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Archivio per la categoria 'Culturaculturacul'


martedì 20 Febbraio 2007, 11:37

Manuale d’amore 2

Dev’essere la settimana buona: ieri sera, complice la solita catena di coincidenze, mi sono ritrovato di nuovo al cinema Ideal a vedere Manuale d’amore 2: un film a episodi che vorrebbe narrare vari tipi di vicende sentimentali ed erotiche.

Pur non avendo visto il primo film, sono entrato in sala completamente prevenuto, temendo una porcata mielosa condita da volgarità gratuite e battute idiote. Il primo dei quattro episodi, peraltro, ha confermato i miei timori: racconta di un canotto di plastica (interpretato da Monica Bellucci) che, in qualità di infermiera fisioterapista in camice bianco, come in un qualsiasi film porno fa sesso con il bellone di turno ricoverato in ospedale (tal Stramazzo, Scamorzo, Schiamaccio, un nome così); come sottostoria teoricamente comica, c’è un vicino di letto tarro che fa sesso in ospedale con svariate puttane. In più, tutti i maschi indossano le regolamentari magliettine coi numerini, con le scritte in inglese più improbabili, con le lettere a rovescio eccetera, mentre le tipe hanno i pantaloni a vita bassa e la maggior quantità di carne possibile in esposizione; insomma, un numero di Men’s Health animato.

Eppure, il secondo episodio – una fiera denuncia sociale sul tema della fecondazione artificiale, con una coppia costretta ad espatriare a Barcellona e in più, per contratto pubblicitario con la locale municipalità, a visitare tutti i maggiori monumenti del luogo in due minuti grazie a una spider a nolo – già si salva; si salverebbe ancor di più se ci avessero messo un attore al posto di Fabio Volo, ma immagino che anche Volo sia compreso nel suddetto contratto pubblicitario.

Invece, il terzo episodio è proprio bello: narra di due omosessuali del Sud che, tra sofferenze, tormenti e contrasti familiari, devono andare a sposarsi in un posto a caso (Barcellona). I due sono interpretati da Sergio Rubini e Antonio Albanese, e sticazzi: fanno tutto loro e la differenza col resto del cast si vede. Complimenti.

L’ultimo episodio vede una ragazza di un posto a caso (Barcellona), interpretata dall’insensatamente gnocca attrice spagnola Elsa Pataky, venire in Italia alla ricerca del padre e nel frattempo innamorarsi di Carlo Verdone, signore di mezza età che, come chiunque trasgredisca la regola non scritta di non mettersi con le ragazzine, verrà duramente punito in tutti i modi. Senza infamia e senza lode, nel senso che Verdone fa le sue solite faccette buffe, l’altra fa vedere culo e tette, e il cartellino è timbrato.

Dimenticavo di dire che nel film, come narratore, c’è anche Claudio Bisio, che ha partecipato a due condizioni: che non mettessero il suo volto sul manifesto (non si sa mai), e che ci fosse almeno una scena in cui si slingua la Bellucci.

Insomma: questo film vi piacerebbe certo di più se foste appassionati di Grande Fratello e di magliettine coi numeri, ma sotto sotto potrebbe persino essere una operazione per parlare di temi complicati (come l’omosessualità e la fecondazione artificiale) ai suddetti appassionati. Per cui, sospendo il giudizio, e nel frattempo le due ore di film sono passate mediamente in modo piacevole, che alla fine è quel che conta.

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domenica 18 Febbraio 2007, 19:41

La cena per farli conoscere

Ieri sera, uscendo con un gruppo che poi si è aggregato a un altro gruppo e così via, mi son ritrovato all’impossibilmente incasinato da raggiungere cinema Ideal per vedere La cena per farli conoscere, sottotitolo Commedia romantica, di Pupi Avati, con Diego Abatantuono; la storia di un vecchio attore comico italiano dalla vita dissoluta che si trova a fare i conti con il proprio declino e la propria vecchiaia (sarà mica una autobiografia?).

Ogni tanto fa bene vedere un film italiano, per ricordare a se stessi com’è che si era deciso di non andare a vedere i film italiani. Questo non era nemmeno totalmente orrendo; insomma, si poteva vedere, e la folla di venti-x-enni dai vestiti strappati ma firmati e dal portafoglio pieno dei soldi di papà, che affollavano il cinema, sembrava gradire. Certo, però, un buon film – buono, eh, mica un capolavoro – è comunque tutta un’altra cosa.

La parte leggera, o comica, era ancora accettabile; qualche scena buffa c’è, anche se è centrata su Abatantuono che imita Bisio (difatti nel film ha i capelli leccati e poco visibili, niente barba e baffi, e gli occhi sporgenti). Alcune battute erano carine, anche se altre erano di quelle in cui il cinema attorno a te ride, tu no, e ti chiedi pertanto se i venti-x-enni attorno a te sono stati talmente lobotomizzati dai film di Muccino e dalle battute di Striscia la Notizia da ridere a giochi di parole puerili, oppure se li paghino per ridere per finta.

Sulla parte drammatica, stendiamo un velo pietoso; essa è centrata su Abatantuono che imita Vasco Rossi, con gli occhiali da sole, i luoghi comuni spacciati per saggezza di vita, e le frasi sconclusionate. Soprattutto, è appiccicata con lo scotch; probabilmente hanno detto ad Avati che sull’ora e mezza (minimo sindacale) di film, dovevano esserci almeno tot minuti di dramma, e quindi ogni tanto, d’improvviso, succede un mezzo colpo di scena alla Chiquito e Paquito (ovviamente non ve li svelo), tutti piangono per tre minuti, e poi ricominciano i lazzi demenziali.

Da segnalare la dubbia prova delle supposte figlie di Abatantuono; Violante Placido è discreta, Ines Sastre è monotona, Vanessa Incontrada… dai, non scherziamo, Vanessa Incontrada sarebbe un’attrice? Vi dico solo che, quando verso fine film arriva sullo schermo Francesca Neri, sembra che sia entrata in scena Ingrid Bergman.

Riassumendo, la cosa migliore del film dev’essere la franca ammissione che neanche troppo velatamente Abatantuono fa nel finale: che la sua carriera d’attore, per quanto lui se la tiri, è stata ‘nammerda.

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giovedì 15 Febbraio 2007, 10:31

Shine

Ieri sera, su Sky, ho rivisto dopo qualche anno Shine, il film sulla vita del pianista australiano David Helfgott. E’ un film che all’epoca (una decina di anni fa) mi aveva molto colpito, e mi aveva anche riconciliato con la musica, facendomi riscoprire un po’ dei miei antichi studi di piano classico (purtroppo molto limitati). Probabilmente mi ero anche sentito coinvolto, visti i punti di contatto con il genere di educazione che ho ricevuto io, magari meno autoritaria, ma tutta basata sulla necessità di competere da una parte e sui ricatti affettivi dall’altra.

Il film è, in parte, una astuta operazione commerciale che gioca sull’esposizione e conseguente simpatia verso la disabilità mentale del protagonista; tanto è vero che il vero Helfgott da allora gira per il mondo, impasticcato e al guinzaglio della moglie astrologa, per fare concerti da tutto esaurito che emozionano il popolino, ma che, stando ai critici, sono pianisticamente insignificanti, al livello di un buon professore di musica di una qualsiasi cittadina. Il punto, però, non è questo; è il rapporto profondo che c’è tra musica ed emozioni, tra musica e vita nella sua parte più insondabile.

Per molti individui, la musica è l’unico canale di comunicazione tra la propria sfera emotiva ed il mondo, l’unico sfogo per le proprie emozioni compresse e represse. Questo è in generale vero per le varie forme artistiche, ma, rispetto ad esempio alla pittura, la musica ha in più una componente fisica fortissima, una unione di intelletto e realtà; e porta quell’angoscia devastante del volo senza rete, di uno sforzo in cui un minimo errore è sufficiente per cadere, senza appello e davanti a tutti.

Suonare ad alti livelli tecnici ed emotivi è veramente un mostro che rischia di mangiarti, di ingoiarti nella paura, nella competizione, nella fatica, infine nella follia. In questo senso la storia di Helfgott, come quella di tantissimi artisti più o meno conosciuti, è un esempio di come il bello, il sublime, possa svuotare di ogni senso ed energia la vita di chi vi si dedica; e di come spesso la realizzazione della bellezza più perfetta richieda la sofferenza e il sacrificio estremo di chi se ne fa artefice.

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mercoledì 24 Gennaio 2007, 18:45

La mostra del Centenario

Oggi pomeriggio alle 17, dopo il convegno, mi sono ritrovato in centro senza nulla di particolare da fare; la giornata però era splendida, con poche nuvole striate a velare appena la luce azzurra fosforescente del cielo al tramonto, e così ho deciso di fare una passeggiata, e poi di andare a vedere finalmente la Mostra del Centenario del Toro.

La mostra si trova al piano terreno del Palazzo della Regione, in piazza Castello, proprio di fronte all’ingresso di Palazzo Madama, all’angolo con via Palazzo di Città. E’ un po’ stipata, e hanno dovuto fare una grande selezione; eppure, merita la visita, anche da parte di chi non è particolarmente tifoso di calcio. Probabilmente in tal caso la sfilza di foto di grandi giocatori o le loro maglie esposte a mo’ di reliquia non vi colpiranno più di tanto; ma la sequenza di giornali d’epoca, di biglietti, di materiale vario, le foto della tragedia di Superga o dei tifosi in trasferta negli anni Dieci, la scarpiera del Filadelfia o la valigia del massaggiatore del Grande Torino sono comunque emozionanti.

E’ vero, io continuo a pensare che il modo migliore di capire il Toro sia andare una volta all’inizio di via Filadelfia, entrare nel buco della recinzione di fronte al Bar Sweet e fare un giro nel silenzio del vecchio stadio che non c’è più. Ma anche questa mostra, per cominciare, può andar bene.

Però fate in fretta, perchè chiude lunedì 28; l’ingresso è gratuito e la mostra è aperta tutti i giorni dalle 10 alle 20, ma in occasione della notte bianca di sabato prossimo resterà aperta fino alle 2 del mattino. Se siete in giro, fateci un salto.

[tags]torino, toro, centenario, calcio, mostra[/tags]

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sabato 16 Dicembre 2006, 11:54

Fenomenologia di Monia Lacisaglia

La fine dell’anno si avvicina, si tirano le somme, e io recupero vari argomenti di cui è tanto che volevo parlare, ma non ho mai avuto tempo: parliamo quindi del fenomeno radiofonico dell’anno, almeno da noi a Torino.

Il suddetto fenomeno si chiama Monia Lacisaglia ed emette dalle frequenze di Radio Flash, inizialmente nel corso della trasmissione Senza Filtro, che, con la partecipazione di Vito Miccolis (percussionista, cabarettista e idolo delle ragazzine), Federico Bianco (cantante parademenziale e idolo dei maschi barbuti) e Capitan Freedom (navigatore radiofonico di lungo corso), a colpi di musica, stupidaggini e cabaret ha fatto esplodere gli ascolti della radio nella primavera-estate di quest’anno: si parlava di cinquantamila radioascoltatori, che su un’area da un milione e mezzo di abitanti non è poco.

Monia è a Radio Flash in qualità di stagista, come studente di (credo) Scienze della Comunicazione; è entrata nello studio per osservare, e poi qualcuno dei suddetti genialoidi ha provato a mandarla in onda. Quindi, è come uno qualsiasi di noi spedito all’improvviso in uno studio con un microfono in mano. Non sa la dizione, non sa parlare, non sa cantare, non sa ballare, non conosce la musica, ma nemmeno le notizie. Conduceva una improbabile rubrica denominata Sagra Simultanea, in cui le facevano leggere informazioni sulla sagra del bombolone speziato o del peperone triste, e lei regolarmente sbagliava, s’incartava, non capiva nulla, e poi scoppiava a ridere senza più riuscire a smettere.

Ecco, ridere è l’unica cosa che fa bene. Ride annunciando i programmi, ride presentando gli sponsor, ride nelle pause e ride sopra l’attacco dei brani musicali, senza mai riuscire a infilare più di tre parole di fila o a finire una frase. E quindi, è simpaticissima: un grande successo, come si deduce dalla quantità strabordante di messaggini baccaglioni che il popolo di Radio Flash di sesso maschile, pur senza averla mai nemmeno vista in faccia, riversa in trasmissione.

A un certo punto, comunque, Monia ottenne anche il suo hit personale: Applausi per Monia, quattro minuti di hip hop sulla base di Fabri Fibra dedicati al racconto della sua vita, che divennero il tormentone dell’estate di Flash.

Nel corso dell’anno, poi, Monia è un po’ sparita, visto che Lo Sapio (il personaggio principale di Miccolis) & Bianco sono volati sulle frequenze nazionali della Rai. Ogni tanto però riappare, come ieri, quando le hanno fatto un gioco di parole su certe attività “moniacali” e lei, in diretta, ha passato mezzo minuto buono a farselo ridire per due o tre volte, senza riuscire a capirlo, e poi concludendo: “Ah! Credevo che ci fosse uno spazio, e che si parlasse di una dea indiana, la dea Kàli!”. E poi ha cominciato a ridere.

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martedì 14 Novembre 2006, 13:29

Poesie in TV

Mi capita ogni tanto di essere a casa il lunedì sera, e in questo caso finisco sempre per guardare l’eccellente Crozza Italia su La 7, di e con Maurizio Crozza & Elio.

Crozza è bravissimo, e infila personaggi uno dietro l’altro, tra cui uno strepitoso Friedman e un sulfureo papa Ratzinger che scommette trecento euro coi vescovi che può fare un Angelus senza dire nulla, lo fa e poi pretende i soldi a tutti i costi (sì, sono già piovuti gli strali di tutti i gruppi cattolici d’Italia). Elio è una spalla perfetta, e permette di riempire il programma di numeri musicali (dagli spoof degli Abba a vere improvvisazioni) a cui spesso partecipano anche Giorgia e altri ospiti. L’altra spalla è la signora Crozza, Carla Signoris, anche se spesso dà l’impressione un po’ sgradevole di sgomitare per rubare la scena. E poi è fantastico il TG5 remixato da Rocco Tanica

Comunque, non era questo che volevo dire; è che ieri c’era ospite Sandro Bondi, intervistato da un Crozza che rifaceva spiccicato Marzullo. Ora, Bondi è sovraesposto e sovraimitato, ad esempio alla (altrettanto notevole) Grande Notte di Gene Gnocchi; lo prendono tutti per il sedere per la sua velleità di scrivere poesie. Eppure, ieri, a fine intervista, ne ha letta una… e così, al primo ascolto, mi è sembrata bella! Mi devo preoccupare?

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mercoledì 8 Novembre 2006, 12:15

Filmoni

Ieri sera ero a casa mia con un amico, e dopo cena, tra una chiacchiera e l’altra, abbiamo fatto un sottofondo di zapping su Sky; e dopo un po’ di tempo siamo stati inesorabilmente attratti dall’imperdibile canale 132, denominato Fantasy. Partito a maggio con grandi annunci, questo canale è già assurto a stato di culto in modo involontario, per la sua capacità di imbastire una programmazione fatta solo ed esclusivamente di film di serie C.

Ieri sera, difatti, siamo stati inizialmente attratti da The Sculptress, un film che vorrebbe raccontare dell’interazione tra una giovane scultrice smodatamente gnocca e un pazzo demoniaco che parla con il parrucchino della mamma. Già qui, le premesse sono ottime, e il film le conferma ampiamente: trama inesistente, recitazione inesistente, dialoghi insensati, e ogni volta che ti stai per addormentare il regista ti fa vedere la tipa seminuda per motivarti a rimanere (niente nudo però, acc…).

Incuriositi, ci siamo messi con IMDB ad esaminare il curriculum degli altri film che venivano pubblicizzati come di prossima programmazione sul canale. Spicca tra questi la saga di Howling, un ottimo film dell’orrore (di lupi mannari, per la precisione) diretto da Joe Dante all’inizio degli anni ’80. Il problema è che dopo qualche anno decisero a tutti i costi che dovevano farne dei sequel, e quindi nacquero una serie di capolavori imperdibili, naturalmente in programmazione su Fantasy, che vi vado a elencare con una fredda serie di dati: Howling II – La lupa mannara puttana, voto 2.3/10, 33° posto nella classifica dei peggiori 100 film di tutti i tempi; Howling III – I marsupiali assassini, voto 2.4/10, 47° posto nella classifica dei peggiori 100 film di tutti i tempi; Howling IV – L’incubo originale, voto 2.7/10; Howling V – La rinascita, voto 4.1/10 (un capolavoro, rispetto agli altri); Howling VI – I mostriciattoli, voto 3.7/10 (già l’ispirazione è andata via); e infine, il mito assoluto: Howling VII – Luna nascente, voto 1.5/10, escluso dalla classifica dei peggiori 100 film di tutti i tempi perchè “c’è un limite anche a ciò che può essere considerato un film”.

Naturalmente io non ho mai visto Howling VII, ma ci sono sette pagine di recensioni utente una più bella dell’altra, che parlano da sole. Pare che uno degli attori minori del V e del VI – nonchè produttore esecutivo di altri filmoni come Il tagliaerbe (miracolo di realtà virtuale il cui protagonista è lo stesso di The Sculptress, perchè nel trash tout se tient) e soprattutto Il tagliaerbe II, voto 2.1/10, 26° posto nella classifica dei peggiori 100 film di tutti i tempi – abbia avuto non si sa come l’opportunità di scrivere, produrre, dirigere e interpretare il numero sette, e abbia scelto di stupire il mondo con una idea geniale: realizzare un film horror che fosse anche un musical country.

Pare insomma che Howling VII consista di 90 minuti di paesani ubriachi della provincia americana, attori non professionisti, che interpretano se stessi passando il tempo a raccontarsi barzellette vecchissime e a ruttarsi in faccia, e prorompendo ripetutamente in dieci insopportabili minuti di noiosissimi balli country; intercalati ogni tanto da una sequenza in cui una immagine confusa e virata in rosso rappresenta il lupo mannaro che ne ammazza qualcuno. Anche dialoghi e trama sono leggendari, culminando nel momento in cui, per motivare il fatto che lo sceriffo si allontana lasciando inspiegabilmente sola una futura vittima, egli deve recitare la seguente battuta: “Possiamo continuare domani? Mi stai fornendo troppe informazioni rispetto a quante io ne posso assorbire in un giorno.”

E poi, dopo novanta minuti di attesa danzereccia senza nè mostri nè horror, compare infine il lupo mannaro. Nell’ultima sequenza. Per sette secondi. Ed è realizzato con un effetto ottico da filmino di casa, che prende la faccia di un tizio e la allarga un po’.

Non so se Fantasy manderà tutti gli Howling o soltanto i primi, ma quello che so è che, dopo che il mio amico è andato via e che The Sculptress è finito, ha trasmesso Un poliziotto sull’isola, titolo originale Beretta’s Island, film americano “con Arnold Schwarzenegger“, ma scritto, prodotto e interpretato da Franco Columbu, lo Stallone di Ollolai (NU). Per chi non lo conoscesse, è anche lui un ex Mr. Universo: insomma un tizio col fisico di Schwarzenegger, ma alto un metro e mezzo.

Dunque, veniamo ai fatti: Schwarzenegger compare solo nei primi tre minuti del film, in una scena in palestra in cui lui e Columbu si passano bilancieri e manubri come fossero patatine, girata come una televendita di fitness di quelle sulle TV locali. Le battute clou di Arnold sono “è bello allenarsi insieme”, “uno, due, tre…” (contando i sollevamenti a Columbu) e “Sai, mi piace il tuo vino della Sardegna, ma non sopporto il fatto che tu lo schiacci coi piedi: ogni volta che bevo il tuo vino sento puzza di piedi, per questo preferisco il mio vino austriaco, o quello tedesco.” (Schwarzenegger ci ha messo due giorni per memorizzarla tutta.)

Dopodichè, senza nessun collegamento credibile, Columbu – che sui titoli di testa cavalca una Harley Davidson per le strade della California – si trova a cavalcare una Harley Davidson per le strade di Ollolai (NU), in compagnia di una presunta poliziotta dell’FBI (tette grosse e cervello fino), inseguendo dei teorici trafficanti di droga che minacciano i poveri giovani di Ollolai (NU), aiutato da amici locali tra cui spicca la divina Jo Champa, in seguito luminosa stella del Festival di Sanremo sezione Giovani.

Il film, privo di una qualsiasi forma di trama, prevede quindi una serie di inseguimenti tra una potente Fiat Uno del 1983 targata SS, o in alternativa una Seat Regata altrettanto vecchia (erano i tempi in cui la Seat era Fiat) che ha la ripresa di un camion, e la Harley Davidson di Columbu lanciata a dieci all’ora in folle giù da una discesa. In alternativa, si vedono i banditi che scappano a piedi dopo vari ammazzamenti sanguinosissimi (era ancora l’epoca di Commando) inseguiti a due all’ora da Columbu, anche lui dotato della ripresa di un camion. E vi ho omesso l’effetto straniante di un bodybuilder alto un metro e sessanta, lampadato, ingioiellato e vestito Armani che corre per i terreni polverosi e scoscesi di Ollolai (NU).

Il film ce la mette tutta per arrivare al suo originale e importante messaggio conclusivo, “la droga fa male”. A un certo punto si vedono persino i giovani dell’Ollolai (NU) che giocano a pallone sul campetto della parrocchia, finchè uno d’improvviso si butta clamorosamente in area. Simulazione? No, è morto per droga, colpito dai morsi della droga che uccidono i giovani per colpa della droga. Così, a cinque minuti dalla fine, e con le tre sostituzioni già effettuate.

Insomma, ho spento a metà film, eppure Franco Columbu è uno dei miei nuovi miti: pare che abbia fatto altri due o tre film, sempre con la stessa “trama” del poliziotto che porta le cineprese in Sardegna, prima che lo abbattessero per pietà come con i cavalli, e che un giudice gli ingiungesse di restare ad almeno cento metri di distanza da qualsiasi set cinematografico.

Ma non temete, continuerò fiducioso ad aspettare i filmoni di Fantasy.

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mercoledì 18 Ottobre 2006, 07:41

Clerks 2

Ieri sera sono finalmente andato al cinema. Finalmente, perchè se nella mia vita precedente – quando vivevo in coppia – usavo andare al cinema almeno tre o quattro volte al mese, in questa attuale, che dura da due anni e mezzo, ci sarò andato tre o quattro volte in tutto, adattandomi invece alle serate casalinghe davanti a Sky. Il cinema mi piace moltissimo, ma probabilmente non faccio più parte di alcuna compagnia che condivida la passione; o anche, il cinema è una delle più tipiche attività sociali della coppia, per cui i single in età adulta ne restano mediamente esclusi.

Comunque, ho visto Clerks 2, con un po’ di preoccupazione non avendo mai visto il primo; devo invece dire che il film si gode bene lo stesso. La prima metà è scostante, e comprende anche lunghe pause e diverse scene troppo sbrodolate; ma la scena clou che occupa tutto il finale è eccezionale. La volgarità non è così eccessiva (quasi tutto quel che c’era è stato fedelmente riportato negli spot su Radio Flash e Radio Popolare), anche se certo non consiglierei la visione a chi arrossisce a sentir parlare di sesso in modo anatomico. La storia d’amore e la rara pseudofilosofia sono dimenticabili se non irritanti, ma non è quello il punto; il punto sono invece alcune spettacolose scene demenziali qua e là, tra cui una parodia in quindici secondi dell’intera trilogia del Signore degli Anelli che perseguiterà per parecchio tempo tutti i suoi nerd adoratori. Ed è splendidamente assurdo anche il momento Jacksons Five + balletto a centro film.

Insomma, pur non essendo un film indimenticabile, vale il costo del biglietto; e poi, potrete fermarvi per cinque minuti alla fine per leggere l’infinito scrolling di tutti i nomi e cognomi dei “friends” del film su MySpace. Peccato però che uno su dieci abbia per nome “Null”: forse dovevano dare una ripulita a quel dump di database…

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venerdì 6 Ottobre 2006, 18:01

Prodi e la cultura

La cultura, si sa, è importante. Lo è specialmente quella stampata, e lo è ancora di più per la sinistra italiana: la rivista, il quotidiano e il libro, in ordine crescente, sono considerati l’elemento distintivo delle persone intelligenti (di sinistra) rispetto ai buzzurri qualsiasi (di destra). Deve essere per questo che il governo Prodi ha destinato particolare attenzione all’editoria proprio in questi giorni.

Per prima cosa, la legge finanziaria, per uno di quei miracoli legislativi che esistono solo in Italia, contiene anche una piccola ma cruciale revisione della normativa sul diritto d’autore. E’ stato aggiunto di soppiatto il seguente testo:

“I soggetti che realizzano, con qualsiasi mezzo, la riproduzione totale o parziale di articoli di riviste o giornali, devono corrispondere un compenso agli editori per le opere da cui i suddetti articoli sono tratti. La misura di tale compenso e le modalità di riscossione sono determinate sulla base di accordi tra i soggetti di cui al periodo precedente e le associazioni di categoria interessate. Sono escluse dalla corresponsione del compenso le amministrazioni pubbliche di cui al comma 2 dell’articolo 1 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29.”

Cosa vuol dire? Ufficialmente, è un modo per “regolamentare” le rassegne stampa professionali, ossia quei servizi che ti mandano ogni giorno una selezione di articoli sugli argomenti che hai specificato di tuo interesse; essi dovranno pagare una quota – presumibilmente, per motivi pratici, proporzionalmente alla quantità di articoli riprodotti – che verrà poi spartita in qualche modo tra gli editori.

Tuttavia, se leggete, non c’è scritto in alcun modo che la questione riguarda solo chi lo fa per mestiere, o chi ne trae un guadagno, o chi lo fa in maniera consistente, o chi lo fa per terzi (gli unici esentati sono gli enti pubblici: se c’è una buona occasione per aggiungersi un privilegio, come farsela sfuggire?). Da adesso, in teoria, anche citare o fotocopiare un capoverso di un articolo di quotidiano è soggetto al pagamento di una tassa. Per dire, per fare un post come questo io avrei dovuto pagare, non si sa bene (ancora) come e quanto. Non parliamo poi, che so, di fotocopiare e conservare gli articoli che mi interessano.

Sulla stessa scia, sono in arrivo altre iniziative, naturalmente tutte mirate a promuovere la vera cultura, a danno dei contribuenti buzzurri. Il vicepremier piacione “Ciriaco” Rutelli, teso a contendere a Veltroni la leadership della romanità, ha tenuto nella capitale gli “Stati generali dell’editoria 2006”, chiamando attorno a un tavolo tutti gli interessati: lui, l’associazione degli editori e i sindacati dei giornalisti.

In tale occasione ha annunciato che il governo costituirà un “Centro per il libro”, in pratica un collettore di soldi pubblici per finanziare le iniziative autopromozionali degli editori; ma soprattutto, riproporrà la legge sul diritto di prestito.

Per chi non è pratico, si tratta dell’attuazione di una famigerata direttiva comunitaria che prevederebbe l’abolizione di un concetto secolare, quello delle biblioteche pubbliche aperte a tutti. Si stabilirebbe difatti il principio che anche una biblioteca pubblica, per quanto gratuita e senza scopo di lucro, deve corrispondere all’editore un compenso per poter dare in prestito i libri. Di conseguenza, le biblioteche pubbliche diverrebbero a pagamento, o, in alternativa, lo Stato dovrebbe remunerare ogni anno gli editori a botte di milioni di euro.

Di fronte a questa prospettiva, approvata dal Parlamento Europeo dopo la solita campagna di lobbying delle grandi aziende del settore, altre nazioni hanno detto no: Spagna e Portogallo hanno fatto ricorso alla giustizia europea. Noi, invece, ci appresteremmo ad implementarla in silenzio, naturalmente sempre per promuovere la cultura.

Peccato che, nella pratica, tutto questo crescente drenaggio di soldi dalle tasche degli italiani e dello Stato finisca nel solito vecchio imbuto, la SIAE, che redistribuisce il maltolto in base al criterio della quantità. Pensavate che i soldi raccolti in nome della promozione della lettura finissero ai piccoli editori e agli scrittori emergenti? Al contrario, come per la musica, finiranno per la maggior parte nelle tasche dei grandi editori, quelli che pubblicano i calendari delle veline, le riviste popolari e i quotidiani gratuiti, che già fanno profitti significativi ogni anno, e i cui prodotti aumentano scientemente la buzzurritudine degli italiani, anzichè diminuirla. Quelli che sono promotori di cultura quando c’è da farsi abbassare l’IVA e farsi finanziare progetti dalla collettività, ma che sono “aziende che devono stare sul mercato” quando c’è da offrire un servizio pubblico o diffondere contenuti non di massa.

In compenso, in tutte le discussioni di cui sopra c’è un grande assente: la rete. Non sono più soltanto quattro aziende specializzate a far ricircolare gli articoli di giornale, ma centinaia di migliaia di persone, ogni giorno nei loro blog. E non sono più solo gli editori a promuovere la lettura, ma – oltre alle biblioteche e alle università, che però, secondo Rutelli, non essendo nè editori nè giornalisti non sono interessate dalla questione – persone e gruppi che digitalizzano libri, li trasformano in audiobook per i ciechi, li traducono in lingue dove non sono mai stati disponibili, e via così, inventando ogni giorno nuovi modi per far circolare la conoscenza, e renderci tutti un po’ meno buzzurri.

Purtroppo, per la gran parte del nostro mondo politico, le persone della rete sono invisibili. O peggio, sono pericolose; perchè in rete non c’è nessun editore che, con un colpo di telefono, può essere “invitato” a modificare un editoriale o ridimensionare una notizia sgradita al politico di turno, o al contrario a dare visibilità alle sue fregnacce. I nostri blog, a colpi di poche decine di lettore per volta, fanno informazione decentralizzata, e quindi, nell’aggregato, non controllabile.

Se volete approfondire, qui trovate una petizione da firmare contro il provvedimento sulle rassegne stampa, mentre qui ne trovate un’altra contro l’esclusione di biblioteche, università e gruppi culturali dalla discussione sulla promozione del libro. A questo ultimo link troverete anche l’articolo del Corriere della Sera che spiega i dettagli della seconda questione… almeno finchè non approveranno la legge di cui alla prima.

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domenica 24 Settembre 2006, 22:22

I [Heart] Huckabees

In questo weekend di isolamento montano, ho visto I [Heart] Huckabees (sottotitolo, Le strane coincidenze della vita) perchè me ne aveva parlato in lungo e in largo Simone tempo fa, che lo aveva trovato particolare e molto interessante.

Stando alla descrizione sulla guida ai programmi Sky, il film – con un cast degno di nota, che vede tra gli altri Dustin Hoffman, Isabelle Huppert, Jude Law, Mark Wahlberg e Naomi Watts – racconta di “due detective esistenziali, un mestiere curioso con cui aiutano un ambientalista in conflitto con uno yuppie”.

In realtà, già dopo i primi dieci minuti ho capito di cosa si trattasse: il film è la rappresentazione visiva piuttosto precisa del percorso di un tizio che va in analisi, e quindi di altre persone che entrano in terapia con lui e a causa sua.

Per rendere il film divertente, la coppia di analisti si sposta materialmente seguendo il paziente in ogni momento, invece di farsi raccontare gli eventi da lui sul lettino. Ma per il resto si verificano, e vengono mostrate in modo piuttosto preciso, tutte le esperienze e i trucchetti che fanno parte normale della teoria e della pratica di un’analisi, dalle menzogne inconsciamente volontarie ai lapsus rivelatori (mitico, ma tipico, il ragazzo perfettino che messo di fronte alle proprie protezioni e alla propria mancanza di spontaneità, e non capendo perchè si senta improvvisamente così diverso dal solito, si chiede “Come mai non sono me stesso?” – anche se nel doppiaggio la brutta traduzione dell’originale “How am I not myself?” è “Come non essere me”); dalle visualizzazioni guidate all’esame condiviso di fantasie e sogni; dall’introduzione di un alter ego o di un doppio (che nella terapia solitamente è inventato dall’analista, anche se viene presentato come persona reale; difatti mi sarei aspettato che nel film l’alter ego si rivelasse immaginario) fino alla visita ai genitori, con relativa scoperta del trauma infantile; e persino al passaggio per sfiducia a un analista concorrente, cosa che succede nella realtà a non pochi pazienti.

Naturalmente, come sempre accade, la psicanalisi, rendendo le persone consapevoli di ciò che sono e di come siano diverse da come pensavano, finirà per cambiare in modo improvviso, radicale e soltanto apparentemente involontario le loro vite… e anche gli analisti finiranno per essere per un attimo analizzati e quindi cambiati, visto che anche alle persone si applica il principio di indeterminazione di Heisenberg, per cui non si può osservare troppo in dettaglio la psiche di un altro senza esserne per questo influenzati.

Al di là di tutto, questo è un film divertente e che potrebbe farvi riflettere, quindi guardatelo; ma se ciò che vi affascina è il genere di rivelazioni sulla vera natura delle persone contenuto in questo film, specie se applicato a voi stessi, vi consiglierei di cominciare a racimolare i soldi per andare in analisi.

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