufficiente; dalle baby pensioni calcolate col sistema retributivo, dalla bassa produttività dei lavoratori, dalla eccessiva spesa in cassa integrazione e in incentivi per sostenere aziende decotte e fallimentari, in generale dalla “bella vita” che greci, spagnoli e italiani farebbero. In questa visione l’unica via d’uscita possibile è data da tagli e sacrifici per le persone, e manovre di “copertura” come quella di sabato sono solo l’ennesimo atto irresponsabile da parte di politici populisti.

Dall’altra, c’è la visione anticapitalista per cui la crisi è solo l’ennesimo sussulto di manovre speculative globali, in cui una manciata di banchieri americani prendono di mira questa o quella nazione per arricchirsi sul suo affossamento e poi arricchirsi di nuovo con i soldi pubblici immessi nel sistema per evitarlo; e per cui la colpa della situazione mondiale ricade proprio sugli economisti, sui finanzieri e su tutti coloro che hanno disegnato e gestito l’economia globale per trent’anni, e che non sono in grado di affrontare il cambiamento di scenario dovuto all’esaurimento dello spazio di crescita.

Qual è la verità? Probabilmente sono vere entrambe; è vero che, in Grecia come in Italia, il debito cresce in maniera irresponsabile e molto denaro viene sprecato in privilegi, sprechi e ruberie, espressamente voluti dal sistema politico per motivi di interesse personale o di consenso politico; ed è vero che le ricette “lacrime e sangue” proposte dalla finanza internazionale solitamente vogliono scaricare sulla classe media i sacrifici, a fronte dell’arricchimento e della speculazione di pochi, cercando poi di ritornare al “business as usual” – e chi ha fatto i soldi se li tiene.

Per questo la discussione su chi abbia ragione mi interessa poco; certo l’idea di ripagare Francia e Germania rendendo carta straccia la moneta che hanno fortemente voluto è interessante; sul fatto che ciò possa preludere a un luminoso futuro (o che possa portare ad altro che alla forzata esplosione dell’Unione Europea) sono però molto scettico. La verità è che la nostra economia è un camion fermo col motore fuorigiri, a cui pare avvicinarsi uno tsunami; come ripartire in tempo per evitarlo, e soprattutto in che direzione muoversi, pare non saperlo nessuno.

[tags]economia, banche, europa, euro, bce, grecia, italia, debito pubblico, finanza[/tags]

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