Viva lo sharing, ma senza economy
Forse non tutti sanno che quasi vent’anni fa, da studente del Politecnico, insieme ad altri appassionati di tutta Italia, misi in piedi il primo sito Web che conservava e distribuiva in forma digitale le sigle italiane dei cartoni animati degli anni ’70 e ’80: il progetto Prometeo. Il formato MP3 era appena stato inventato e sconosciuto ai più; alla rete si accedeva tramite modem e telefonate notturne; l’ondata di nostalgia per quegli anni era ancora di là da venire. Appassionati di tutta Italia, però, tirarono fuori dal cassetto quei 45 giri ormai introvabili, li digitalizzarono con le loro SoundBlaster e, a spese proprie, senza guadagnarci niente e per il semplice piacere di condividere il loro tesoro con gli altri, li caricarono sul sito.
Dopo poco tempo arrivarono gli avvocati: ebbi un lungo scambio di mail con un allora sconosciuto Enzo Mazza, che cercò con le buone e con le cattive di farmi sbaraccare tutto, al che io dissi che l’avrei sbaraccato davvero facendo il maggior casino possibile sui media, e la negoziazione si concluse con l’eliminazione delle sole canzoni di Cristina D’Avena, le uniche che avessero ancora un qualche interesse commerciale in quanto ampiamente sfruttate da Mediaset.
Un paio di anni dopo furono inventati Napster e il peer-to-peer, e la questione della condivisione dei contenuti divenne globale; nel frattempo i siti del progetto Prometeo divennero obsoleti e vennero chiusi. Tuttavia, la nostra iniziativa riaccese l’interesse del pubblico per quelle canzoni, e credo che se l’altra settimana Cristina D’Avena è andata a cantare a Sanremo – ossia, se quei pezzi che stavano per scomparire hanno riacquistato un grande valore anche economico – è anche grazie a quell’antico sforzo di condivisione.
Non voglio qui riaprire l’annosa questione sulla legittimità del condividere in rete contenuti culturali di cui non si possiede il copyright; lasciamola per un’altra volta. Voglio però sottolineare che, nei primi anni dell’Internet di massa, la condivisione è sempre stata concepita come una iniziativa dal basso fatta per il bene di tutti, in cui ogni utente attivo della rete sopporta una propria fetta di costi per creare un servizio di enorme valore liberamente disponibile a tutti. E con lo stesso spirito sono presto nati altri servizi pienamente legittimi, prima puramente online (Wikipedia, per esempio), e poi anche nel mondo reale (Couchsurfing, Blablacar), in cui ognuno condivideva gratuitamente qualcosa che possedeva già .
Certo, è subito emerso un problema di fondo: gli utenti possono anche donare il proprio pezzetto gratuitamente, ma chi paga i costi, potenzialmente enormi, della piattaforma di condivisione? Inizialmente le piattaforme si basavano anch’esse su donazioni volontarie e condivise di risorse tecniche e di tempo, ma il modello, Wikipedia a parte, faticava a reggere.
Questo è stato il momento in cui l’economia “classica”, quella dell’uomo utilitaristico che si muove solo per il profitto, quella che i pionieri della condivisione volevano sfidare e che per qualche anno sembrava poter essere clamorosamente buttata fuori dalla porta, è rientrata in gioco. Inizialmente lo ha fatto dalla finestra; servizi come Youtube, gestiti da società a scopo di lucro ma con ampie disponibilità ad attendere il lungo periodo, hanno iniziato a ripagarsi i costi con la pubblicità , come hanno poi fatto le aziende dello step successivo, cioè i social network; la condivisione per gli utenti resta gratuita, ma l’azienda incassa con uno sfruttamento economico non troppo invasivo dei contenuti degli utenti.
Dopo un po’, anzi, giustamente si è detto: ma se la piattaforma oltre a ripagarsi i costi comincia a guadagnarci, non sarebbe giusto che una parte di questi guadagni tornasse agli utenti che caricano i contenuti? Giusto, sì; ma così l’aspetto economico ha preso altro spazio, e sono nati i professionisti del video scemo e della stupidaggine virale, e poi i titoli acchiappaclick e le bufale acchiappagonzi. A quel punto anche la commercializzazione delle piattaforme si è fatta più invasiva, dato che sempre più utenti non condividevano per piacere o per altruismo, ma per profitto e per vantaggio personale: e quindi, liberi tutti di mandare in soffitta lo spirito di beneficenza.
E’ da lì che si arriva a quest’ultima epoca, quella della “sharing economy”: Uber, AirBnB e compagnia bella. Essa abbatte definitivamente il tabù che scricchiolava da un pezzo ma che ufficialmente non si poteva toccare, quello di condividere qualcosa non per altruismo o per divertimento, ma per il desiderio, o peggio la necessità , di guadagnare dei soldi. Che sia un tabù è evidente proprio dai pietosi tentativi iniziali dell’ufficio stampa di Uber di sostenere che i loro autisti non lo fanno per i soldi, ma per il piacere di caricare uno sconosciuto e portarlo da un punto A a un punto B, punti in cui loro altrimenti non sarebbero mai andati. Ma ormai hanno smesso anche loro: la prima cosa che sta scritta oggi sul loro sito è “GUADAGNA SOLDI GUIDANDO LA TUA AUTO”.
Nella “sharing economy”, le piattaforme non servono a trovare altre persone con cui condividere una passione o un’amicizia, ma a trovare i clienti per un’attività a scopo di lucro che vuoi fare con la tua auto, la tua cucina o la tua camera da letto, probabilmente perché ti hanno già tanto precarizzato – magari grazie a un’altra forma di “sharing economy” globale e delocalizzata che ha preso piede nella tua professione – che oltre a lavorare otto ore di giorno devi anche passare l’ex tempo libero a venderti un po’ della tua auto, della tua cucina o della tua camera da letto per far quadrare i conti a fine mese.
Intendiamoci, non c’è niente di male nel creare nuovi modelli di business con cui fare utili, trovando i clienti a chi ha un prodotto o un servizio da vendere e agendo da garanti della transazione, in cambio di una percentuale. Dai sensali e dai magnaccia fino ai commerciali e ai pubblicitari, è il secondo mestiere più antico del mondo. Certo, se poi il servizio viene venduto in nero e in barba a tutte le normative sulla sicurezza, sull’igiene, sui diritti del lavoro, magari sostenendo pure che non rispettarle è una grande innovazione perché fa scendere i prezzi, la cosa assomiglia un po’ tanto alla versione digitale del caporalato o delle fabbriche cinesi (non mi dilungo, vi rimando al post dell’anno scorso). Ma è ben possibile, e anche giusto, mettere a posto tutti questi aspetti e permettere a queste aziende di offrire il proprio servizio sul mercato, alle stesse condizioni di chi già esercità attività simili, e magari facendo attenzione a non creare nuovi monopoli di fatto, nuove ondate di disoccupati e precari, nuova povertà .
Solo, non spacciate questa per innovazione, e soprattutto non spacciatela per condivisione.