Ieri mattina ho finalmente fatto il mio primo giro per la città . A dire il vero, il tutto è nato in modo del tutto fortuito: difatti, sono andato a far colazione con l’idea di tornare alla sede del meeting, registrarmi, e cercare gli altri per capire innanzi tutto il programma della mia settimana. A colazione, però, ho incontrato il mio amico Izumi, in perfetta tenuta turistica e con il piano di andare a visitare la città , e in particolare il mercato delle pulci e il quartiere giapponese; e mi sono prontamente aggregato.
Innanzi tutto, ho scoperto che noi siamo in realtà molto lontani dal centro convenzionale di San Paolo. Su consiglio del concierge, abbiamo preso un taxi per venti minuti (25 real) che ci ha portati alla fermata Concepçao della metro, da cui, con sole dodici fermate (stazioni cementosissime, ma sistema molto efficiente), siamo arrivati a Sé, la piazza del Duomo nonchè incrocio della linea blu con la rossa, e quindi, per definizione, centro della città .
Il Duomo risale addirittura al 1954, ed è naturalmente in stile finto-gotico; più interessante la passeggiata per negozi e il mercato delle pulci domenicale di Praça Republica, dove Izumi ha comprato dei piccoli dipinti veramente belli per otto euro l’uno. Abbiamo attraversato una zona residenziale, con ampi vialoni alberati – effettivamente la città è piena di valli (solitamente occupate da superstrade di grande scorrimento, visto che le case si affollano in alto) e di verde rigoglioso – e poi visto il quartiere giapponese: San Paolo è la più grande città giapponese fuori dal Giappone, e si vede, con negozi dove vendono qualsiasi cosa, dai manga alla salsa di soia, fino alle spade da samurai. Nel frattempo, però, il clima si era fatto pesante: 28 gradi all’ombra, sole a picco, sudore e disidratazione a palla nonostante le maniche corte e un bel venticello.
Dopo un pranzo eccezionale in un ristorantino all’angolo – bistecca eccellente, riso, patate fritte, zuppa di fagioli e 33 cl di birra per 6,50 real ovvero 2,34 euro: il Brasile ha anche i suoi bei vantaggi – abbiamo visitato il museo dell’immigrazione giapponese, dove Izumi ha provato a comprare il biglietto in inglese e non lo capivano, poi ha tentato ipotetici spagnolo e portoghese senza risultato, e poi ha attaccato il giapponese e non solo gli hanno risposto, ma gli hanno fatto pure le feste. Sempre in giapponese, ha spiegato che non ero burasiriajin ma itariajin, e così hanno fatto le feste anche a me. E, tra l’altro, chissà quand’è che anche noi troveremo i soldi e la voglia per fare i monumenti all’epopea dei nostri emigrati all’estero.
Comunque, la cosa ha presa una piega piuttosto surreale, visto che nel teatro a pianterreno stavano tenendo, in diretta televisiva col Giappone, una edizione speciale dell’equivalente giapponese del Festival di Sanremo: 25 cantanti uomini sfidano 25 cantanti donne, e i giurati decidono quale sesso vince. Le canzoni andavano dal tradizionale (stile Orietta Berti tastierato) al molto tradizionale (avete presente quegli spettacoli giapponesi in cui un uomo travestito da geisha gorgheggia in modo incomprensibile per cinque minuti accompagnato solo dal suono di una corda da stendere fatta vibrare a caso? avete presente? beh, io ora ce l’ho presente e non è una bella sensazione). In sala c’erano cinquecento giapponesi ambosessi rigorosamente sopra i cinquant’anni, e un unico occidentale (io). E anche questa non è una bella sensazione.
Mi sono però preso la rivincita al ritorno, quando scesi dalla metro abbiamo preso il taxi, e Izumi ha detto al conducente: “Burue Terii Towerusu Morumubi Hoteru” (che sarebbe Blue Tree Towers Morumbi, il semplice nome del nostro hotel). E il conducente, un vecchio nero che sembrava il nonno di Huey dei Boondocks, ha abbozzato e ha fatto una faccia come a dire: de che? Al che, attimo di panico, intervengo io, e penso: conoscerà certamente il centro commerciale di fronte all’albergo, ma come faccio a dire “di fronte a”? E lì ho imparato che lo studio serve sempre, e ho ringraziato i miei lontani corsi di capoeira, e in particolare la “mezzaluna di fronte”: gli ho detto “De frente a shopping Morumbi”, con un perfetto accento brasileiro (cioè, come un genovese che dice “de frenci, belin”, però senza “belin”), e siamo partiti a razzo; è venuto giù il tettuccio dagli applausi. Poi mi ha chiesto perfino se volevo l’aria condizionata, ma c’è un limite anche ai virtuosismi linguistici.