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Archivio per il mese di Agosto 2007


mercoledì 15 Agosto 2007, 21:29

L’Italia si schiera

Il tassista che mi ha riportato a casa poco fa aveva sul cruscotto un adesivo di Valentino Rossi, e stava ascoltando un CD di Zucchero. L’Italia popolare si è schierata!

(Comunque, stavolta hanno ragione loro: sia Rossi che Zucchero…)

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mercoledì 15 Agosto 2007, 03:16

Security (1)

Ci sono vari motivi per non venire negli Stati Uniti, ma uno è particolarmente pressante: la difficoltà tremenda per entrare ed uscire da questo paese.

All’andata, atterrati a LAX dopo tredici ore di volo, ci siamo prima dovuti subire venti minuti parcheggiati a terra, perché tutte le baie erano piene; dopodiché, una volta sbarcati, siamo stati scaricati in una specie di girone dantesco, ossia un enorme salone brulicante di gente, sbarrato da una fila di una cinquantina buona di sportelli, accoppiati a due a due su una doppia fila. Ogni quattro / sei sportelli c’è una coda, e già all’ingresso nel salone gli inservienti in divisa ti invitano con voce monotona ad andare avanti e ad infilarti in questa o quella massa umana.

Le code per i cittadini americani non sono brevi, ma quelle per il resto del mondo sono inumane: noi, giovedì, abbiamo fatto un’ora e mezza di coda, in piedi, lungo una serpentina di nastri che pareva non andare mai avanti, in un salone sovraffollato dove ci saranno stati quaranta gradi. Io stavo svenendo dal sonno, visto che ero completamente laggato; per fortuna ero in coda con il mio collega portoghese Francisco, che è un gran parlatore e ha mandato avanti la conversazione da solo.

Una volta giunti allo sportello, poi, il poliziotto – che non alza quasi mai gli occhi dal terminale – ti chiede come ti chiami, e perché vuoi entrare negli Stati Uniti, detto con un tono che significa “Perché vieni qui a rompere le scatole?”; e poi, “When are you getting back home?”, cioè “Quando te ne vai?”. Francisco – un pazzo – gli ha fatto la battuta, rispondendo “As soon as possible”; pensavo lo portassero via, ma il poliziotto si è limitato a guardarlo male e a rispondere “Sure, everyone should stay at home.”.

Insomma, si tratta di un sistema al limite dell’inumanità, che talvolta viene bellamente superata; come quando domenica pomeriggio si è piantato il server dell’immigrazione, e circa seimila persone sono rimaste in coda nel salone, ferme, per tre ore, o addirittura non sono state nemmeno lasciate scendere dagli aerei (perché una volta che sei a terra, in teoria, puoi chiedere asilo).

Va detto, tuttavia, che non si tratta tanto di cattiveria, quanto di una cultura in cui l’aspetto personale viene completamente cancellato, e le persone non vivono: funzionano. Ci sarebbe molto da dire su questo aspetto, e il racconto dei controlli di sicurezza non finisce certo qui, ma ora stanno imbarcando il mio volo, per cui devo andare!

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martedì 14 Agosto 2007, 06:13

Luoghi di L.A.

Los Angeles, diciamocelo, fa schifo. Avrò tempo, sperabilmente, di supportare questa affermazione postando altro materiale; se è vero che la città ha comunque un certo fascino, che deriva proprio dalla sua crassa esagerazione di qualsiasi cosa, alla fine ci si rende conto che ci sono proprio poche ragioni per visitarla, se non quella di dire di esserci stati.

In compenso, proprio girando in un ambiente così alieno saltano fuori le caratteristiche più interessanti. Ad esempio, il mio albergo si è rivelato ottimo, perchè è situato all’incrocio di Sunset Boulevard con Vermont Avenue, e quindi è attaccato a una delle rarissime stazioni della metro (non che la metro serva a molto, ma almeno porta in centro e a Hollywood); è confortevole e costa relativamente poco; e ha persino la connessione wi-fi inclusa nel prezzo.

Più inquietante, però, è il circondario. Non in termini di degrado, proprio perchè, essendo le stazioni della metro così rare, attorno ad esse si concentra la vitalità dei vari quartieri. Se mai è proprio il contrario; nel giro di un isolato ci sono un po’ troppe cose che incombono.

La prima, che occupa due interi blocchi, è una strana corporation che si fa un sacco di pubblicità alla radio, e che non ho ancora capito se è un ospedale, un centro di chirurgia estetica, o una assicurazione. La cosa inquietante è che essa risponde al nome di Kaiser Permanente; e con un nome così, faccio fatica ad addormentarmi, temendo ogni sera di trovarmi la Gestapo fuori dalla porta.

La seconda, proprio sul lato opposto dell’incrocio, sono gli altri due blocchi dell’ospedale infantile di Los Angeles, e in particolare del Centro Ricerche Saban. Ora, ho già capito che lo show business muove la città; e difatti le attrazioni principali sono la Mostra Planetario Leonard Nimoy, la nuovissima Walt Disney Concert Hall, il capannone della Geffen Contemporary (Geffen, per i meno esperti, è il discografico dei Guns’n’Roses e uno dei tre soci della Dreamworks), e così via. Ma che l’ospedale infantile sia finanziato da Haim Saban mette abbastanza i brividi: verranno i Power Rangers a curare i bambini?

Ma tutto ciò è nulla rispetto alla grande cittadella che occupa tre o quattro blocchi subito dietro: è il quartier generale mondiale della chiesa di Scientology. Ho avuto in effetti qualche sospetto quando, facendo il giro dell’isolato in macchina, mi sono trovato in L. Ron Hubbard Way; e così, è saltata fuori una stradina in pavè con un sacco di droni in giacca e cravatta che uscivano dagli edifici. Ho resistito all’istinto di schiacciarli, ma sono stato ben attento a non passare più da lì. Ora sono incerto se andare a vedere, avendo già evitato il palazzo a quindici piani della L. Ron Hubbard Life Exhibition, che sta proprio in mezzo a Hollywood. Che faccio, oso?

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lunedì 13 Agosto 2007, 10:59

Una serata di rock

Qui è quasi l’una di notte, e sono seduto sul pensatoio della mia camera d’albergo per cercare di mettere giù almeno una pallida traccia di quella che è stata una serata eccezionale, che ricorderò a lungo.

Mi sono messo in strada quasi un’ora in ritardo, che si era accumulata nelle tappe precedenti – il Getty Center sulle colline di Santa Monica, e poi un’altra cosa che avevo nella lista di “da fare almeno una volta nella vita”, cioè guidare dall’inizio alla fine di Mulholland Drive; e poi il check-in in albergo -, e un po’ con l’angoscia di non conoscere la strada, che un percorso di ottanta chilometri visto su un atlante è una cosa, ma nella pratica può rivelarsi un trappolone. Per fortuna, le highway erano scorrevoli, tranne in un paio di punti, e così sono arrivato a Costa Mesa alle sette in punto.

Subita la coda per l’ingresso al parcheggio, e sganciati otto dollari per entrare – che si aggiungono a 60 di biglietto, 6 di prevendita, 4 di commissione, e un’ottantina tra auto e benzina – mi presento al Will Call, dove mi porgono un biglietto intestato a “Victorio Bartola” (per fortuna la carta di credito corrisponde). Mentre mi metto nella coda pedonale per entrare, strabuzzo gli occhi: c’è scritto proprio settore 2, fila D, posto 20. Come vi avevo detto, generalmente nei giorni precedenti Ticketmaster mi aveva prospettato le file dalla Q in su… entro sperando che sia veramente la quarta fila, e lo è, ed è pure al centro perfetto della platea! Davanti a me ci sono solo quattro file, più una decina di file di seggiole nella buca dell’orchestra; in poche parole, non solo sono perfettamente centrale e a non più di quindici metri dal palco, ma i miei occhi sono esattamente all’altezza degli occhi di chi sta sul palco. Stante che il posto è tutto pieno fino alla cinquantesima fila, devo aver avuto una botta di fortuna – tipo un blocco di biglietti rimesso in circolazione all’ultimo momento – che mi ha fatto finire lì.

Il Pacific Amphitheatre si rivela un posto da concerti, assolutamente perfetto. E’ fatto ad anfiteatro, ad arco con il palco al centro e in basso, e con le gradinate che salgono verso l’alto; noi dovremmo saperlo, visto che i teatri greci e romani erano così, e invece dove facciamo gli spettacoli a Torino? Beh, c’è ampia scelta tra gli stadi di calcio (con trenta – cento metri di prato in mezzo), una vasca piatta in un parco (vedi Traffic), un cortile ghiaioso di una ex fabbrica (Colonia Sonora), o, perchè no, un palazzetto rettangolare costruito per ospitare tre partite di hockey. Il problema è che la musica in Italia è un riempitivo; ci sono dei grandi spazi costruiti in modo scriteriato, qualcuno li deve riempire e così ci si ficcano dentro i concerti, senza nessun rispetto per chi li va a vedere.

Qui, invece, la visibilità e l’acustica sono perfette; tutti i posti sono a sedere e preassegnati; la prima fila è attaccata al palco, con le persone che potrebbero toccare i piedi dei musicisti, visto che il palco non è alto tre metri, ma cinquanta centimetri – tanto sono le gradinate a salire. In più, il teatro è all’aperto e scavato nel terreno, riducendo l’impatto visivo e sonoro sulla zona circostante, e migliorando l’acustica.

Ma veniamo al concerto; mentre entro e mi accomodo, sul palco c’è già un signore sulla sessantina, con i capelli bianchi e lunghi, accompagnato da una band di giovanotti. Non so chi sia – il programma prevedeva i Thin Lizzy, ma mi avevano detto che sarebbero stati sostituiti – però il tizio roccheggia e blueseggia che è un piacere, suonando un po’ di tutto, facendo gare vocali con il chitarrista, e cantando con una voce eccezionale. A un certo punto, verso la fine del set, comincia a parlare di una canzone famosa che ha scritto oltre trent’anni fa, e spiega che è stato il primo caso di qualcuno che abbia suonato sul palco con una tastiera a tracolla. Se la infila, attaccano il pezzo, e… oddio, è il riff di Frankenstein!

Per chi non lo conoscesse, Frankenstein è un classico pezzo strumentale degli anni ’70, che non solo fa da colonna sonora allo sballo di Homer in una puntata dei Simpson, ma è uno dei brani più difficili di Guitar Hero I. Me lo ritrovo lì a sorpresa, ma se il pezzo è Frankenstein allora il tizio è Edgar Winter, di cui non avevo mai visto la faccia. L’esecuzione è eccezionale, dilatata a una decina di minuti; lui rifà tutte le parti del pezzo, cioè comincia con la tastiera, poi la posa e prende il sax ed esegue la parte di sax, poi lo posa e passa alle percussioni per fare l’assolo di batteria, poi si rimette la tastiera per il finale: tutto suonato benissimo. Ovazione!

Approfitto della pausa per spararmi un salsiccione in panino con peperoni e cipolle – qui non ci sono i paninari, c’è direttamente un barbecue ben organizzato all’ingresso – e torno giusto in tempo per la seconda band, i Blue Oyster Cult. Sono dei tizi che paiono più giovani, diciamo sui cinquanta, insomma in linea con l’età media della platea. Suonano un po’ come gli Scorpions dei primi dischi, anche se sono ben antecedenti e quindi saranno i tedeschi ad essersi ispirati. La platea conosce un buon numero di pezzi e si scalda parecchio. Io ne conosco solo uno… Godzilla, il secondo pezzo di Guitar Hero della serata. Tecnicamente comunque sono molto bravi, il chitarrista impressiona, il bassista pure… ottimo numero.

Poi, alle nove in punto (non alle undici e un quarto dopo essersi fatti pregare per novanta minuti, come succede in Italia) salgono sul palco i Deep Purple. Li vedo benissimo, posso contare i capelli rimasti e vedere ogni espressione: che godimento! Attaccano con Pictures of Home, un brano del periodo classico ma dei meno noti; segue un brano da Purpendicular, di quelli che servono a far scatenare la chitarra; è l’unico che non conosco. La platea si siede sul brano recente, ma sui classici si scatena; il terzo brano è Into The Fire, sempre dai dischi classici, un’altra chicca da intenditori. Il quarto poi è un superclassico, Strange Kind Of Woman, che addirittura ho suonato nei pub; la si canta tutti in piedi, e io ne conosco ogni singola nota…

Bisogna dire che Gillan è un po’ giù di voce, ma in realtà si sa che l’ha finita nel 1980. Morse, invece, è inarrestabile; non solo fa tutti gli assoli che faceva Blackmore nota per nota, ma ce ne infila anche altre in mezzo tra una e l’altra, così per spregio. E’ un vero mostro, e a tratti diventa quasi il protagonista unico, anche se gli altri seguono bene.

A questo punto fanno Rapture Of The Deep, il brano eponimo dell’ultimo disco, che io trovo bellissimo ma che quasi nessuno conosce, e tutti ascoltano un po’ distrattamente; peccato. Di lì in poi, però, è un delirio. La scaletta prevede Woman From Tokio, e poi una parte solista dove Morse pare voler suonare alla chitarra tutto il Clavicembalo Ben Temperato di Bach, però compresso in quattro minuti: un pezzo sinfonico come si usava negli anni ’70. Finito questo, attaccano Knocking At Your Back Door, e poi uno dei classici brani da concerto, Lazy, con tutti gli assoli e le pause e le note come nei concerti originali di trentacinque anni fa. Poi viene il momento del tastierista Don Airey, che si esibisce in un pezzo di piano classico a cui segue una girandola di suoni elettronici da cui esce fuori Perfect Strangers. E poi, due brani dall’energia devastante come Space Trucker e Highway Star, e lì la folla è veramente fuori di sè, tutti sono in piedi, cantano e urlano, e non ce n’è per nessuno, non ho mai visto un concerto così esaltante.

In effetti, a ben guardare, non si capisce bene quale sia il punto di forza dei Deep Purple, ciò che li rende dopo quarant’anni di carriera ancora il top assoluto dell’hard rock. I testi delle canzoni sono generalmente insignificanti; loro si sono presi e mollati decine di volte, e non sono certo un modello. Dev’essere l’energia che c’è in questi pezzi, la forza trascinante; e il fatto che – a differenza dell’altra volta in cui li avevo visti, nel 1992, in cui suonavano con lo scazzo ed ero rimasto molto deluso – in questi anni sembrano proprio divertirsi, godere di essere ancora su un palco a suonare davanti alla gente, ed esserne grati.

Chiudono il concerto portando sul palco Edgar Winter e chitarrista, e suonando insieme a lui Smoke On The Water; et voilà, terzo pezzo di Guitar Hero in una sera sola. Vanno fuori, tornano dentro e fanno il bis, Hush, con tutta la platea che fa il coro. Ne vorremmo ancora, ma hanno suonato un’ora e mezza e considerando che viaggiano sui sessanta e sono in tour dalla primavera, non si può fare di più. Salutano e scappano stremati, Paice ha allagato il palco dal sudore, Glover è secchissimo, privo di linfa.

Mentre mi sciroppo gli ottanta chilometri del ritorno in autostrada senza pena, accelerando al grido di “I’m an highway star”, penso che valeva assolutamente la pena di vedere questo concerto; tra il luogo esotico, la posizione perfetta, e la grande musica, una cosa così in Italia non la potrò vedere mai (purtroppo). Spero che esca il DVD, così almeno potrò conservare le immagini!

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domenica 12 Agosto 2007, 02:53

Sembra facile

Come vi dicevo, sono a Los Angeles per due giorni di meeting del Board di ICANN, visto che nessuno è riuscito a convincere gli americani che a Ferragosto il pianeta deve chiudere per ferie. Il meeting finisce stasera (mentre scrivo, qui è sabato pomeriggio), e, avendo fatto tutto il viaggio fin quaggiù, mi sono preso la domenica libera prima di tornare… poi ho preso anche il lunedì, perchè martedì ci sono due conference call che farò da qui e che altrimenti avrei mancato. (Prima che maligniate, le due notti di Travelodge le pago io, e anche la macchina che tocca affittare per muoversi in codesta città.)

Dunque, essendo per due giorni in una delle città più famose, eleganti e brutte del pianeta, mi son detto: fosse che c’è qualche evento interessante? C’era: perchè domani sera, a cinquanta chilometri da qui (quindi sempre dentro la città), suonano i Deep Purple; li ho mancati quando sono venuti in Italia in primavera, e non è male l’idea di vederli ancora una volta prima che vadano in pensione.

L’unico problema è stato comprare il biglietto.

Difatti, gli efficientissimi americani fanno tutto via Web: e così, ancora in Italia, vado sul sito di Ticketmaster e faccio tutta la trafila. Il sito di Ticketmaster è una buffa imitazione di una coda vera; in pieno delirio efficientista, ogni singola pagina del processo di vendita ha un tempo che scorre, partendo da uno o due minuti. Se non completi l’inserimento dei dati prima che scada il tempo, la prenotazione viene interrotta e ti tocca ricominciare da capo; questo anche se sono le due di notte e sei l’unico su tutto il pianeta che sta cercando di prendere un biglietto per quell’evento. In più, a seconda del momento, il sito ti dà disponibilità a caso: una volta trovi la quarta fila, tre minuti dopo c’è solo la trentesima, cinque minuti dopo ti dice che sono esauriti e poi ti rioffre la quarta fila.

Riuscito finalmente a digitare i dati abbastanza in fretta, arrivo in fondo e… il sito si pianta: scopro difatti che non è possibile vendere i biglietti a chi non ha una carta di credito con un indirizzo negli Stati Uniti o in Canada. Come ci si può fidare di carte di credito di paesi strani e misteriosi, tipo la Germania o l’Italia? E così, il sito comincia a rimbalzarmi all’infinito, finché mi arrendo.

Il posto dove si terrà il concerto, il Pacific Amphitheatre, non ha una propria biglietteria online; eppure, a forza di cercare, trovo un modulo di contatto per la Fiera di Orange County, che lo ospita. Poco prima di partire, senza troppa convinzione, lascio un messaggio spiegando il problema.

Capirete la mia sorpresa quando ieri mattina, arrivato qui, trovo una gentile mail che non solo risponde alla mia, ma non mi manda a stendere; e vi garantisco che per gli Stati Uniti, dove tutto è una procedura standardizzata, è davvero strano. La signorina Danielle mi invita a rispondere fornendo i miei dati, in modo che possa emettere un biglietto e lasciarmelo allo sportello del Will Call (nei paesi anglosassoni si usa tenere i biglietti in biglietteria, per farli ritirare il giorno dell’evento).

La mail è di giovedì mattina; sono passate ventiquattr’ore; io rispondo subito. Dopodiché, aspetto; e non arriva risposta. A pranzo, ancora niente. La sera, nulla di nulla. Sarà mica che Danielle ha preso il venerdì libero? Nella sua mail c’è un numero di telefono, e allora corro in camera per telefonare.

E qui, scopro che non posso: per qualche motivo, i due telefoni della mia camera d’albergo a cinque stelle non mi permettono di fare chiamate. Pigiato il 9 per uscire, pigiato l’1 per le interurbane, composta qualche cifra del numero, il telefono si mette a fare strani suoni. Paciocco un po’ con i tasti e la cosa peggiora ulteriormente, nel senso che il telefono addirittura si pianta. Arriva l’ora di cena (le 18) e devo andare.

Stamattina, ancora nessuna risposta; mando una gentile mail di sollecito, per sapere se il mio primo messaggio è arrivato; ancora nulla. Nella pausa pranzo, torno in camera e riprovo a telefonare; ancora casini telefonici. Pigio il pulsante della reception, parlo un po’ con l’impiegata, che alla fine resetta qualcosa: posso telefonare. Peccato che non risponda nessuno: Danielle sarà presumibilmente in vacanza, o addirittura ammalata, morta, traslocata su Marte. Vedo immagini di me aggrappato ai cancelli dell’arena che faccio gli occhioni come il gatto con gli stivali di Shrek, mentre tutti dentro si dimenano al ritmo di Highway Star.

Per fortuna, arriva il colpo di genio: scopro nelle pieghe del sito un altro numero di telefono. Chiamo, e risponde Ticketmaster; la vocina automatica mi chiede se voglio biglietti per Stevie Wonder. No, grazie, e allora mi metto in coda per l’operatore, subendomi una voce registrata che per vari minuti mi dice che “we will be with you in a moment”, e nel frattempo mi magnifica le varie cose che posso comprare da loro. Alla fine, risponde una signorina, che, fatidicamente, mi dice che al telefono (ma non dal web) accettano anche le carte di credito straniere. Alleluja: dopo dieci minuti di spelling (provate voi a far capire “Fenoglio” a un messicano che parla in inglese) mi confermano il biglietto. Rinfrancato e vincitore, torno nel meeting e, giusto per scrupolo, mando una terza mail a Danielle, che – se mai resuscita – non mi faccia il biglietto.

Trenta secondi dopo, mi arriva la risposta: “Ah, ok, allora non te lo faccio più!”. Ma porco cacchio! Ma allora sei stata un giorno e mezzo davanti alla mail senza rispondere! allora sei bastarda dentro!

Due ore dopo, arriva un’altra mail da Dave, sempre dello staff della fiera, che si offre di farmi un biglietto, e comunque mi dice che c’è ancora parecchio posto, certamente non faranno l’esaurito, e potrei fare senza problemi il biglietto la sera stessa. Ma non potevate dirmelo subito?

Bon, insomma: vediamo se riuscirò a vedere questo concerto; domani mattina prendo un’auto qui a Santa Monica, mi faccio il mio giretto del circondario – magari vado anche al Getty Museum, che sta in un posto impossibile lungo l’autostrada – poi faccio il check-in all’albergo e mi reco a Costa Mesa: incrociate le dita per me.

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sabato 11 Agosto 2007, 22:41

Get a Mac

La buona notizia è che anche Vint è appena passato al Mac – un Powerbook da quindici pollici.

Quella cattiva è che persino per lui la curva di apprendimento si è rivelata un po’ troppo appuntita… in particolare, ha vinto contro il sistema di regolazione della risoluzione dello schermo, ma è stato sconfitto – come anche io – dalle imperscrutabili profondità di Adium.

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venerdì 10 Agosto 2007, 23:17

Luftansia

All’inizio, pareva un volo privo di eventi, questo per Los Angeles. Lo stint per Francoforte (uso certi termini per i fan della Ferrari) è stato tranquillissimo, e anche i venticinque minuti di bus dall’aereo all’aeroporto sono andati bene, se si eccettua quando siamo dovuti passare sotto l’ala di un jumbo in partenza, e quando abbiamo trovato coda al casello.

Attraversato il terminal ed effettuati i controlli di sicurezza, avevo ben cinque minuti di tempo prima dell’imbarco, che sono stati sufficienti per entrare nella lounge e far fuori un tazzone di gulash, un po’ di polpette, del pane, e le nuvolette di cioccolato soffiato che ancora non ho capito come sono fatte, ma che sono buonissime ed esistono solo lì. Terminato il pit stop, stavo per uscire quando si è materializzato il mio collega di Board portoghese; da Lisbona non c’è un volo diretto per Los Angeles, e lui ha allungato il percorso fino a Francoforte pur di non volare con gli spagnoli (patriota!).

Il decollo è in ritardo, e mi permette di leggere sulla prima di Repubblica il commentario di Michele Serra su Valentino Rossi, riassumibile in breve come “un miliardario se la prende con un altro miliardario perchè ha un commercialista migliore del suo”. In effetti il tema è appropriato alla business class Luftansia, che è lussuosissima, ma anche ottimizzata al centimetro, applicando la grande esperienza di impaccamenti umani che deriva ai crucchi dalla seconda guerra mondiale. Per dire, io che sono al finestrino – quindi con meno accesso alle cappelliere – dispongo di sei centimetri sei di stivaggio laterale accanto al mio sedile!

Qui, ecco, qualcosa succede, perché dopo il decollo mi ricordo di aver visto un documentario sul magico mondo dei videogiochi; nulla che già non sapessi, e in più fanno vedere le immagini del secondo videogioco della storia (Spacewar, per PDP-1) e mi sovviene che io ci ho giocato a maggio, al museo del computer di Mountain View, e ho pure il video di Vint che ci gioca, eppure tutto ciò non è andato online perché son stato troppo pigro per bloggarlo, e poi ho dato la precedenza ai gerani sulle corsie di sorpasso.

Qui succede ancora qualcosa, perché mi addormento un po’ e quando mi sveglio la scena cambia. Io sono inchiodato al mio posto dal pranzo – perché in business class, da signori, ti servono tre portate, però con quaranta minuti di attesa tra l’una e l’altra – e vedo passare le hostess. Sono parecchio brutte, per cui decido che non utilizzerò qui il buono per uno jus primae noctis che mi hanno dato insieme alla tessera argento; però si fanno in quattro per noi clienti business, anche se ogni tanto devono affacciarsi verso l’economy e servire il pranzo, cioè, lanciare sacchetti di patatine alla gente che se le contende a gomitate. Il mio vicino si diverte, e grida, “More chips! More chips!”, così le hostess lanciano in economy altre patatine, per fargli rivedere la scena.

Io nel frattempo mi sono disteso, è arrivato il dolce, e imparo una cosa che non si deve fare: mangiare i cantucci (secchi) da distesi. Si sbriciolano, e i pezzetti duri di biscotto ti si infilano nel collo della maglietta e si spargono per tutta la schiena: è doloroso! Per fortuna, incomincia l’intrattenimento di bordo: le hostess cominciano a ballare cantando vecchie canzoni della lotta d’indipendenza dell’Alto Adige, come quella che fa “Veniamo giù dai monti / dai monti del Tirolo / e ci prendiam lo scolo / in piena libertà”. In un tripudio di salsicce, un passeggero rovescia la birra su un altro passeggero, poi insieme annunciano una guerra lampo che prevede l’invasione delle file quattordici e quindici. E’ bello volare in tedesco.

A questo punto, il viaggio è diventato interessante: siamo da qualche parte verso la Groenlandia, e dal finestrino vedo un’isoletta che, stando all’atlante, potrebbe essere Kâdëldiåø FrèiddlÃ¥førkka. Difatti è vero, perchè all’improvviso, puff! davanti all’ingresso della toilette si materializza il diavolo. Le hostess gli porgono i moduli verdi per l’ingresso negli Stati Uniti, ma lui li rifiuta sdegnosamente (ha parecchie amicizie laggiù), e si rivolge a noi. Con voce da baritono, grida: “Mi i son el diao, e i rangio le pipe!”. Sottolinea l’affermazione girandosi ed emettendo un fragoroso peto, che travolge le tendine di separazione e annichilisce orribilmente una manciata di passeggeri in economy, che le hostess provvedono a sostituire con manichini per non urtare la nostra sensibilità.

Interessato all’occasione di dialogare con Sua Malvagità, faccio doppio clic sull’apposito bottone del mio telecomando; ma non è quello giusto, perchè si apre il tavolino. Comincio a premere pulsanti all’impazzata, e la sedia s’allunga, il video si accende, parte la radio, si spegne la luce, insomma la tecnologia mi domina, ne sono prigioniero.

Resisto, e vorrei chiedere al diavolo se ha capito cosa spinga la razza umana ad organizzarsi in una serie piuttosto complessa di attività, culminanti nel produrre un coso grande come un palazzo, pieno di sedie di plastica e di persone stipate e di cherosene che brucia e scioglie l’Artico, e metterci sopra me medesimo. Il tutto trasformato in un non-luogo d’eccellenza, perché noi della business, con le tendine abbassate, paghiamo il privilegio di non essere; per tredici ore, non siamo in nessun posto, e anzi non ci muoviamo, perchè siamo seduti ad osservare quattro pareti di plastica che non si spostano d’un millimetro.

Il diavolo, però, sta mangiucchiando i sandwich della prima classe, che non sono come quelli della business, ma hanno uno strato di zero virgola otto centimetri di salmone in più, e vengono serviti quattro minuti e venti secondi prima degli altri. Qualcuno dei viaggiatori della prima classe protesta, e lui lo manda in economy, dove si crea però un sovraffollamento; pertanto, in modo ben scientifico, egli autorizza le famigliole ad amputarsi una gamba ogni tre persone, per stare più larghi; e vedo mamme convincere gentilmente il figliolo a sgambarsi un attimo per il bene collettivo, ché oggi tocca a lui.

E’ un incubo, perché, per quanto io faccia, non riesco ad attirare l’attenzione di Satana; arriva solo una hostess che mi chiede se ho bisogno di più ossigeno, che in quel caso può far depressurizzare l’economy, tanto hanno maschere ad ossigeno sufficienti per quasi tutti i passeggeri. Io mi sento un po’ giù e quindi rispondo di sì, tanto per far succedere qualcosa, in questo volo infinito. C’è solo il disturbo che, essendo in fondo alla business, mi toccherà ributtare di là i passeggeri che, stramazzando al volo, cercheranno di venire a rubare i centimetri cubici d’aria che Lufthansa ha stanziato per me.

Alla fine il diavolo viene a me in tutta la sua maestà, anche se stringe in seno una gamella di acciughe al verde da cui pesca ogni tanto con le mani, e il bagnetto gli cola un po’ sul corpo (è nudo, il diavolo mica ha i vestiti). Conosce tutte le canzoni di Gipo, ma neanche lui sa spiegarmi a cosa servano i jumbo jet in generale, e quello su cui sono io in particolare – anche se, per quel che ne vedo, potrebbe essere un camion, una scatola di cartone, un teatro di posa o lo stomaco di una balena. A ben vedere, c’è una catena di perché che spiega il motivo per cui sono qui, ma è troppo lunga, e Satana mi fa notare che ci metteremmo una giornata a dipanarla tutta. Meglio attaccare la radio sul canale del J-Pop, musica giapponese e veramente giovane, e divertirsi, fino a che lui tornerà alla sua isola, e l’aereo potrà atterrare, e noi riconnetterci al pianeta, sperando che la prossima volta il caffè sia meno violento, e l’assenza di contesto meno evidente.

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venerdì 10 Agosto 2007, 17:19

Shrek Terzo

Mi dispiace, faccio confusione: l’idea di prendere (oltre a John Cleese che da sempre fa il Re Rana) Eric Idle per doppiare Merlino non è stata troppo fausta, perché ora non riesco a capire se le scene medievali che mi ricordo sono veramente tratte da questo film, oppure da Spamalot, oppure da Monty Python & The Holy Grail, oppure sono le immagini di lui crocifisso con i capelli al vento che canta Always Look At The Bright Side Of Life alla fine di Brian di Nazareth. Per fare un esempio, anche in Shrek III c’è una cavalcata simulata con le noci di cocco: ok, è sempre divertente, sarà anche un omaggio, ma trent’anni dopo potevano anche farsi venire in mente qualcosa di nuovo…

Insomma, Shrek III è stanco e deboluccio, anche se godibile specie verso il finale. Peggio: troppo spesso, essendo a corto di idee divertenti, la butta sul melenso. Ci sono comunque alcuni punti che fanno proprio ridere, tipo il gatto di Banderas che prima di partire saluta un intero molo pieno di fidanzate, o le parodie di Biancaneve che canta con gli animaletti (già viste peraltro in Drawn Together), ma non sono molti; e siccome alla grafica non si fa più caso, le ragioni per vederlo si riducono alla fedeltà al brand. Meglio che un pugno in faccia, ma non aspettatevi meraviglie.

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mercoledì 8 Agosto 2007, 09:14

AliPantalone

Dovendo recarmi a metà settembre a Strasburgo per un convegno, mi son messo a cercare di prenotarmi il biglietto.

La soluzione offerta dalla mia compagnia preferita, Lufthansa, non è ideale: difatti Strasburgo è servita da Francoforte tramite un bus, invece che un volo, e le tre ore in autostrada non mi attirano granchè. Il costo da Torino è di circa 360 euro tutto compreso, per circa sei ore di viaggio a botta.

L’alternativa è Air France, via CDG, con un ottimo servizio all’andata (in meno di quattro ore sarei là) ma con un ritorno che prevede una coincidenza lunghissima al ritorno, facendomi perdere buona parte del pianificato sabato turistico. Costo, poco più di 300 euro.

Bene, mi son detto: che sia giunta l’ora di utilizzare la compagnia di bandiera, ammesso che a settembre voli ancora? Da Malpensa, infatti, c’è un bel collegamento diretto Alitalia due volte al giorno; pazienza per lo spostamento a Milano, ma almeno risparmio un volo. Così provo a fare il preventivo… e la compagnia di bandiera, pur facendo a meno della coincidenza e quindi dimezzando il numero di tratte da farmi percorrere rispetto agli altri, mi chiede soli 765 euro.

Certo, quei costi saranno giustificati, sapendo che l’equipaggio sta a Fiumicino e lo devono portare a Malpensa apposta… secondo me, poi, avranno pensato che a Strasburgo ci vanno i parlamentari, che certo non guardano al costo, e quindi tanto valeva spennarli per bene. O meglio, spennare noi contribuenti che gli paghiamo le spese.

Ma forse forse che se nessuno vola Alitalia c’è un motivo?

E forse forse che sarebbe ora che fallisse sul serio?

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martedì 7 Agosto 2007, 16:12

Scorrerà il sangue

A margine della mia visita alle Gru, ho scoperto una cosa molto interessante: a brevissimo (già sono iniziati i lavori, ed è stata cambiata l’insegna esterna al complesso) la vecchia Rinascente verrà sostituita da un nuovissimo negozio Fnac.

MediaWorld, tradizionale bastione elettronico del centro commerciale, si sta già preparando: ha appena ristrutturato tutto il negozio spostando ogni cosa in modo da renderla introvabile.

Non appena Fnac aprirà, scorrerà il sangue; sperabilmente a vantaggio di noi consumatori.

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