Da vedere a Phoenix
Alla fine abbiamo scoperto che anche a Phoenix ci sono delle cose interessanti da vedere – e non solo i centri commerciali, dove pure, in questo momento, si compra con poco e vale la pena fare un giro.
Ieri mattina alle sette e un quarto ci siamo presentati all’ingresso dei Desert Botanical Gardens: se l’ora vi sembra inusuale, sappiate che è l’unico momento in cui vale la pena andare, dato che di giorno, con oltre 40 gradi sulla testa, la visita sarebbe devastante. Invece così è stato magnifico; nella pace e nel relativo fresco del mattino (solo 33 gradi), abbiamo scoperto ogni genere di cactus e le altre piante del deserto.
Quando pensiamo al deserto, noi abbiamo in testa il Sahara; ma il deserto americano è ben diverso. E’ una distesa di sabbia grigia e rocciosa, frastagliata e piena di colline e catene montuose, coperta dai saguaro, i grossi cactus a tridente che arrivano a diversi metri di altezza e rappresentano una delle basi dell’ecosistema, accumulando acqua per tutti; e poi c’è una varietà infinita di piccoli cactus e di altri cespugli duri. Un giro nei giardini mostra come il deserto sia pieno di vita, al punto che a un certo momento due coyote ci hanno attraversato il sentiero, e uno dei due è poi riapparso con un coniglio in bocca.
I giardini sono in mezzo alla città , a dieci minuti dal centro, ma, data la bassissima densità di Phoenix, “in mezzo” è una parola grossa; in molte zone le case sono sparsissime e vi sono intere colline rocciose tra un quartiere e l’altro, e anche i giardini erano assolutamente credibili nella loro naturalità . Le altre attrazioni della giornata, sulla mappa, erano “solo un po’ più in là ”, eppure se non si imbocca l’autostrada diventano un miraggio: si va avanti a cinquanta all’ora per i grossi stradoni, un semaforo per volta. Solo alla fine abbiamo realizzato che tra noi e l’ultima destinazione c’erano trenta chilometri di città senza interruzione.
La prima visita del pomeriggio è stata a Taliesin West, la casa-studio-scuola di Frank Lloyd Wright; nonostante il biglietto esoso (32 dollari… ma qui i musei generalmente non sono sovvenzionati e sono dunque carissimi) vale davvero la pena. Quando fu costruita, alla fine degli anni ’30, era in mezzo al nulla, sulle prime pendici di una collina a venti chilometri dal centro di Phoenix; sotto c’era solo il deserto e qualche ranch. Ora, le distese di ville e villette arrivano fino alla fine della pianura, e l’esperienza si salva solo perché la casa comprende anche parecchi ettari di terreno tutt’attorno. Ci hanno detto che quando nel 1948 nella pianura sotto la casa misero la prima linea telefonica con i relativi pali, Lloyd Wright ne fu talmente turbato che voleva abbandonare tutto; non sopportava che l’uomo avesse devastato con una fila di pali la bellezza della natura. Alla fine restò, ma ristrutturò l’intera casa in modo da girare le stanze e guardare verso le montagne invece che verso la pianura. Chissà cosa direbbe oggi…
Effettivamente, lasciate le ultime nuovissime strade con le ultime nuovissime villette, l’ambiente cambia di botto e ci si trova comunque nel niente… per i nostri standard odierni. La casa è ovviamente bellissima e fa venir voglia di fare l’architetto; è costruita da una serie di locali concepiti a metà tra interno e esterno, in cui aria e luce escono ed entrano continuamente. Durante la visita ti lasciano sedere sui mobili realizzati dall’architetto e ti raccontano una serie di aneddoti… e poi ti regalano delle bottiglie d’acqua per resistere, dato che ovviamente non c’era condizionamento. In sostanza, è una visita molto istruttiva sulla vera qualità di un grande architetto, quella di creare insieme bellezza e comfort in modo che ciò sembri talmente naturale da non notare nemmeno il lavoro intellettuale e tecnico che c’è dietro.
L’ultima visita è stata al museo degli strumenti musicali, perso in un posto dimenticato dal mondo vicino a una uscita dall’autostrada: non ci sono nemmeno ancora le strade, ma solo dei cartelli che dicono “qui ci sarà l’incrocio con la sessantaquattresima strada quando la allungheremo”, e svincoli autostradali già pronti per strade che non esistono ancora. Anche il museo è tuttora in allestimento, pieno di bacheche vuote e semivuote, e nonostante questo è impressionante; ci sono migliaia di strumenti di ogni provenienza.
Magari si poteva organizzare diversamente – in pratica è una esposizione per nazioni, anche se per loro il Kurdistan è già indipendente – e magari la selezione di cosa mostrare è un po’ arbitraria; il sistema elettronico di visita – ti danno delle cuffie e quando ti avvicini a uno schermo parte la musica corrispondente – ha ancora dei bachi. Eppure la visita è molto interessante, con gli strumenti tradizionali di tutto il mondo, e dimostra bene come la musica sia un linguaggio universale e insieme una esigenza primaria dell’uomo. Per il visitatore medio, il pezzo forte della visita è il piano su cui Lennon scrisse Imagine. Per me, il momento migliore è stato trovarmi in una sola bacheca un minimoog e un theremin; non solo, ma alla fine c’è una sezione “hands on” in cui puoi anche provare a suonare il theremin… e, per chi ha studiato il piano, c’è anche un grande Steinway a disposizione. Ma non mi sono osato!
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