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Archivio per la categoria 'Culturaculturacul'


domenica 18 Ottobre 2009, 19:05

Potere tamarro

Quando avevo vent’anni e andavo ai miei primi raduni internettari – quelli di appassionati dei cartoni animati – veniva anche un tizio di Arezzo, il quale una volta stese l’amico che mi accompagnava (che non era del giro, e che si preoccupava del ritorno serale post-cena da Lucca a Torino) dicendo “puoi venire dietro ammè, ma occhio che c’ho la macchina truccata, dopo tre minuti vedi solo i miei gas di scarico”.

La tamarraggine che impera in Italia non poteva dunque che sposarsi bene con il genere tamarro per definizione: l’hip hop. E badate bene che, sebbene io sia abbastanza vecchio da appartenere ancora all’ultima generazione cresciuta col rock, non ho nulla da dire a chi fa musica di quel genere: internazionalmente l’hip hop è una forma d’arte più che degna di nota, che racchiude certamente in sé più creatività e “cose da dire” delle stanche e infinite riproposizioni del rock anni ’80 o ’70 che circolano periodicamente (e in proposito ricordo l’immortale episodio di Mike Patton, talento infinito, che a metà intervista sente che sul palco i Wolfmother attaccano Woman e dà fuori di testa). E infatti, il meglio della musica italiana dell’ultimo decennio è quasi certamente Caparezza.

Dunque l’hip hop per me va benissimo; è certa imitazione all’italiana che, purtroppo… ecco, ieri su Radio Flash mi hanno passato a tradimento una lunga intervista più singolo con tali Club Dogo, e da allora credo che il mio concetto di “tamarro” abbia raggiunto nuovi livelli. Per spiegarmi, intanto allego il video:

e poi elenco le caratteristiche portanti di questo gruppo:
1) tenere rigorosamente le mutande fuori dai pantaloni;
2) scrivere un testo senza alcun filo logico e con errori di ortografia da quinta elementare (tipo “io sò”);
3) metterci sopra immagini tamarre e pure qualche frase in inglese altrettanto zoppicante;
4) fare i fighi parlando a caso di roba firmata di qualsiasi genere (e comunque ribadisco che l’“husqvarna” è un tosaerba);
5) vantarsi di dominare le donne e di entrare “a scrocco nel prive'” (rigorosamente, come appare nel video, scritto con vocale più apostrofo);
6) pensare che sia fico avere un titolo del disco scritto in cirillico, e però il cirillico per loro è ribaltare le lettere orizzontalmente e aggiungere delle umlaut (le famose umlaut del russo);
e così via.

Come per i presidenti del Consiglio, anche per ciò che riguarda i riferimenti culturali ognuno ha il diritto di scegliersi i propri e di sostenerli con orgoglio; del resto Wikipedia ha sdoganato il concetto che qualsiasi ignorante ben determinato può autonomamente assegnare a qualsiasi cosa gli stia a cuore un valore culturale assoluto (vedasi appunto la voce “crew”, il cui testo farebbe fatica ad essere passabile come tema di terza media). Ma non è un male, dato che è proprio grazie a Wikipedia che Grande Capo Estiqaatsi segnala che “Il gruppo collabora con artisti del calibro di Solo Zippo, Chief, Dj Enzo, Dj Skizo e Dj Zak”: Estiqaatsi
pensa che sono tutti artisti estremamente importanti per la storia della musica italiana.

Infatti, la cosa che io trovo deprimente non è solo il fatto che venga presentata come dominante una cultura di bullismo, gang, italiano zoppicante e obiettivi di vita circoscritti tra televisione e discoteca e foraggiati coi soldi; ma anche il fatto che ciò venga messo in atto in maniera calcolata, per puri fini commerciali, sapendo che coi ragazzini la provocazione paga alla cassa. Dunque, meglio chiuderla qui; sperando prima o poi di vivere in un Paese dove si smetta di pensare che qualsiasi cosa può essere cultura, e dove gli “artisti” si preoccupino di invitare i propri fan a studiare e farsi furbi.

[tags]musica, tamarri, hip hop, club dogo, estiqaatsi, cultura[/tags]

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sabato 10 Ottobre 2009, 10:09

Credibilità

“Nel pasticciaccio brutto di Cannavaro positivo al betametasone c’è un particolare che consola: l’estrema plausibilità della trama. In breve. Cannavaro dopo un allenamento viene punto da una vespa e il medico della Juventus, dottor Goitre, gli somministra un corticosteroide temendo che possa morire per shock anafilattico. Il medico avvisa il Ceft (Commissione per l’Esenzione a Fini Terapeutici), Cannavaro la domenica scende in campo (domanda: ma non potevano tenerlo a riposo, visto che bene o male era dopato? Se le vespe avessero punto 11 bianconeri, la Juve avrebbe giocato contro la Roma con 11 giocatori dopati, sia pure “giustificati”?), viene sottoposto a controllo e trovato positivo. Il Ceft chiede alla Juve una più completa documentazione medica, manda una raccomandata con ricevuta di ritorno, la Juve la riceve ma nessuno apre la busta, che resta sotto un plico di corrispondenza su una scrivania (così si racconta). Trascorsi 40 giorni, il Coni decide di aprire un procedimento sul caso, ne dà notizia e l’annuncio di Cannavaro positivo desta scalpore. Il capo della procura antidoping, Torri, va a Torino a interrogare Cannavaro e il dottor Goitre e all’improvviso nella sede della Juventus ricompare la busta della raccomandata, ancora intatta. Nessuno l’ha aperta. Un disguido. Una dimenticanza.

Converrete con noi: un caso che avrebbe tutto per diventare imbarazzante si sgonfia, e si squaglia, per la sostanziale credibilità dell’accaduto.”

(dal blog di Paolo Ziliani)

[tags]juventus, cannavaro, doping, sport, ziliani, ipocrisia[/tags]

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sabato 3 Ottobre 2009, 09:57

Obama go home

Ieri si assegnavano le Olimpiadi 2016 e la suspense era tutta per la sfida tra Rio de Janeiro e Chicago: da una parte una delle città più affascinanti e favolose del pianeta, in una delle grandi nazioni emergenti (l’unica delle prime dieci economie mondiali a non aver mai ospitato i Giochi, sottolineava Lula) e in un continente a cui mai, nella storia, le Olimpiadi erano state assegnate; dall’altra la città del presidente Obama, spinta dalla pressione degli sponsor e dei media americani.

Onestamente, a chiunque osservasse le cose con imparzialità, la scelta pareva ovvia. Solo un americano poteva pensare che una città statunitense di seconda scelta (manco hanno candidato New York o Los Angeles…) potesse prevalere su Rio, ma anche su Tokyo o sulla capitale europea di turno. Era successo solo per Atlanta, ma lì dall’altra parte c’erano Atene, Manchester e Toronto, mica Rio, Madrid e Tokyo; e nonostante questo già quella volta l’assegnazione era stata considerata un mezzo scandalo, con il CIO accusato in tutto il mondo di essersi venduto ai soldi della Coca-Cola – certo una esperienza che il CIO non avrebbe ripetuto volentieri.

E solo un americano poteva pensare che mandare il Presidente e sua moglie a far propaganda per la loro città di residenza, peraltro andandosene prima del voto, potesse aiutare la causa: in realtà ha fatto sembrare che gli Stati Uniti considerassero le Olimpiadi con tale sufficienza da poterle usare come regalino politico del loro Presidente per amici d’infanzia e sostenitori stretti, e fossero talmente sicuri di questo da non degnarsi nemmeno di restare qualche ora in più per assistere al voto, tipo “siamo venuti e vi abbiamo detto cosa dovete fare, ora fate i compiti, da bravi”.

Un tale coacervo di arroganza è stato commentato chiaramente dai membri del CIO: Chicago, la favorita, fuori al primo turno. E dato che nei corridoi di queste organizzazioni internazionali chi vota per chi è deciso e noto a tutti in anticipo, non è assolutamente un caso, ma un messaggio chiaro: Obama go home.

L’unica nota negativa di questo risultato è che i giochi 2020 saranno certamente nel Nord del mondo, dunque (a meno che gli americani non si sveglino ricandidando New York) quasi certamente in Europa, e, dato che è dal 2004 che non ci candidiamo mentre nel frattempo le altre grandi nazioni europee ci hanno provato più volte, è facile presumere che una candidatura italiana per il 2020, sospinta da nuovi appetiti di cemento, possa avere discrete chance. Infatti, stamattina già litigano Alemanno e Cacciari: Roma o Venezia? Aspettando le inevitabili candidature aggiuntive di Milano e Napoli, ci sarà da divertirsi.

[tags]olimpiadi, rio, chicago, obama, atlanta, roma, venezia[/tags]

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lunedì 21 Settembre 2009, 14:40

Videopresi per il culo

Saranno anni che non guardo più nemmeno per caso Quelli che il calcio e faccio assolutamente bene. Dopo Videocracy, però, la fama sulla qualità della nostra televisione deve essersi diffusa meglio anche all’estero, visto quello che è successo ieri…

Gli ospiti musicali del programma erano i Muse, uno dei tre o quattro gruppi rock più famosi dell’ultimo decennio, in giro per presentare il proprio nuovo album; ovviamente, come qualsiasi musicista, avrebbero desiderato farlo suonando dal vivo in una atmosfera adatta, ma si sono trovati davanti la Ventura – già globalmente nota per una terrificante riproposizione di un meraviglioso classico anni ’60 di Lola Falana – che sbraitava con le tette di fuori e che esordiva sbagliando il loro nome e chiamandoli “The Muse” perché così (come griderà poi a fine canzone) è tutto “molto internazionale very internescional”. Ovviamente di suonare dal vivo alla TV italiana non se ne parla, in Italia si può soltanto suonare in playback perché altrimenti la maggior parte dei nostri cantanti farebbe pietà.

E così, i Muse si sono prontamente vendicati: per il playback, il cantante Matt Bellamy si è seduto alla batteria e ha cominciato a suonare in un modo talmente ridicolo da essere evidentemente finto per chiunque abbia mai visto un batterista suonare, mentre il batterista ha preso il basso e ha finto di cantare.

Come ha risposto la Ventura alla provocazione? Beh, non ha risposto: infatti in tutto lo studio nessuno si è accorto di niente! Invano il batterista, intervistato come se fosse il cantante, ha cercato di dare un indizio alla Ventura parlando de “il nostro batterista Matt”, ma probabilmente la Ventura non solo non conosceva il volto, ma non sapeva nemmeno il nome della persona che doveva intervistare. Che il telespettatore medio possa non conoscere a memoria il volto di Bellamy è normale, ma che la conduttrice che lo deve ospitare e la redazione che li ha invitati non sappiano come si chiami e che faccia abbia è un po’ più grave… E così la nostra videocrazia si è fatta prendere bellamente per il culo dagli “ospiti internazionali”!

[tags]televisione, ventura, muse, videocrazia[/tags]

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domenica 20 Settembre 2009, 12:01

Bolliti di speranza

In apparenza, fare il bagnetto verde non pare poi così difficile: si tratta di mescolare aglio, acciughe e prezzemolo. Eppure ieri sera ho partecipato all’annuale competizione di bagnetti verdi con annessa cena di bollito del comune di Montechiaro d’Asti, parte del rito propiziatorio in funzione del Palio di Asti che si corre oggi pomeriggio, e quelli che ci sono arrivati erano uno peggio dell’altro; addirittura uno sembrava una confezione di ragù industriale aperta e versata nel bicchierino, insomma andava al massimo bene per condirci la pasta, certo non il bollito; altri erano indistinguibili dal pesto, sia come consistenza che come sapore. Ho capito che le buone tradizioni si stanno perdendo quando, dietro di me, una famiglia è entrata portando in mano una bottiglia di ketchup e ha condito il bollito con quello.

In compenso, il bollito era ottimo e l’atmosfera piuttosto particolare; del resto, mentre stavamo incamminandoci verso il cinema comunale, all’occasione adibito a salone delle feste per oltre trecento partecipanti alla cena, si è fermato un furgoncino sponsorizzato da un concessionario della val d’Elsa, un tizio ha abbassato il finestrino e con un bell’accento toscano ci ha chiesto dov’era la cena. All’inizio pensavo che avessero sbagliato Palio, ma alla cena abbiamo poi scoperto che si trattava del clan di Gigi Bruschelli, il fantino senese per eccellenza, ospite insieme ai suoi amici e a una fidanzata di altissimo livello (nel senese il fantino professionista acquisisce lo stesso status sociale dei calciatori di serie A). Alla fine sono usciti ironizzando sull’abbondanza di bagnetti; in effetti la parte finale della serata è stata occupata da una proclamazione della classifica in ordine di risultato, cioè “Numero 13! Numero 5! Numero 22!”.

L’inizio è stato travagliato (fino alle dieci meno un quarto non abbiamo visto cibo) ma dopo il terzo giro di bollito, preceduto da un antipasto di salumi, ero piuttosto provato; abbiamo comunque resistito fino alla fine (formaggio, crostata, uva e gelato). In effetti, ieri siamo andati anche a Cheese, sul quale sorvolerei – anche se ho trovato sia il Pannerone di Lodi, sia l’Holzhofer extra-piccante, sia i pecorini toscani di gioielleria di Pinzani, sia un leggendario Emmental invecchiato 17 mesi della consistenza di un mattone e di colore giallo ocra, che ci è pure stato dato con lo sconto del 40% perché l’abbiamo chiesto in tedesco – ma per contratto con la mia redazione devo dirvi che “ho parcheggiato lontano, erano disorganizzarissimi, speso tanto e mangiato poco”; comunque, non capivo bene perché durante il giro tutti i formaggi assaggiati da Elena venissero paragonati con un misterioso alpìn. Questo è più molle dell’alpìn, questo è più duro dell’alpìn, questo sembra un po’ come l’alpìn ma più dolce… Andando alla cena ho finalmente capito: l’alpìn è un formaggio industriale prodotto dalle Fattorie Osella, ambiziosamente sottotitolato sul pacchetto come “Camembert del Piemonte”, ed è anche il formaggio nazionale di Montechiaro, pur essendo estero poiché proveniente da Caramagna Piemonte (però l’Osella è ora della Kraft, dunque ecco il tocco esotico del prodotto). Infatti, alla cena propiziatoria ci hanno servito l’alpìn, una confezione a testa rigorosamente nel pacchetto originale, ma essendo già piegato non ho nemmeno tentato l’assaggio.

La serata è stata comunque interessante e piacevole; l’atmosfera di paese – trecento persone tutte impegnate a capire di chi è il figlio quello lì, chi ha litigato con chi altro, che fine ha fatto quello che aveva il negozio là e quali sono le persone da non salutare più – è per noi cittadini affascinante; nella piazza principale c’è uno Sweet Bar dalle insegne e dalle decorazioni tutte granata, dunque ci siamo capiti; e finalmente un posto dove i bambini di otto anni non sono chiusi in casa a guardare la televisione, ma girano per i tavoli fin dopo mezzanotte con le bottiglie di vino in braccio, cercando in tutti i modi di offrirtene un’altra! Persino la pompa delle autorità – c’era persino la presidente della provincia nonché onorevole PDL (perché avere un solo stipendio quando se ne possono avere due) Maria Teresa Armosino – è stata sopportabile, anche perché eravamo dall’altra parte e gli sproloqui del tizio al microfono erano a volume accettabile. A questo punto, speriamo che Montechiaro rivinca il Palio; non succede dal 1981 e date le scarse finanze della ventura potrebbe non succedere tanto presto, ma l’importante è crederci sempre.

[tags]palio, asti, montechiaro, cena, formaggio, cheese, alpino, bollito, bagnetto verde[/tags]

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mercoledì 9 Settembre 2009, 14:17

Rispetto

Dobbiamo? Ma sì, alla fine dobbiamo scrivere anche noi qualcosa su Mike Bongiorno.

Non era certo un idolo: era gobbo, pieno di soldi, conformista, amico dei massoni e dei Savoia, promoter di Berlusconi e della sua paccottiglia, insomma per certi versi aveva tutti i difetti possibili. Ma faceva il suo lavoro con grandissima capacità e grandissima serietà, anziché cazzeggiare improvvisare e raccomandare come si usa oggi, e questa è una virtù ormai sparita. Inoltre era credibile come promotore dell’Italia del benessere proprio perché prima si era fatto il campo di concentramento e la lotta partigiana, e allora capisci come potesse a buon diritto esaltarsi per un prosciutto.

C’è una scena mitica su Youtube in cui cazzia la Antonella Elia che si schiera contro la pelliccia e le dice “non devi sfottere lo sponsor”. A molti quella scena sembra il peggio della TV commerciale, ma a guardar bene ci si vede proprio quel senso di responsabilità personale che ormai manca e che manda il mondo allo sfascio: nessuno ti ha obbligato a prenderti l’impegno di fare la valletta, ma se te lo prendi devi rispettarne le regole e accettarne anche ciò che non ti piace. Ecco, è proprio quel genere di rispetto – un valore liquidato come borghese e perbenista, ma che invece è necessario per la convivenza civile – che Mike incarnava: e dunque, massimo rispetto a lui.

[tags]bongiorno, elia, rispetto, televisione, berlusconi, sponsor[/tags]

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domenica 23 Agosto 2009, 20:59

Attraversare la Svizzera per ascoltare male

Attraversare la Svizzera in macchina è un progetto interessante. In primo luogo aiuta a rendersi conto quanto essa sia minuscola; se trascuriamo la metà orientale, occupata dal solo cantone dei Grigioni e da qualche località sciistico-mondane d’alta moda come Davos o St. Moritz, la Svizzera è tutta concentrata in un fazzoletto che si percorre da capo a capo in massimo tre ore d’autostrada. Noi dovevamo partire al mattino dalla Val d’Aosta ed essere a Lucerna per il tardo pomeriggio: per questo abbiamo pensato che fosse buona cosa fare qualche deviazione.

In effetti, la prima deviazione è stata un’ottima idea: invece di fare il tunnel, siamo saliti fino al colle del Gran San Bernardo. Il tunnel, tra l’altro, permette un risparmio di strada abbastanza relativo – non è poi così più in basso rispetto al passo. In compenso è un obbrobrio degno della sopraelevata di Pescara: in puro stile cementista anni ’60, lo stradone d’accesso domina la valle sopra Saint-Oyen con una infilata di pile a mezza costa, per poi attraversare ancora la valle in un unico tubone di cemento grigio sospeso a mezz’aria. Nonostante questo, la strada del passo è bellissima; prima è una specie di viottolo abbandonato in una foresta (ma sono in corso lavori per renderlo più percorribile) e poi sale adagiando i propri tornanti sulla montagna pelata cercando di non disturbare troppo.

In un paesaggio lunare, si arriva infine a un buco nella roccia che si apre sulla conca del laghetto, appena sotto il passo: noi italiani, da bravi sfigati, ci siamo beccati la parte bassa (in compenso le signorine del baretto sul lago erano proprio gentili). Il posto di frontiera svizzero però era totalmente deserto (mai vista una cosa simile) e, dopo una adeguata sosta con breve passeggiata sull’erba, abbiamo potuto imboccare la lunga e filante discesa che porta a Martigny.

Dopo una breve sosta all’autogrill per comprare in francese la vignetta (per fortuna avevo franchi d’avanzo da vecchi giri ginevrini), è iniziato il tratto autostradale: che è una discreta noia, perchè al più piccolo accenno di difficoltà gli svizzeri abbassano il limite. C’è una galleria di cinquanta metri? Limite dei 100. Si stringe un po’ la carreggiata perchè tagliano l’erba sul bordo? Limite degli 80 da cinque chilometri prima a cinque chilometri dopo. E sono limiti seri, a cui mi sono strettamente attenuto, pur aggiungendoci un margine di una decina di chilometri dopo aver visto il comportamento dei locali.

E così, la noia incombeva; certo mi sono potuto assicurare di avere su un disco dei Deep Purple mentre percorrevamo lo spettacolare tratto che sorvola Montreux-on-the-Lake-Geneva-shoreline, ma era tutto lì. E così, mentre galleggiavo a 80 orari sulla tangenziale di Berna, ho avuto un’altra idea brillante e ho deciso per una deviazione: uscire dall’autostrada e fare la strada più breve, ossia la statale della valle dell’Emma.

Ecco, questa per certi versi non è stata una buona idea, perchè se i limiti di velocità svizzeri sono tremendi in autostrada, sono mortali in mezzo ai paesi: 50 nel centro abitato e 60 tra le case sparse ai bordi, rispettati praticamente alla lettera. In pratica, la guida si trasforma in uno smanettamento ossessivo del cruise control per adeguarlo ai limiti man mano che cambiano, dato che un italiano alla guida, senza cruise control, non è in grado di andare stabilmente a 50 orari su una strada dritta e libera, pur se tra le case: ti distrai un attimo e sei già a 70. E poi ogni cento metri c’era un cartello che pregava gentilmente di andare piano per non investire i bambini; e non fosse mai che la guida disattenta di uno straniero possa privare gli svizzeri di un qualsiasi futuro campioncino, un purosangue elvetico tipo Dzemaili o Turkyilmaz.

In compenso, però, la valle dell’Emma è davvero bellissima. Posso innanzi tutto smentire un mito: no, le case non sono fatte di formaggio. Però hanno una forma stranissima, che pare pensata da un matematico per definire un solido di nuovo tipo. Il tetto in cima è piatto, poi ha un tratto poco inclinato e infine, raggiunti i bordi della casa, spiove proteggendo i balconi, in una specie di grande fungo regolare. La valle, poi, è in realtà una serie di prati in mezzo a colline ondulate, coperte di prati tutti perfettamente rasati e puliti. La strada è affiancata dalla regolamentare ferrovia svizzera, su cui circolano sia treni passeggeri (pieni) che treni merci (credo che trasportino i buchi del formaggio fino alla fabbrica dove vengono inseriti dentro la forma). In uno dei paesi, poi, era tutto mezzo bloccato: si svolgeva una delle tradizionali feste in costume da fesso che si usano da queste parti, con cuffiette, corni, pizzi, corpetti e così via.

Alla fine siamo arrivati a Lucerna. E’ una città minuscola ma ciò non vi tragga in inganno, ci vogliono comunque venti minuti per attraversare i dieci isolati dalla periferia alla piazza della stazione. E’ noto che quando le nazioni del mondo hanno firmato la convenzione di Ginevra per vietare la tortura, hanno aggiunto una postilla che dice “comunque i semafori svizzeri sono ammessi”. Anche i semafori svizzeri sono pensati da un matematico: il traffico è gestito in maniera ossessiva, e lo spazio disponibile viene suddiviso in una corsia per le auto che svoltano a sinistra, una per quelle che vanno dritto, una per quelle che vanno a destra, una per il bus che va dritto, una per il bus che deve girare, una per i taxi, una per le bici, una per i cani, una per i passeggini e una per il signore anziano del palazzo a fianco che ha la porta del garage vicino all’incrocio e si troverebbe altrimenti a doversi infilare in mezzo alle auto in coda quando esce la domenica mattina per andare a messa. Se non vi è spazio per tutte queste corsie, o si vieta il transito ad alcune categorie o si vieta la svolta, in quanto l’idea di stare fermi sul bordo sinistro della corsia aspettando che non arrivi nessuno dall’altra parte per girare è considerata una forma di pericolosissima anarchia.

Infatti, a ognuna di queste corsie – che vengono tracciate con strisce tratteggiate di vario colore per tutta l’estensione dell’incrocio, creando un allegro reticolo di linee colorate che rende impossibile capire dove si debba andare e scatena anche qualche crisi di panico nell’automobilista non abituato – corrisponde una fase semaforica separata, giacchè sarebbe pericoloso che due categorie o due direzioni diverse passassero contemporaneamente. Ogni semaforo ha dunque da dieci a venti fasi separate, il che rende la durata media del ciclo pari a circa cinque minuti; naturalmente però, per evitare il collasso completo, il semaforo viene sincronizzato con quello prima e quello dopo.

Tuttavia, date le diverse configurazioni degli incroci, spesso le sincronizzazioni vengono realizzate a cicli multipli: che so, ogni cinque cicli interi il semaforo della piazza della stazione si trova sincronizzato con quello del viale a monte, mentre ogni tre cicli è sincronizzato con quello dall’altro lato del ponte, dunque ogni quindici cicli (75 minuti) si realizza la configurazione magica per cui puoi passarli tutti e tre insieme senza aspettare cinque minuti per incrocio, e questo è il caso in cui il raggio di luce proiettato dall’ultimo semaforo in fondo colpisce direttamente la lanterna rossa del primo semaforo facendo apparire al centro dell’incrocio il Sacro Graal.

Tutte le altre volte, invece, ci metterete dieci minuti buoni per attraversare la piazza.

E non è finita qui: perché alla fine arrivate al parcheggio sotterraneo. Ogni città svizzera è organizzata così: ovunque la sosta è vietata oppure riservata ai residenti; tutti gli altri devono recarsi in una delle piazze principali, ognuna delle quali è dotata di un apposito parcheggio sotterraneo a pagamento. E’ un ottimo sistema, e insieme ai semafori contribuisce molto a scoraggiare l’uso inutile dell’auto privata. Quando però arrivi al parcheggio e vuoi capire quanto ti peleranno, ti trovi di fronte a un cartello anch’esso progettato da un matematico, che dice la cosa seguente: “Il costo di base è di 1,50 franchi per i primi 15 minuti. Successivamente il costo è di 0,10 franchi ogni tre minuti.”

Matematicamente è perfetto: p = 1,50+0,10*(t-15)/3. Ti dice esattamente qual è l’unità di arrotondamento del tempo, che viene calcolato con una precisione tale che non ti capiterà mai di pagare una botta extra solo perchè sei arrivato un minuto in ritardo sullo scoccare dell’ora. C’è un piccolo problema: tu sei lì alla sbarra e vuoi decidere se entrare o no, e vorresti capire quanto ti costerà una sosta di circa quattro ore, anche a spanne ma in fretta, che dietro si sta formando la coda. Ecco, in questo caso o sei svizzero oppure ti capiterà quel che ho visto io, cioè auto da mezza Europa accostate con le quattro frecce mentre il guidatore, contando sulle dita con aria perplessa o talvolta aiutandosi col cellulare, cerca di capire quanti blocchi di tre minuti ci sono in quattro ore.

Capirete quindi perché al ritorno serale, passato il Gottardo e riapparse le scritte in italiano, mi è sembrato di tornare a casa; e a Como, poi, finalmente la liberazione di poter accelerare e cominciare a interpretare i limiti di velocità anziché rispettarli…

P.S. Non vi ho detto nulla del concerto: a Lucerna siamo andati a sentire Abbado che dirigeva un’orchestra che suonava una roba che non avevo mai sentito. Devo premettere che io ho bazzicato molto la musica classica dai quattro ai quattordici anni, poi mi fecero ascoltare gli Iron Maiden e lì capii che ogni arte ha il suo momento storico. Comunque, questa nuovissima e lussuosissima sala da concerti svizzera era piena di gente in gran spolvero, chi da Monaco chi da Milano, tutti in abito da sera e alcune signore anche chiaramente imbalsamate subito prima di uscire perché stessero in piedi, che veniva ad ascoltare il maestro suonare male… almeno così ho capito, gli italiani dicevano che stasera suonava male, che è da un po’ che vuole suonare male, e che finalmente esegue la quarta sinfonia di male.

Secondo me invece suonavano bene; l’orchestra dal vivo fa sempre impressione, questa poi era enorme (ho contato fino a trentanove solo con i violinisti). Peccato che codesta quarta sinfonia di male – che non avevo mai sentito se non per cinque secondi che ho riconosciuto perché li usavano per la pubblicità dell’elettricità l’anno scorso su Radio Popolare – fosse una lagna assurda, una accozzaglia di pezzetti di trenta secondi che presi singolarmente sarebbero stati tutti molto belli, ma che venivano buttati lì senza una logica, in un ammasso di musica senza capo né coda che pareva generato con un procedimento casuale. All’inizio ero sveglio perché il mio posto era su un cornicione largo un metro posto a circa trenta metri d’altezza (non sto esagerando) sul muro laterale della sala, proprio sopra le teste degli orchestrali, separato dal vuoto solo da una bassa balaustra; è stato faticosissimo non svenire per le vertigini. Poi però mi sarei bellamente addormentato; e invece non riuscivo nemmeno a dormire, perché ogni tanto l’algoritmo di generazione casuale della musica buttava fuori un fortissimo e lì facevano veramente fortissimo, sembrava quasi che se l’avessero avuto avrebbero buttato in scena anche un elefante a barrire per fare più fortissimo.

Insomma non è che si può dire che fosse brutto, ogni tanto c’erano dei pezzi carini, però due palle così, davvero: in termini di teoria musicale, questa cosa per poter essere una sinfonia mancava di alcune cose fondamentali, tipo, che so, un tema melodico che si ripete variato, dei movimenti distinguibili l’uno dall’altro non solo in base all’ora che s’è fatta, e così via. Invece qui c’era un remix di pezzetti di valzer viennese e pezzetti di colonna sonora da film, e insomma ci avessero messo sullo schermo Titanic con Leonardo Di Caprio codesta musica ci sarebbe andata a fagiuolo e almeno sarebbe servita a qualcosa, ma senza immagini era noiosa come un qualsiasi disco della colonna sonora di un film, che infatti hanno smesso di pubblicarli e hanno cominciato a fare le compilation con le canzoni, anche quelle che nel film si sentono per tre secondi, perché di ascoltare un’ora di violini ora crescenti ora pianissimi ora drammatici ora estasiati non c’ha più voglia nessuno.

Magari se uno lo sente un po’ di volte poi gli piace, come i dischi del periodo minimalista dei Radiohead; tuttavia mi sa che la prossima volta vado a sentire Beethoven o qualcuno che componga una sinfonia con tutti i crismi.

[tags]svizzera, traffico, semafori, torture, parcheggi, matematica, lucerna, musica classica, abbado, male[/tags]

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giovedì 13 Agosto 2009, 23:35

Riusciti male

Stasera, con amici, zappavamo in tivvù e su Retequattro è spuntato nientemeno che Rimini Rimini, un classico del filmaggio italiano anni ’80, pieno delle regolamentari tette al vento e battute squallide.

Poi zappavamo ancora e su Raisat Gulp c’erano i cartoni animati di Ratman. Sono un appassionato lettore del fumetto da quando ha cominciato ad esistere, a metà anni ’90, e lo trovo meraviglioso. Non avevo mai visto i cartoni animati, ma sapevo che Ortolani li ha rinnegati in tutti i modi, addirittura dedicando vari numeri del fumetto a una storia che li denigrava in modo ben chiaro ad ogni occasione. Così ne ho visto due minuti con curiosità.

Facevano talmente cagare che abbiamo passato il resto della serata a vedere Rimini Rimini.

[tags]fumetti, ratman, ortolani, rimini rimini, cinema, zapping[/tags]

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martedì 11 Agosto 2009, 18:30

Superclassici del cinema educativo

L’estate televisiva non regala solo cartoni: ieri sera, su quel fantastico canale Sky che si chiama AXN, è apparso uno dei film superclassici e negletti degli anni ’80.

Erano gli anni in cui Reagan definiva il mondo, e la musica era dominata dalle tastierine di plastica, dalle drum machine e da chitarre molto distorte. Erano gli anni in cui Arnold Schwarzenegger preparò la stagione del proprio successo; ma film come Commando e Terminator erano comunque intellettuali, colti, pieni di trame elaborate, complotti robotici, servizi segreti, viaggi nel futuro e nel passato. Per questo Arnie si è poi dato alle commedie e alla politica; ma non era quello il vero film d’azione americano degli anni ’80.

Il vero film d’azione americano degli anni ’80 in parte nasce in Australia, con i primi due mitici film di Mel Gibson; in parte nasce nell’Israele vero e immaginato americano di Golan-Globus e del loro eroe principale, il Chuck Norris di Delta Force; e in parte, ovviamente, nasce con Rambo. Ma pochi film rappresentano così bene lo spirito indomito dell’America degli anni ’80 come le avventure dell’investigatore Marion Cobretti, in arte Cobra.

E’ lui: Stallone, nu jeans e na maglietta, ma soprattutto un paio di Ray-Ban patacconi che oscurano l’intera inquadratura; una macchina tamarrissima, una moto tamarrissima, una modella tamarrissima a cavalcioni, naturalmente da salvare. E il mondo contro: dai cattivi ai buoni, tutti ce l’hanno con Cobra.

Cobra dice poche parole; quelle che dice servono a lamentarsi di “tutte quelle stupide regole”, tipo leggi, giudici e avvocati. Cobra spara, accoltella, spranga, spaccalafaccia a tutti per tutto il film. Ma soprattutto, in questo stereotipo di ultraviolenza, Cobra elimina anche le regole formali. Il film, in realtà, non ha una trama; nessuno si preoccuperà mai di spiegarci chi siano i cattivi, perché vogliano uccidere la modella tamarra, quale sia la loro attività criminale, come sia possibile che orde di decine e decine di nuovi villani offrano continuamente il petto e la ruota della moto ai proiettili di Cobra. Non c’è un motivo per cui Cobra uccide: è obbligato dal suo destino cinematografico, ed esegue il proprio dovere con dedizione e capacità, due termini ormai sconosciuti ai giovani d’oggi.

Dev’essere per questo che da lustri non trasmettono più Cobra in televisione fuori dai canali minori: è un film troppo educativo.

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lunedì 10 Agosto 2009, 20:01

Canali che amano i bambini

Volevo approfittare di un post per una lamentela contro una azienda americana, tale Walt Disney Incorporated con sede in California.

Infatti, mentre gli altri canali di cartoni di Sky trasmettono cartoni che talvolta non sono eccelsi ma almeno hanno meno di dieci anni di vita e uno stile vagamente moderno, se accendi Disney Channel a qualsiasi ora hai ottime probabilità di trovare vecchiume. Metà del palinsesto infatti è occupato da orride sitcom, e la parte di cartoni verte principalmente attorno a robe degli anni ’80 ritrasmesse usando come sorgente un vecchio videoregistratore Betamax.

Intanto c’è la saga dei Pippi: l’orrido cartone prodotto tra gli ’80 e i ’90 in cui, per modernizzare un po’ la scena, mettono Pippo insieme a un suo improbabile figlio (figlio?? avuto con chi????) a vivere nell’obbligatoria casetta americana col vialetto e il praticello, a fianco di un’altra obbligatoria casetta americana col vialetto e il praticello in cui vive… Gambadilegno. Ma non da solo: sposato! Con un nuovo personaggio, la moglie di Gambadilegno, che ovviamente porta con sé il figlio e la figlia di Gambadilegno, che devono fare amicizia con quelli di Pippo e… ecco… immaginate che porcata di storie può nascere da una roba del genere!

Devono essere gli stessi sceneggiatori che più o meno nello stesso periodo misero a scrivere le avventure di Darkwing Duck (un riuscitissimo incrocio tra Zio Paperone e Batman) e quelle di Cip e Ciop esploratori volanti, ovviamente con l’invenzione di fantastici personaggi di contorno come uno scoiattolone buono, una zanzara divertente e una scoiattola fatale vestita in una tuta viola aderente! Il tutto animato con tre colori e mezzo fotogramma al secondo da uno stuolo di bambini pakistani. Verso metà degli anni ’90 irruppe negli studi Schwarzenegger e fece piazza pulita di questa gente, così finalmente smisero di produrre stupidaggini, eppure le hanno ritirate fuori tutte vent’anni dopo per Disney Channel, e te le presentano pure come fossero dei grandi eventi multimediali!

E poi, tra un vecchio cartone e l’altro, partono i promo e gli spot. Quasi sempre, si parla di High School Musical, un film per adolescenti in cui tutti gli studenti di una scuola lavorano tutta l’estate per guadagnare i cento euro necessari a comprarsi lo zaino firmato Disney per il successivo anno scolastico. A ogni blocco pubblicitario c’è lo spot dello zaino in versione italiana, in cui una giovane cubista brianzola, pittata come una sciantosa, finge di non sapere ballare per i primi tre secondi e inciampa, ma allora la giuria del premio la invita a rialzarsi e lei magicamente continua a non saper ballare, ma ora tutti applaudono e le tirano in testa uno zaino firmato Disney, e lei sembra contenta, mentre la musichina dice che grazie allo zaino finalmente ogni ragazzo d’Italia sarà “protagonista”, capito? Al centro dell’attenzione senza più studiare, basta lo zaino firmato per sfondare nella vita. Se non si parla di High School Musical, allora compare o lo spot di un altro programma Disney, o un qualche riferimento a Hannah Montana, ai Jonas Brothers o a uno degli altri giovani talenti musicali internazionali di proprietà (intellettuale, fisica e carnale) della Walt Disney Inc.

Se poi vi va proprio di sfiga, potete vedere Topolino(R) che presenta La Sirenetta(R) che balla con Liloestic(R) che cantano una canzone idiota tratta da Mulan(R) perché tutti i brand vanno sfruttati insieme, martellati sempre e monetizzati il più possibile… sempre all’interno dell’unico stile di vita possibile, quello in cui lo scopo della vita è andare al centro commerciale a far spese per poi parcheggiare l’auto nel vialetto accanto al praticello.

Fate una buona cosa, piazzate i bimbi davanti ai cartoni, ma davanti a Disney Channel no: è un canale che ama i bambini come li amerebbe un belga!

[tags]disney, televisione, cartoni[/tags]

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