Non si vede da qua
Stamattina, in una piccola intervista sulle pagine locali de La Stampa – insomma in uno di quei luoghi mediatici meno evidenti dove si possono ancora esprimere opinioni scomode – il professor Sartori, con parecchi giri di parole e naturalmente presentando la cosa come una pura ipotesi di scuola, si chiede se sarebbe possibile trasformare il nostro Paese o un qualsiasi Paese democratico in una dittatura senza un vero colpo di stato, ma semplicemente occupando il potere e creando un clima per cui il dissenso viene scoraggiato; per cui non c’è bisogno di censurare i media, perché i media si censurano da soli; per cui non c’è bisogno di incarcerare i dissidenti, perché tanto vengono ignorati o sbeffeggiati dalla massa.
Gli artisti, come al solito, ci arrivano prima; per esempio, questa canzone di Silvestri è del 2002 e chissà quanti l’avranno canticchiata senza capire bene cosa volesse dire. Eppure, il dubbio di vivere in una “dittatura dolce”, che “c’è ma non si sa dove sta, non si vede da qua” sta cominciando a prendere piede in molti. Se ci si ferma un attimo a pensare, come altro definire il fatto che basta accendere il televisore sui più visti telegiornali della nazione per ritrovarsi di fronte soltanto a dieci minuti di dichiarazioni politiche senza contraddittorio, seguiti da venti minuti di “informazione” sulle gag di Fiorello, sui filmati buffi di Youtube o sulla moda / paura del momento? E come definire una situazione in cui il potere esecutivo, concentrato in pochissime persone, prima imbavaglia quello legislativo mediante una legge elettorale che fa dipendere l’elezione esclusivamente dalle scelte dei leader e non dalla volontà popolare, e poi blocca quello giudiziario tagliandogli i fondi e privandolo degli strumenti necessari per indagare?
Non bisogna fare l’errore di credere che sia necessaria la presenza di squadroni della morte e roghi in piazza perché la libertà venga eliminata; basta indottrinare le persone. Ma la nostra televisione, a parte l’abbondanza di culi e tette, è davvero così diversa da quella della Corea del Nord?
Non bisogna però nemmeno fare l’errore di attribuire tutto a una sola persona. Il problema non è Berlusconi, anche se certamente Berlusconi, così come persone altrettanto e più pronte di lui a gestire il potere e a guadagnare dall’organizzazione sociale, fa in modo di spingere la realizzazione compiuta di questo sistema. (Il bello è che ce l’avevano tranquillamente detto in faccia trent’anni fa, ma nessuno sembra ricordarselo.) E’ però tutto il sistema ad essere organizzato in questo modo; non è questione di aspettare che una persona specifica tiri le cuoia (le auguro cento di questi giorni, Presidente).
Viviamo in qualcosa che è persino erroneo definire neoliberismo, perché di libertà ce n’è ben poca, anche sul mercato, dove è tutto un fiorire di cartelli e manovre per gonfiare i prezzi e impoverire le persone. Viviamo in qualcosa che è difficile da definire, proprio perché non si vede; non è concentrato in una persona o in un luogo, ma è diffuso nelle regole immateriali che tengono insieme la società .
Da qualche anno, però, complice la diminuzione della quantità di risorse planetarie disponibile per ogni essere umano del mondo sviluppato, le condizioni di vita che questo sistema offre ai suoi sudditi sono in via di peggioramento; e lo saranno sempre di più, se non si cambiano le basi su cui sono fondate le nostre società . La fame è l’unico vero fattore che genera le rivoluzioni, e la fame sta crescendo; a un certo punto nessun sistema potrà resisterle, potrà solo scegliere se allentare la presa o crollare (e per quanto sembri stupido, di solito i dittatori scelgono di crollare).
In mezzo, però, c’è la fase cattiva, quella in cui il controllo sulla società diventerà sempre più stretto, e qualsiasi forma di protesta sarà repressa col manganello. Che sia Venaus, che sia Chiaiano, che siano operai che lavorano in condizioni disumane o impiegati alla fame, non ci sarà spazio per la protesta; indipendentemente dalle ragioni, la protesta sarà definita come disfattista, egoista, antisociale, o semplicemente maleducata. E sarà repressa tra gli applausi della gente.
Un solo fattore può scombinare questa situazione: la rete, ossia la possibilità di comunicare e di organizzarsi trasversalmente, dal basso, al di fuori del controllo e degli schemi. Purtroppo ormai anche loro cominciano ad accorgersene, e il rischio è che, con la scusa della sicurezza, anche la rete si trasformi presto in uno strumento controllato. Già oggi Google sa, Google può; c’è chi l’ha definito il seme del nuovo fascismo telematico, visto che Google esercita potenzialmente una dittatura dolce su ciò che cerchiamo e troviamo in rete, sulla nostra mail, sui nostri filmati, su tutto ciò che siamo e facciamo. Ma se riusciremo ad usare la rete in modo intelligente, evitando le dolci trappole che raccolgono dati su di noi senza nemmeno chiederci (pensa!) di essere pagate, allora avremo qualche speranza: perché l’elemento chiave della rete non sono i computer, sono le persone che si parlano.
Nel frattempo, che ognuno di noi si chieda perlomeno in che società vive, che ne parli, che non abbia paura di esprimere pensieri scomodi e dissenzienti; e anche se non tutti possono impegnarsi attivamente per cambiare il mondo – e poi che fare, è frustrante, è difficile, e le possibilità sono poche – è importante almeno che sempre più persone siano sveglie e coscienti.
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