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sabato 14 Luglio 2007, 13:08

Traffic, day 3

Ieri sera – perso Lou Reed per assenza fisica da Torino, e recuperati i Daft Punk perché non ci sono andato, ma dalla finestra di casa mia si sentivano benissimo: i residenti ringraziano – sono finalmente andato al Traffic, per l’attesa serata britannica.

Io e Andrea ci troviamo verso le otto, in attesa del materializzarsi delle donne, afferrando panino e birra da uno dei millanta baracchini attorno al festival (devono esserci pochi eventi quest’estate, visto che tutti i paninari del Nordovest paiono essersi allineati là).

Ignoriamo quindi il gruppo di coni che apre la serata, e ci sistemiamo nel vascone solo quando, alle otto e mezza, stanno per attaccare gli Art Brut. Sembrano le tre di pomeriggio e solo qualche centinaio di irriducibili è già pigiato davanti al palco.

Degli Art Brut ho già parlato; a me, a pelle, piacciono pure più degli Arctic Monkeys, nel senso che il genere è simile, ma gli Art Brut sono sardonici, veraci, e molto meno montati. La front line è composta dal cantante, uno che ha guardato alla moviola tutte le mosse e le pettinature di Morrissey, e dal chitarrista biondo posseduto dal demonio, che passa tutto il concerto a fare facce da film di Dario Argento.

Il concerto, proprio come il disco, è un caso di performing art, non solo per via di mossette, balletti e salti con la corda, ma perchè il cantante Eddie ogni tanto interrompe i pezzi a metà e si mette a raccontare i cazzi propri, o ad arringare la folla, ad esempio per raccontare di tutte le volte in cui è stato piantato dalla fidanzata ed invitare tutti i presenti a smetterla di pensare ai propri ex, che è solo una perdita di tempo. E’ un vero happening punteggiato dalla provocante semplicità dei testi; perchè Eddie non se la tira da santone come Bono, e i suoi pezzi, totalmente autoironici, parlano di due sole cose: di ragazze che l’hanno mollato o che si è fatto, e dell’obiettivo ultimo della sua vita, ossia mettere in piedi una band per apparire in Top of the Pops. E per facilitare l’obiettivo, oltre ad esporlo nel testo di una canzone su due, ha pure scritto un pezzo intitolato Top of the Pops, il cui testo è “Art Brut! Top of the Pops! Art Brut! Top of the Pops!”; ieri, nell’esecuzione live, ha inserito per cortesia anche i nomi degli altri gruppi in scaletta. Certo che deve esserci rimasto male, quando l’estate scorsa, dopo 41 anni di trasmissioni ininterrotte, la BBC ha cancellato Top of the Pops, proprio quando loro cominciavano ad avere successo: che sfiga.

Insomma, bel concerto e buon successo per gli Art Brut; alla fine, c’era già parecchia gente e sembrava apprezzare. Mezz’ora di cambio palco; tramonta ed entrano in scena i The Coral, gruppo di grande valore tecnico, che io apprezzo moltissimo sin da quando, nel 2002, vidi verso le due di notte su MTV il video di Goodbye. I Coral fanno di genere un mescolone tra gli ultimi anni sessanta e i primi anni settanta; c’è dentro il progressive, c’è dentro la psichedelia, ma con una base brit-pop tradizionale e concettualmente non lontana dai Travis o da altri gruppi britannici più mainstream. Di conseguenza, si presentano in scena con chitarre panciute e batteria scarna alla Ringo Starr (un piatto orizzontale e un charleston).

Ora, è chiaro che la loro musica è complicata per un festival: sul palco sono in sei, ci sono ennemila chitarre che cambiano continuamente, una base di organetto che (per esperienza) è sempre difficile da mixare, e pezzi dalla struttura non facile. Certo che se poi l’organizzazione non li aiuta, regolando il volume a livello da lounge… Io ero a dieci metri dal palco e non sentivo nulla; attorno a me, la gente chiacchierava tranquillamente senza nemmeno accennare ad urlare, e il chiacchiericcio copriva la musica; chissà più indietro cosa avranno sentito. A un certo punto volevo organizzare una colletta per regalare un paio di ampli al Traffic, che peraltro ha maltrattato i Coral in tutti i modi: per dire, quando hanno fatto She Sings The Mourning, la cui caratteristica è una chitarra suonata con l’archetto, il regista del maxischermo ha inquadrato qualsiasi cosa – cantante, dettagli del charleston, gente che cazzeggiava in platea, persino tre minuti di bassista che faceva sempre le stesse due note – ma non una volta il benedetto archetto; e dillo, regista, che non ti sei nemmeno documentato tre minuti per capire chi cavolo sono i The Coral e che canzoni fanno! Chiude in bellezza l’omino delle birre che passa tra il pubblico con una lampadina da 200 watt e un compressore che spara ottanta decibel di rumore assordante, nel bel mezzo dei pezzi d’atmosfera: capisco che il Traffic debba arrotondare, però un minimo di rispetto per la musica potevano pure mettercelo.

Loro, poveracci, ce l’hanno messa tutta e hanno fatto un bel concerto; la musica dei Coral è magica e affascinante, ma anche energetica (a fine concerto spaccano tutto con il finale di I Remember When). Peccato che la platea, già alla ventesima fila, fosse piena di tarri che erano lì solo per gli Arctic Monkeys o magari solo per le canne, e che li hanno cagati di striscio solo quando hanno fatto In The Morning, il singolino poppettaro che ormai tocca fare pure alle band indipendenti. Questi sono i casi in cui ti chiedi se non sarebbe meglio far pagare dieci euro ed evitare il tarrume; del resto, se tutti gli altri festival d’Italia sono a pagamento un motivo ci sarà.

Comunque, ormai è notte, e il cambio palco successivo è lungo ed estenuante, mentre il vascone della Pellerina ormai è pieno e impaziente; noi ci siamo spostati in fondo, per tranquillità. Alla fine, parte una musica introduttoria e salgono sul palco i figli degli Arctic Monkeys, quattro ragazzini brufolosi, per presentare il concerto. Dopodiché, a sorpresa, si siedono agli strumenti; il batterista, un tredicenne panzuto che pare uscito da una sitcom, si siede sul seggiolino, butta per terra la carta di un paio di Mars, si schiaccia un brufolo, poi prende le bacchette e attacca una mitragliata mai vista per lanciare The View From The Afternoon. Oddio, ma sono loro gli Arctic Monkeys!

Dopo tre pezzi ho capito il trucco dietro alla band; praticamente, il bambino panzuto, tra un panino con la Nutella e una manciata di M&M’s, spara delle basi di batteria mai viste, al che gli altri tre diventano abbastanza irrilevanti, e in particolare il chitarrista può dedicarsi ad assoli e virtuosismi degni del miglior Ghigo Renzulli (in qualche caso mi è venuto da dirgli “dai, scendi, salgo sul palco io con la chitarra di Guitar Hero e faccio degli assoli più tecnici”). Sono comunque ammirato; perché questi ragazzini mettono insieme una macchina da guerra che macina note a velocità supersonica, e ogni tanto ci infilano pure una spruzzatina di blues o un po’ di lentuccio. Ok, sono travolti dal successo, in buona parte perché gliel’hanno costruito attorno apposta, ma la musica è più che piacevole.

Ciò nonostante, a metà del loro concerto ce ne andiamo esausti, e ci diamo appuntamento per il sabato sera con Battiato. Speriamo solo che il pubblico tarro dei Subsonica non si metta a minchionare ad alta voce sulla metafisica del Maestro.

[tags]traffic, torino, festival, art brut, the coral, arctic monkeys[/tags]

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2 commenti a “Traffic, day 3”

  1. giaggio:

    i coral sono un grppo da oratorio, l’impianto del traffic (line- array, il migliore in circolazione) ha mostrato tutta la sua potenza con i daft punk, ma i coral , gruppo da oratorio hanno un tecnico (inglese) da oratorio, che tiene i volumi come se nella cappella a fianco si tesse celebrando la messa. Gli arctic monkeys si sono costruiti da soli con la forza di un semlice my space. ma questa è storia che tutti sanno

  2. vb:

    Concordo sui Daft Punk, tutto il quartiere fino a corso Francia è rimasto sveglio fin che non hanno finito… forse lì era meglio abbassare un pochino :-)

 
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