Digitale pubblico o digitale privato
Per chi ancora non ne avesse sentito parlare, volevo segnalare e invitare a firmare il Public Domain Manifesto, una iniziativa di Communia – la rete tematica europea sul pubblico dominio digitale, una iniziativa universitaria finanziata dall’Unione Europea di cui il nostro Politecnico è il coordinatore – e di tanti amici e compagni di varie battaglie digitali, a partire dal primo firmatario Philippe Aigrain.
Noi siamo talmente immersi in una cultura di copyright, diritti e regole varie che non ci rendiamo nemmeno più conto di quanto essa sia innaturale. Eppure, fino a un paio di secoli fa la protezione delle opere d’ingegno era un concetto praticamente sconosciuto, ed è solo da pochi decenni che è stato coniato il termine “proprietà intellettuale”. Come ben spiega Richard Stallman, è questo stesso termine a essere ingannevole, coniato dalle industrie dell’audiovisivo per far passare subdolamente l’idea che i pensieri siano proprietà di chi li pensa.
In realtà , una “invenzione” o una “creazione” sono il frutto del loro tempo, e si basano su di un 99% di conoscenza pregressa che risale indietro nei millenni; e, da sempre, il progresso scientifico e culturale della società si basa sulla disponibilità di quello che c’è stato prima. Con la rivoluzione industriale, si decise di premiare l’opera dell’ingegno con un monopolio temporaneo, il brevetto: chi inventa un nuovo meccanismo può sfruttarlo commercialmente in esclusiva per vent’anni, in modo da ripagarsi degli investimenti di tempo e denaro, incentivando quindi ulteriori invenzioni. Nessuno, tuttavia, aveva mai pensato che l’invenzione fosse “proprietà ” di chi l’aveva inventata: si parlava solo di sfruttamento commerciale.
Questo concetto è progressivamente degenerato, arrivando invece all’idea opposta: quello che invento, quello che scrivo, quello che compongo è mia proprietà e posso non solo sfruttarlo commercialmente, ma imporre agli altri le modalità con cui lo possono usare. Specialmente al giorno d’oggi, per produzioni intellettuali il cui ciclo di vita economico è di venti-trent’anni (per i film, tranne pochi classici) o di pochi anni (per il software), succede che la proprietà sia di fatto senza fine: quando scadono i termini del copyright, la cosa non interessa più a nessuno.
Succede però, per la grande maggioranza delle opere, l’effetto opposto: dopo pochi anni non sono più commercialmente interessanti dunque nessuno le distribuisce, ma sono ancora sotto protezione e dunque non sono liberamente accessibili né utilizzabili. Per fare un esempio che conosco bene, le sigle dei cartoni animati degli anni ’70 erano destinate sicuramente all’oblio. Fu proprio la rete a metà anni ’90, con il Progetto Prometeo (di cui fui uno dei promotori), a salvarle e anzi a rilanciare quel genere di musica fino a farlo diventare un classico. Fu un atto di totale pirateria, ma alla fine portò un beneficio economico ai titolari dei diritti, perché il rinnovato interesse in quei brani volle anche dire nuove possibilità di guadagno. Eppure ricordo quando arrivò al Rettore del Politecnico una raccomandata dalla Federazione contro la Pirateria Musicale (allora diretta dall’attuale capo dei discografici italiani, Enzo Mazza) che ordinava la chiusura immediata del nostro sito (noi resistemmo e minacciammo di creare un caso, e il risultato fu un accordo: togliete i brani di Cristina d’Avena, di proprietà Mediaset, e lasciate il resto).
Eppure l’argomento è tabù: qualche anno fa, nell’ambito del gruppo di lavoro WGIG delle Nazioni Unite, mi presi il compito di scrivere il “paper” sulla questione. Giudicate voi se era di parte: penso fosse semplicemente onesto. Peccato che il rappresentante delle major americane nel gruppo di lavoro si sia sdraiato contro di esso, tanto che non fu mai pubblicato ufficialmente come risultato collettivo.
Il copyright, infatti, è un elemento fondamentale della strategia americana per mantenere la propria posizione di superpotenza economica. Forse non sapete che in tutti gli accordi commerciali bilaterali firmati dagli Stati Uniti con i paesi in via di sviluppo vengono inserite clausole che li obbligano alla protezione ossessiva della proprietà intellettuale, spesso senza nemmeno spiegargli bene cosa stanno firmando.
Probabilmente nelle ultime settimane avrete letto in rete della sollevazione generale provocata dall’avanzato stato di negoziazione dell’accordo ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement), che con la scusa della lotta alla contraffazione vuole imporre misure strettissime di controllo e repressione sulla rete, tra cui (pare) le famose risposte graduate per cui “se scarichi MP3 ti buttiamo fuori da Internet”. Il tutto – incredibile – negoziato in maniera segreta tra i governi, al di fuori del controllo della pubblica opinione e persino dei Parlamenti.
Vi invito a vedere questo video (se parlate inglese o francese); per il resto, io l’allarme l’avevo già lanciato quasi tre anni fa. Perché con “pirateria” ormai sempre più si intendono “opinioni sgradite al governo”: filmati scomodi, testi di protesta, parodie in musica che hanno spesso bisogno del materiale originale da commentare; o semplicemente, con i meccanismi introdotti per “fermare la pirateria” (ad esempio i filtri obbligatori imposti in questi mesi ai provider italiani, che vi impediscono di accedere a siti come The Pirate Bay) si può poi non solo fermare il progresso, chiedendo un obolo insostenibile ai paesi in via di sviluppo che vogliano sfruttare l’acqua calda che la multinazionale di turno ha provveduto a brevettare, ma fermare anche il dissenso.
La rete è l’unico mezzo di comunicazione non controllato centralmente; dunque è l’unica difesa della democrazia. Per questo la libertà della rete è così importante.
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