Attraversare la Svizzera in macchina è un progetto interessante. In primo luogo aiuta a rendersi conto quanto essa sia minuscola; se trascuriamo la metà orientale, occupata dal solo cantone dei Grigioni e da qualche località sciistico-mondane d’alta moda come Davos o St. Moritz, la Svizzera è tutta concentrata in un fazzoletto che si percorre da capo a capo in massimo tre ore d’autostrada. Noi dovevamo partire al mattino dalla Val d’Aosta ed essere a Lucerna per il tardo pomeriggio: per questo abbiamo pensato che fosse buona cosa fare qualche deviazione.
In effetti, la prima deviazione è stata un’ottima idea: invece di fare il tunnel, siamo saliti fino al colle del Gran San Bernardo. Il tunnel, tra l’altro, permette un risparmio di strada abbastanza relativo – non è poi così più in basso rispetto al passo. In compenso è un obbrobrio degno della sopraelevata di Pescara: in puro stile cementista anni ’60, lo stradone d’accesso domina la valle sopra Saint-Oyen con una infilata di pile a mezza costa, per poi attraversare ancora la valle in un unico tubone di cemento grigio sospeso a mezz’aria. Nonostante questo, la strada del passo è bellissima; prima è una specie di viottolo abbandonato in una foresta (ma sono in corso lavori per renderlo più percorribile) e poi sale adagiando i propri tornanti sulla montagna pelata cercando di non disturbare troppo.
In un paesaggio lunare, si arriva infine a un buco nella roccia che si apre sulla conca del laghetto, appena sotto il passo: noi italiani, da bravi sfigati, ci siamo beccati la parte bassa (in compenso le signorine del baretto sul lago erano proprio gentili). Il posto di frontiera svizzero però era totalmente deserto (mai vista una cosa simile) e, dopo una adeguata sosta con breve passeggiata sull’erba, abbiamo potuto imboccare la lunga e filante discesa che porta a Martigny.
Dopo una breve sosta all’autogrill per comprare in francese la vignetta (per fortuna avevo franchi d’avanzo da vecchi giri ginevrini), è iniziato il tratto autostradale: che è una discreta noia, perchè al più piccolo accenno di difficoltà gli svizzeri abbassano il limite. C’è una galleria di cinquanta metri? Limite dei 100. Si stringe un po’ la carreggiata perchè tagliano l’erba sul bordo? Limite degli 80 da cinque chilometri prima a cinque chilometri dopo. E sono limiti seri, a cui mi sono strettamente attenuto, pur aggiungendoci un margine di una decina di chilometri dopo aver visto il comportamento dei locali.
E così, la noia incombeva; certo mi sono potuto assicurare di avere su un disco dei Deep Purple mentre percorrevamo lo spettacolare tratto che sorvola Montreux-on-the-Lake-Geneva-shoreline, ma era tutto lì. E così, mentre galleggiavo a 80 orari sulla tangenziale di Berna, ho avuto un’altra idea brillante e ho deciso per una deviazione: uscire dall’autostrada e fare la strada più breve, ossia la statale della valle dell’Emma.
Ecco, questa per certi versi non è stata una buona idea, perchè se i limiti di velocità svizzeri sono tremendi in autostrada, sono mortali in mezzo ai paesi: 50 nel centro abitato e 60 tra le case sparse ai bordi, rispettati praticamente alla lettera. In pratica, la guida si trasforma in uno smanettamento ossessivo del cruise control per adeguarlo ai limiti man mano che cambiano, dato che un italiano alla guida, senza cruise control, non è in grado di andare stabilmente a 50 orari su una strada dritta e libera, pur se tra le case: ti distrai un attimo e sei già a 70. E poi ogni cento metri c’era un cartello che pregava gentilmente di andare piano per non investire i bambini; e non fosse mai che la guida disattenta di uno straniero possa privare gli svizzeri di un qualsiasi futuro campioncino, un purosangue elvetico tipo Dzemaili o Turkyilmaz.
In compenso, però, la valle dell’Emma è davvero bellissima. Posso innanzi tutto smentire un mito: no, le case non sono fatte di formaggio. Però hanno una forma stranissima, che pare pensata da un matematico per definire un solido di nuovo tipo. Il tetto in cima è piatto, poi ha un tratto poco inclinato e infine, raggiunti i bordi della casa, spiove proteggendo i balconi, in una specie di grande fungo regolare. La valle, poi, è in realtà una serie di prati in mezzo a colline ondulate, coperte di prati tutti perfettamente rasati e puliti. La strada è affiancata dalla regolamentare ferrovia svizzera, su cui circolano sia treni passeggeri (pieni) che treni merci (credo che trasportino i buchi del formaggio fino alla fabbrica dove vengono inseriti dentro la forma). In uno dei paesi, poi, era tutto mezzo bloccato: si svolgeva una delle tradizionali feste in costume da fesso che si usano da queste parti, con cuffiette, corni, pizzi, corpetti e così via.
Alla fine siamo arrivati a Lucerna. E’ una città minuscola ma ciò non vi tragga in inganno, ci vogliono comunque venti minuti per attraversare i dieci isolati dalla periferia alla piazza della stazione. E’ noto che quando le nazioni del mondo hanno firmato la convenzione di Ginevra per vietare la tortura, hanno aggiunto una postilla che dice “comunque i semafori svizzeri sono ammessi”. Anche i semafori svizzeri sono pensati da un matematico: il traffico è gestito in maniera ossessiva, e lo spazio disponibile viene suddiviso in una corsia per le auto che svoltano a sinistra, una per quelle che vanno dritto, una per quelle che vanno a destra, una per il bus che va dritto, una per il bus che deve girare, una per i taxi, una per le bici, una per i cani, una per i passeggini e una per il signore anziano del palazzo a fianco che ha la porta del garage vicino all’incrocio e si troverebbe altrimenti a doversi infilare in mezzo alle auto in coda quando esce la domenica mattina per andare a messa. Se non vi è spazio per tutte queste corsie, o si vieta il transito ad alcune categorie o si vieta la svolta, in quanto l’idea di stare fermi sul bordo sinistro della corsia aspettando che non arrivi nessuno dall’altra parte per girare è considerata una forma di pericolosissima anarchia.
Infatti, a ognuna di queste corsie – che vengono tracciate con strisce tratteggiate di vario colore per tutta l’estensione dell’incrocio, creando un allegro reticolo di linee colorate che rende impossibile capire dove si debba andare e scatena anche qualche crisi di panico nell’automobilista non abituato – corrisponde una fase semaforica separata, giacchè sarebbe pericoloso che due categorie o due direzioni diverse passassero contemporaneamente. Ogni semaforo ha dunque da dieci a venti fasi separate, il che rende la durata media del ciclo pari a circa cinque minuti; naturalmente però, per evitare il collasso completo, il semaforo viene sincronizzato con quello prima e quello dopo.
Tuttavia, date le diverse configurazioni degli incroci, spesso le sincronizzazioni vengono realizzate a cicli multipli: che so, ogni cinque cicli interi il semaforo della piazza della stazione si trova sincronizzato con quello del viale a monte, mentre ogni tre cicli è sincronizzato con quello dall’altro lato del ponte, dunque ogni quindici cicli (75 minuti) si realizza la configurazione magica per cui puoi passarli tutti e tre insieme senza aspettare cinque minuti per incrocio, e questo è il caso in cui il raggio di luce proiettato dall’ultimo semaforo in fondo colpisce direttamente la lanterna rossa del primo semaforo facendo apparire al centro dell’incrocio il Sacro Graal.
Tutte le altre volte, invece, ci metterete dieci minuti buoni per attraversare la piazza.
E non è finita qui: perché alla fine arrivate al parcheggio sotterraneo. Ogni città svizzera è organizzata così: ovunque la sosta è vietata oppure riservata ai residenti; tutti gli altri devono recarsi in una delle piazze principali, ognuna delle quali è dotata di un apposito parcheggio sotterraneo a pagamento. E’ un ottimo sistema, e insieme ai semafori contribuisce molto a scoraggiare l’uso inutile dell’auto privata. Quando però arrivi al parcheggio e vuoi capire quanto ti peleranno, ti trovi di fronte a un cartello anch’esso progettato da un matematico, che dice la cosa seguente: “Il costo di base è di 1,50 franchi per i primi 15 minuti. Successivamente il costo è di 0,10 franchi ogni tre minuti.”
Matematicamente è perfetto: p = 1,50+0,10*(t-15)/3. Ti dice esattamente qual è l’unità di arrotondamento del tempo, che viene calcolato con una precisione tale che non ti capiterà mai di pagare una botta extra solo perchè sei arrivato un minuto in ritardo sullo scoccare dell’ora. C’è un piccolo problema: tu sei lì alla sbarra e vuoi decidere se entrare o no, e vorresti capire quanto ti costerà una sosta di circa quattro ore, anche a spanne ma in fretta, che dietro si sta formando la coda. Ecco, in questo caso o sei svizzero oppure ti capiterà quel che ho visto io, cioè auto da mezza Europa accostate con le quattro frecce mentre il guidatore, contando sulle dita con aria perplessa o talvolta aiutandosi col cellulare, cerca di capire quanti blocchi di tre minuti ci sono in quattro ore.
Capirete quindi perché al ritorno serale, passato il Gottardo e riapparse le scritte in italiano, mi è sembrato di tornare a casa; e a Como, poi, finalmente la liberazione di poter accelerare e cominciare a interpretare i limiti di velocità anziché rispettarli…
P.S. Non vi ho detto nulla del concerto: a Lucerna siamo andati a sentire Abbado che dirigeva un’orchestra che suonava una roba che non avevo mai sentito. Devo premettere che io ho bazzicato molto la musica classica dai quattro ai quattordici anni, poi mi fecero ascoltare gli Iron Maiden e lì capii che ogni arte ha il suo momento storico. Comunque, questa nuovissima e lussuosissima sala da concerti svizzera era piena di gente in gran spolvero, chi da Monaco chi da Milano, tutti in abito da sera e alcune signore anche chiaramente imbalsamate subito prima di uscire perché stessero in piedi, che veniva ad ascoltare il maestro suonare male… almeno così ho capito, gli italiani dicevano che stasera suonava male, che è da un po’ che vuole suonare male, e che finalmente esegue la quarta sinfonia di male.
Secondo me invece suonavano bene; l’orchestra dal vivo fa sempre impressione, questa poi era enorme (ho contato fino a trentanove solo con i violinisti). Peccato che codesta quarta sinfonia di male – che non avevo mai sentito se non per cinque secondi che ho riconosciuto perché li usavano per la pubblicità dell’elettricità l’anno scorso su Radio Popolare – fosse una lagna assurda, una accozzaglia di pezzetti di trenta secondi che presi singolarmente sarebbero stati tutti molto belli, ma che venivano buttati lì senza una logica, in un ammasso di musica senza capo né coda che pareva generato con un procedimento casuale. All’inizio ero sveglio perché il mio posto era su un cornicione largo un metro posto a circa trenta metri d’altezza (non sto esagerando) sul muro laterale della sala, proprio sopra le teste degli orchestrali, separato dal vuoto solo da una bassa balaustra; è stato faticosissimo non svenire per le vertigini. Poi però mi sarei bellamente addormentato; e invece non riuscivo nemmeno a dormire, perché ogni tanto l’algoritmo di generazione casuale della musica buttava fuori un fortissimo e lì facevano veramente fortissimo, sembrava quasi che se l’avessero avuto avrebbero buttato in scena anche un elefante a barrire per fare più fortissimo.
Insomma non è che si può dire che fosse brutto, ogni tanto c’erano dei pezzi carini, però due palle così, davvero: in termini di teoria musicale, questa cosa per poter essere una sinfonia mancava di alcune cose fondamentali, tipo, che so, un tema melodico che si ripete variato, dei movimenti distinguibili l’uno dall’altro non solo in base all’ora che s’è fatta, e così via. Invece qui c’era un remix di pezzetti di valzer viennese e pezzetti di colonna sonora da film, e insomma ci avessero messo sullo schermo Titanic con Leonardo Di Caprio codesta musica ci sarebbe andata a fagiuolo e almeno sarebbe servita a qualcosa, ma senza immagini era noiosa come un qualsiasi disco della colonna sonora di un film, che infatti hanno smesso di pubblicarli e hanno cominciato a fare le compilation con le canzoni, anche quelle che nel film si sentono per tre secondi, perché di ascoltare un’ora di violini ora crescenti ora pianissimi ora drammatici ora estasiati non c’ha più voglia nessuno.
Magari se uno lo sente un po’ di volte poi gli piace, come i dischi del periodo minimalista dei Radiohead; tuttavia mi sa che la prossima volta vado a sentire Beethoven o qualcuno che componga una sinfonia con tutti i crismi.
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