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Archivio per la categoria 'Itaaaalia'


giovedì 2 Ottobre 2008, 14:16

Ex Italia

Oggi La Stampa è in sciopero e quindi mi tocca Repubblica: è stato comunque interessante osservare che, toh, Ezio Mauro ha finalmente scoperto i problemi del nuovo ordine mondiale, la crisi degli stati nazionali, il problema di una economia non più a braccetto con la politica; che è giusto che la politica non faccia direttamente economia (come invece è norma in Italia), ma è ancora più giusto che la politica regoli l’economia e non l’opposto. Sono contento che ci arrivi anche Mauro, ma a livello mondiale si discute di queste cose sin da Seattle ’99; solo che a livello mondiale se ne parla guardando al futuro, in funzione dei nuovi modelli a rete che società ed economia vanno assumendo, e non come una riproposizione nostalgica delle lotte di classe degli anni ’70, stile bertinott-casarinico per intenderci.

Soltanto chi è rimasto agli anni ’70 può quindi trovare strana la marcia su Roma dei sindaci veneti, leghisti e democratici insieme, o irridere i primi cittadini perché invece di discettare della guerra in Iraq e dei casi giudiziari di Berlusconi si lamentano dei conti che non tornano nei loro bilanci. Ben vengano i sindaci che si preoccupano dei propri bilanci, invece di far approvare al consiglio comunale del loro paesino, come hanno fatto centinaia di comuni italiani, ridicole mozioni sulla guerra in Iraq; ridicole non perché il loro contenuto sia sbagliato o non condivisibile, ovviamente, ma perché cosa c’entra il consiglio comunale di un paesino con la guerra in Iraq?

La verità è che basterebbe depurare le nostre riflessioni sul federalismo dal tifo pro o contro la Lega che le ha caratterizzate in questi vent’anni per accorgersi che la dimensione nazionale, specie del tipo dell’Italia, non ha più senso né utilità, a parte per generare una valida Nazionale di calcio. Uno stato nazionale delle nostre dimensioni è troppo piccolo per contare a livello mondiale o per governare fenomeni ormai globalizzati: tanto è vero che la nostra economia va a rotoli qualsiasi cosa i vari governi facciano, e che tutte le volte che mettiamo becco su ciò che accade su Internet facciamo figuracce. Allo stesso tempo, uno stato nazionale delle nostre dimensioni è troppo grosso per essere efficiente, e il risultato sono lentezze e burocrazie che frenano il nostro progresso, accumuli di risorse pronte per essere sprecate o girate agli amici, e una evidente e crescente distanza dai problemi dei cittadini.

Non è un caso che i maggiori casi di successo nazionale negli ultimi anni in Europa vengano da Stati piccoli, dall’Irlanda ai paesi baltici; o da nazioni fortemente federaliste, perennemente quasi sull’orlo della secessione, come la Spagna. Tempo fa lessi sull’Economist un interessante articolo sul modello danese, quello che, nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, è riuscito contemporaneamente a garantire flessibilità, protezione, efficienza e ricchezza; bene, una delle conclusioni era che tra le principali ragioni per cui esso funziona sta il fatto che, in una comunità omogenea di pochi milioni di persone, tutti si sentono coinvolti e motivati a lavorare in quanto parte del soggetto comune, invece di vedere lo Stato come una entità mentalmente, culturalmente e fisicamente lontana (laggiù a Roma) e quindi più da fregare che da aiutare.

In altre parole, nessuno Stato può avere successo se i suoi cittadini non sono motivati a lottare per farglielo avere, e questo è molto più facile se lo Stato è percepito come locale, vicino, simile a noi.

Per questo motivo, solo un forte federalismo può salvare l’Italia; una scelta che lasci grande autonomia alle amministrazioni locali, e che lasci loro anche la gestione quasi integrale delle tasse prodotte dal territorio; che rompa la sensazione di Stato nemico, e riporti le persone ad identificarsi con esso. Il federalismo fiscale è dunque non il fine, ma il mezzo imprescindibile per ricreare il senso di appartenenza delle persone allo Stato.

Certamente, in una unità nazionale da preservare vi è anche la necessità di una solidarietà dalle zone più ricche verso quelle più povere; è quindi giusto che una parte delle tasse prodotte dal territorio vada verso il centro e venga di là redistribuita. Tuttavia, intanto deve trattarsi di una parte ridotta, perché più sono i soldi a disposizione e più è facile per la politica sprecarli senza ritegno; mentre un amministratore locale è comunque tutti i giorni sotto gli occhi dei propri elettori, lo stesso non si può dire per i dirigenti di un ministero. E poi, la solidarietà deve essere mirata, legata a obiettivi e a progetti di sviluppo.

D’altra parte, da sessant’anni le parti più ricche dell’Italia buttano soldi in quelle più povere, e da sessant’anni questi soldi vanno soltanto a finanziare la mafia, gli sprechi e il clientelismo, visto che di sviluppo non c’è l’ombra. Mi sembra quindi una considerazione oggettiva – non certo legata a razzismi o egoismi – notare che il metodo del finanziamento a pioggia del Sud non funziona, altrimenti in questi sessant’anni il Sud si sarebbe sviluppato già un bel po’. Il finanziamento a pioggia e incondizionato ha il solo effetto di deresponsabilizzare le persone; di abituarle a pensare che non c’è bisogno di prendere in mano il futuro del proprio territorio, tanto bene o male arriveranno sempre dei soldi donati da qualcun altro.

Le poche speranze di salvezza dell’Italia passano quindi da un forte federalismo fiscale e da una forte devoluzione dei poteri; questo è già evidente a chi, come i sindaci, deve fare i conti tutti i giorni con la situazione disperata sia delle proprie casse che di molti dei propri cittadini. Se questo non avverrà presto, comunque, la pressione imposta dalla competizione globale non si fermerà di certo; l’unico risultato sarà, di fronte all’impossibilità delle pubbliche amministrazioni di mantenere attivi i servizi essenziali, l’esplosione dello Stato e dell’unità nazionale.

[tags]italia, globalizzazione, federalismo, tasse, economia, repubblica[/tags]

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mercoledì 1 Ottobre 2008, 12:50

Uè, figa

Da ieri, lo confesso, sono un po’ milanese anch’io. E’ che Elena ha preso casa a Milano, e dopo infinite vicissitudini ieri sera l’abbiamo inaugurata; gli impegni lavorativi sono i suoi, ma è probabile che ci capiti anch’io, una sera o due ogni paio di settimane.

Noi torinesi amiamo sbeffeggiare Milano: già il nome della città sembra scelto apposta per permettere grevissimi giochi di parole sul mio buco del culo, tipo GiraMilano, PulisciMilano, LeccaMilano eccetera. Il massimo divertimento per noi è la praticità ingegnosa dei milanesi: dove altro troveresti un tizio la cui casa dà sulla ferrovia che appende sul balcone uno striscione tutto bello stampato a laser con scritto “EUROSTAR… PER FAVORE FERMATE PRIMA DEL PONTE”? In compenso, alle fermate dell’ATM le deviazioni sono scritte a pennarello, con grafia da quinta elementare; noi almeno c’abbiamo la stampante, e spero che Chiamparino valorizzi questo fondamentale asset nella prossima svendita all’ATM (pardon, “fusione alla pari”) del nostro GTT.

E poi, i bus di Milano hanno una cosa geniale. Invece di aprire le porte a ogni fermata, ci sono sia fuori che dentro dei pulsanti in modo che ognuno possa aprirsele da sé, solo se serve: sai che risparmio! E’ però indicativo il fatto che abbiano messo i pulsanti di apertura sia dentro che fuori anche sulle porte da cui si dovrebbe solo salire o solo scendere: così, se devi infrangere la regola, puoi farlo con maggior comodità. Fai solo attenzione, perché appena scendi sul marciapiede potresti essere investito dai ciclisti che vi circolano, dalle auto che vi stanno parcheggiando o dagli scooter che, percorrendo normalmente le corsie preferenziali, deviano un attimo sulla zona pedonale per sorpassare i bus in fermata.

Comunque, stringi stringi, si avverte subito che Milano è un altro mondo: sorprendentemente, qui non regna quel senso di decadenza, miseria e prossima apocalisse che permea Torino ormai da decenni. Pare quasi che qui le persone pensino di avere un futuro, e per noi è una sensazione davvero sconvolgente.

Come prima serata in questo mondo alieno, facciamo l’unione dei locali da noi già conosciuti e poi l’intersezione con la zona centro: se si esce, almeno andiamo a far lo struscio. Un dritto e morbido cinquantaquattro pieno di puzza di cingalese sporco (a scanso d’equivoci ribadisco cingalese sporco e non sporco cingalese) ci porta così fino in via Larga alla pizzeria Flash, locale intitolato non si sa se alla velocità del servizio (effettivamente notevole), al personaggio dei fumetti o al leggendario quiz con Mike Bongiorno. Le pizze base costano 7-8 euro invece dei 5-6 di Torino, idem la pasta, ma alla fine ce la caviamo con 27 euro senza scontrino fiscale. Io avevo la media chiara e quindi mi esalto.

Prendiamo piazza Duomo dal lato dove pisciano i barboni, e anch’io mi adeguo: desidero unirmi a questo eccitante clima di prossima ricchezza e di grandi possibilità, e proclamo quindi la mia intenzione di salire su tutti i pinoli della piazza per gridare “Libertà! (prooot) Libertà!”. Dando libertà sia al mio corpo che al mio cervello, intendo compiere un’opera d’arte estetico-provocatoria degna di un finanziamento dell’assessore Alfieri. Elena, invece, non afferra cosa io intenda per “pinoli”, nonostante gliene indichi alcuni che si rivelano però essere vacui, cavi e inutili cestini della spazzatura. Aggiungo esempi da tavola di nomenclatura, “i pinoli delle statue”, “i pinoli della seggiovia”, ma niente. Alla fine, anche in piazza Duomo l’estetica dannunzian-scorreggiona, simbolo dell’Italia da bere, esce sconfitta, nonostante sui bus campeggino perentori proclami di una “FESTA DELLA LIBERTA’ – BERLUSCONI – FINI” (presumo si parli di libertà condizionata).

Per sentirci più a casa andiamo da Grom, non senza esserci chiesti perché ci siano sedi del Credit Suisse a mazzi e che razza di banca sia la Banca Cesare Ponte. Qui almeno non c’è coda, però il gelato è lo stesso di Torino, ma costa mezzo euro in più; e inoltre, sommo insulto, hanno finito lo zabaione. Cioè, parliamone: chi diavolo può chiedere lo zabaione in piena Milano, se non un piemontese in trasferta? Ditemi pure che non l’avete mai avuto perché qui nessuno lo apprezza, no? E poi che razza di gelateria artigianale siete, se quando finite un gusto dovete aspettare che ve lo riportino?

Per finire, torniamo giù per la galleria, al centro della quale – e insistono che sia un ottagono, pur se il centro è un punto, per cui non ha forma né dimensioni – c’è un’adunata di pessima musica sotto la sconcertante insegna “Franco Nisi incontra i Modà”, presentata come se fosse ovvio di chi si parla. Sul palco, almeno a un primo sguardo, c’è un tamarro da antologia che canta canzoni da napoli, accompagnato da alcuni giovanotti firmatissimi. Ma non potevano incontrarsi da qualche altra parte? In piazza Duomo, in compenso, c’è una balera romena. Ora, non ho nulla contro la Romania, ma ha veramente rotto le scatole, visto che c’era una balera romena pure domenica in piazza Castello a Torino, con l’aggravante che invece di liscio romeno eseguivano una cover della musichina dell’Ultimo dei Mohicani. Ma non si può avere almeno ogni tanto un po’ di musica nostrana, di qualsiasi genere purché prodotta a meno di duecento chilometri dal Po?

Chiudiamo con un avvistamento: sempre in piazza Duomo, c’è una Feltrinelli dentro un autogrill, oppure un autogrill dentro una Feltrinelli, non è chiaro. La Feltrinelli è al piano cantina e puzza di fogna; Elena guarda i libri e a me verrebbe voglia di rendermi utile, che so, mettendomi lì davanti alla pila di copie del nuovo libro postumo della Fallaci ad aggiungere col pennarello sulle copertine tutte le i che mancano. Però la libreria è enorme, mica come la stiva pigiata che abbiamo noi in piazza Castello a Torino; e poi vuoi mettere la voglia di cultura che ti viene dopo una rustichella? Ma è tutta Milano ad essere cheappissima: in galleria di fronte al Savini c’è McDonald’s e in piazza Duomo campeggia una gigantesca pubblicità non di Prada o di Bvlgari, ma di un cappotto a trenta euro. Fa strano che non si scandalizzino.

In un dedalo di strade marmoree il cinquantaquattro ci riporta sul dritto, e poi a casa, quasi al fondo di viale Argonne. Questo è il posto più interessante, una serie di viuzze che sembrano congelate negli anni ’60, dove c’è tuttora un verduriere (un verduriere! e non ricostruito in un museo, ma vero e in piena azione!) e un Caffè Jesi ad un angolo da cui non passerà mai nessuno, coi tavolini di formica, l’insegna di lettere al neon e gli arredi rigorosamente fermi ai tempi delle figurine di Facchetti. E’ strano, perchè a Torino non è praticamente rimasto nulla di tutto questo; sulle vecche viuzze di periferia incombono i palazzoni di cartone di Franco Costruzioni, al posto delle fabbriche c’è una colata di cemento olimpica dietro l’altra (tutte già quasi in disuso) e verdurieri e latterie sono stati sterminati dalla politica di una Città Mercato (Fiat) qui, uno Sma (Fiat) là, un Auchan (joint venture Fiat-francesi) lì dietro e così via. Pensa, mi sa che adesso siamo noi la città senz’anima.

[tags]torino, milano, atm, gtt, grom, feltrinelli, supermercati[/tags]

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lunedì 29 Settembre 2008, 15:13

Chi ha paura del mercato

In parecchi, in questi giorni, hanno stappato lo champagne per festeggiare la fine del libero mercato, dopo che il Presidente degli Stati Uniti ha contravvenuto a un secolo di liberismo chiedendo un pesante intervento statale per nazionalizzare le banche e le assicurazioni in crisi.

E’ indubbiamente vero che, a livello globale, il mercato sia fuori controllo: ad aziende e cupole finanziarie globali si contrappone un potere politico ancora diviso per nazioni, quindi incapace di imporre alcunché su scala mondiale. Le Nazioni Unite sono un timido dinosauro a cui le nazioni più importanti evitano accuratamente di dare alcun potere, specie in materie economiche; il WTO (che non fa nemmeno formalmente parte delle Nazioni Unite) è uno strumento dei paesi occidentali per imporre al resto del mondo le proprie condizioni commerciali, e nelle rare occasioni in cui decide contro un paese sviluppato le sue decisioni sono semplicemente ignorate.

E’ altrettanto indubbio che gli eccessi di questi vent’anni di capitalismo non più frenato dalla paura del comunismo abbiano dimostrato l’importanza di rimettere gli “animal spirits” un po’ sotto controllo, ed avere la possibilità di imporre regole al mercato per assicurarsi che tale strumento svolga la sua funzione – quella di ottimizzare gli scambi e quindi produrre ricchezza per tutti – e non venga invece manipolato al servizio di pochi.

Permettetemi però di esprimere qualche perplessità di fronte ai molti che stanno tentando di applicare questo ragionamento, valido per i paesi sviluppati, anche all’Italia. In Italia, infatti, il libero mercato non c’è e non c’è mai stato: abbiamo sempre avuto una economia pesantemente condizionata dalla politica e da poteri di vario genere, dalla Chiesa alle maggiori aziende, fino alle logge massoniche.

Per cinquant’anni, l’economia italiana è stata in gran parte in mano allo Stato, e per il resto nelle mani di un capitalismo familiare, dagli Agnelli in giù, che ha fatto molto per lo sviluppo del Paese, ma anche creato l’abitudine a scaricare sullo Stato le perdite e tenersi i profitti. Bene o male, comunque, era un sistema che stava in piedi; dopo il crollo del comunismo, però, siamo passati a una economia di mercato per finta, dove in realtà il potere politico è direttamente occupato dagli interessi finanziari, e dove i politici di tutti gli schieramenti si preoccupano soprattutto di passare pezzi di economia agli amici. E’ successo con Telecom, è successo con le banche, è successo con le autostrade, sta succedendo ora con Alitalia.

In Italia, insomma, il mercato non c’è mai stato; e prima di preoccuparci di rimetterlo sotto il controllo dello Stato, dovremmo preoccuparci di arrivare ad averne uno vero.

Purtroppo, la vedo dura: culturalmente, gli italiani sembrano del tutto impreparati a concetti come concorrenza, meritocrazia, rischio in proprio, o all’idea che a ogni spesa debba corrispondere un’entrata, e che un diritto di qualsiasi genere può esistere soltanto quando esistono in cassa i soldi per implementarlo. Questa impreparazione è peraltro una delle cause fondamentali della nostra crisi economica, che la rende strutturale e difficilmente reversibile.

Questo vale a tutti i livelli; per esempio, tempo fa ho discusso con un insigne professore universitario torinese sul fatto che l’Università, pur contando su ampi contributi pubblici, dovesse arrivare al pareggio di bilancio, se necessario con entrate da vendita di servizi, senza convincerlo; la sua idea era che “l’Università è importante, quindi lo Stato deve far saltare fuori i soldi in qualche modo”.

Più nel piccolo, bastano le solite lettere a Specchio dei Tempi: oggi c’è una che si lamenta che in un bar in orario serale ha pagato sette euro un chinotto anche se non ha consumato l’aperitivo, e il tavolo era sporco, e il cameriere era sgarbato. Ma non basterebbe cambiare locale? Perché si deve invocare che lo Stato-mamma vada a sorvegliare tutti i camerieri del Paese o stabilisca per decreto (come chiede un altro nei commenti) che è obbligatorio che i bar ti vendano il chinotto separatamente dal buffet anche in orario di apericena? Non ci si poteva lamentare direttamente col proprietario del locale, invece di stare zitti e poi scrivere a Specchio dei Tempi?

Purtroppo, pare che il mercato sia troppo difficile da sopportare per buona parte degli italiani: il mercato, infatti, è basato sulla responsabilità individuale di tutti coloro che vi partecipano, mentre ciò che sognano questi italiani è l’uomo forte che prende le redini della cosa pubblica e sistema tutto senza che loro debbano preoccuparsi di se stessi, del proprio futuro, della propria ricchezza. Così, poi, sapranno con chi prendersela quando piove.

[tags]economia, mercato, nazioni unite, wto, italia, piangioccioni[/tags]

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venerdì 26 Settembre 2008, 14:53

Prezzi cinesi

Stamattina ero in ufficio da Glomera, e per pranzo mi hanno portato al ristorante pizzeria cinese Millefiori di via Stradella; un posto normale, ben tenuto, con le pareti dipinte da poco e i tavoli (generalmente deserti) in ordine. Bene, il pizzaiolo cinese in cinque minuti ci ha sfornato quattro pizze al tegamino, di dimensione normale, ottime, condite nei modi più vari, che ci siamo portati via; prezzo totale, 11,30 euro con tanto di scontrino.

Sarà sicuramente vero che, pur con gli scontrini, si tratta di imprese a conduzione familiare che risparmieranno (o evaderanno?) contributi e balzelli vari; la stessa cosa, peraltro, si può dire delle tonnellate di club e circoli Arci gestiti da italiani e spuntati come funghi in questi anni, che però hanno quasi sempre prezzi da ristorante quattro stelle.

Insomma, sul come facciano i cinesi-italiani a mantenere prezzi tanto ridicoli si intrecciano sempre molte teorie; generalmente si va a parare sul fatto che, in un modo o nell’altro, sono malvagi evasori che rubano il lavoro agli italiani-italiani e dovrebbero essere visitati tutti i giorni dalla Finanza, come mi ha detto l’altra settimana il mio parrucchiere mentre, per i venti euro chiesti per tagliarmi i capelli, mi faceva una ricevuta non fiscale su un pezzo di carta da formaggio.

Qualcuno ha delle idee migliori?

[tags]economia, italia, cina, pizza, evasione fiscale[/tags]

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lunedì 22 Settembre 2008, 11:30

L’autovelox è nudo

È nota la mia scarsa simpatia per i limiti di velocità troppo bassi, tipicamente messi per due ragioni – il desiderio di far cassa con le multe e l’avversione ideologica della sinistra radicale all’auto privata, in quanto simbolo borghese da punire – che non hanno nulla a che fare con la sicurezza stradale, la lotta all’inquinamento e la scorrevolezza del traffico.

Per molto tempo mi sono sentito un po’ isolato, di fronte ad assurdità cosmiche (come l’idea di mettere un limite di velocità a 30 km/h in un intero quartiere, viali compresi) che pure trovavano qualcuno talmente imbevuto della suddetta avversione ideologica da essere pronto a giustificarle. Questi giorni, però, sono stati pieni di soddisfazione.

Prima si è scoperto che tutti, ma proprio tutti, gli autovelox del Nord Italia sono gestiti tramite quelle che gli stessi inquirenti hanno definito “associazioni a delinquere”: due o tre ditte che non solo fanno contratti “chiavi in mano” a percentuale con i Comuni – con l’incentivo per tutti a regolare semafori e a definire limiti in modo che sia praticamente impossibile rispettarli senza impazzire – ma che “ricompensano” sindaci e vigili mediante assunzioni di parenti o vere e proprie mazzette; e poi, pare, taravano pure male gli autovelox in modo da barare.

Poi, il capolavoro: un sabato di “follia” – così lo chiama La Stampa – con mezza città in tilt per questo incidente:

regina1.jpg

Notate niente? Io sì: la cisterna si è ribaltata praticamente sotto il famigerato autovelox di corso Regina, quello che impone i 70 orari nel mezzo di quello che è in pratica un raccordo autostradale, e che ha staccato decine di migliaia di multe in pochi mesi. Chissà se l’autovelox c’entra qualcosa?

E’ probabile che non lo sapremo mai; bisognerebbe conoscere la dinamica dell’incidente. Magari la cisterna era sotto i limiti ma andava comunque troppo veloce, o l’autista ha avuto un colpo di sono. Magari, però, la cisterna non è riuscita a cambiare corsia, operazione che ormai è quasi impossibile tra tre file di auto tutte in lento movimento, oppure ha inchiodato per non tamponare quello davanti che ha rallentato a 60. Oppure il traffico si è incasinato per via di qualcuno che cercava di immettersi dallo svincolo che vedete sulla sinistra della cisterna: infatti, nelle ore di punta immettersi su corso Regina da via Pietro Cossa o corso Marche è diventato quasi impossibile, visto che le auto vanno troppo lentamente per lasciare strada libera per un tempo sufficiente. Oppure, ancora peggio, il guidatore della cisterna ha inchiodato di colpo accorgendosi all’ultimo dell’autovelox e temendo la multa (e ne ho visti vari fare questa manovra in quel punto, passando in pochi metri da 110 a 70); in questo caso ovviamente la responsabilità è la sua, ma senza l’autovelox paradossalmente l’incidente non sarebbe successo.

Un limite di velocità – o una qualsiasi regola sociale – dovrebbe essere naturale; dovrebbe servire a punire quel 5 – 10 per cento di indisciplinati e incoscienti che statisticamente esiste in qualsiasi attività umana. Se invece la regola è tale per cui la maggior parte delle persone si troverebbero in fallo se agissero in modo normale, allora c’è un problema con la regola, che o finisce per essere disattesa col tacito accordo di tutti e infine abolita, o richiede costi mostruosi per essere fatta rispettare. Questo vale per molte cose, dal divorzio allo scaricamento di file da Internet, e vale anche per i limiti di velocità.

Io sono assolutamente a favore degli autovelox e di un rispetto pignolo delle regole, ma dopo che le regole sono state rese rispettabili e tali da rispecchiare il sentire comune, e non quando le regole sono disegnate apposta per vessare le persone. Noi, purtroppo, siamo ancora pieni di politici vecchio stampo, quelli che vengono da una formazione ideologica; e l’ideologia altro non è che la pretesa di insegnare al mondo a girare nel verso opposto, con uno sforzo tanto immane quanto inutile. Spiace notare che l’assessore al traffico Sestero ancora non l’ha capito.

[tags]torino, traffico, autovelox, regole, velocità, sestero, corso regina[/tags]

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mercoledì 17 Settembre 2008, 14:53

La giustizia altrui

Ho ancora un paio di cose che voglio raccontarvi dell’Africa e del Mozambico, e saranno forse tra le meno facili da metabolizzare. Quella di oggi, peraltro, capita a fagiolo anche in seguito alla discussione di ieri: perché è relativa al concetto di giustizia (umana e divina).

Il Mozambico ha una struttura giudiziaria all’occidentale: infatti hanno preso le leggi portoghesi, hanno fatto “trova e sostituisci” e hanno scritto Mozambico al posto di Portogallo dovunque tale parola comparisse. Allo stesso tempo, il Mozambico ha la giustizia tribale, perché anche nelle tribù africane esistono reati e tribunali; questi ultimi sono in sostanza costituiti dal consiglio degli anziani del villaggio, o da una persona molto saggia a cui ci si rivolge in veste di conciliatore.

Grazie al fatto che chi ci ospitava si occupa proprio di questi temi, ho potuto apprezzare come la giustizia della legge si adegui alle usanze tradizionali, e come ciò implichi che alcuni concetti che noi diamo per scontati – quasi naturali – non lo siano affatto: a partire dalla responsabilità personale.

Per noi è ovvio che ognuno risponde delle proprie azioni; per gli africani, invece, è il villaggio o la famiglia, nel suo insieme, a rispondere davanti agli spiriti per le azioni di tutti i suoi componenti. Se qualcuno di essi fa qualcosa di male, l’ira degli déi si abbatterà su tutti: per questo motivo essi sono i primi a prenderlo a mazzate.

Questa mancanza di responsabilità personale spiega probabilmente la scarsa intraprendenza degli africani, e si esplica in modi che a noi sembrano assurdi. Per esempio, se a un pulmino del trasporto pubblico scoppia una gomma ed esso finisce per centrare la tua macchina, la colpa e i danni sono per metà tuoi; perché si sa che i pulmini vanno in giro con le gomme lise e possono perdere il controllo da un momento all’altro, quindi stava a te starci attento. Se il vicino dà fuoco alle sterpaglie in modo maldestro e il fuoco si espande a casa tua, è colpa tua: perché non eri lì a spegnere il fuoco o almeno non hai bagnato il prato perché non fosse secco? Persino se ti cade in testa un vaso da un balcone la colpa, per il tribunale, è anche tua: non l’hai evitato.

C’è, in realtà, una logica in tutto questo: quella che siamo tutti sulla stessa barca e dobbiamo dividerci l’attenzione e le responsabilità. Per noi, però, abituati a trovare un responsabile e una colpa per tutto, sembra ingiusto.

Certamente le pene tradizionali, in Mozambico, non sono moderate. Per esempio, la pena per il furto è venire presi, infilati dentro un pneumatico, cosparsi di benzina e arsi vivi. Dev’essere per questo che in Mozambico sono piuttosto onesti, almeno in termini di società con simili disuguaglianze sociali (c’è chi muore di fame e chi gira in SUV).

Sono tanto onesti che talvolta il furto è impossibile. Per esempio, un ragazzo andò in tribunale accusando un suo vicino di casa di averlo derubato per strada di notte. Dopo due anni di galera preventiva (non perché la giustizia mozambicana sia lenta – mica è l’Italia – ma perché si era perso il fascicolo: succede) l’accusato va davanti al giudice, che lo assolve: infatti, dice il giudice, è impossibile che due vicini si derubino tra loro, perché è contrario alla buona educazione e agli usi tradizionali. Se proprio uno vuole derubare qualcuno, argomenta il magistrato, mica andrebbe a farlo con un vicino che conosce personalmente, cosa che poi causerebbe faide per mezzo quartiere! E poi il fatto che il presunto derubato si sia rivolto direttamente alla polizia è sospetto: perché non ha chiesto l’intervento degli anziani o non ha mandato i suoi genitori a spiegarsi con i genitori del presunto ladro? E infine – conclude il giudice secondo il principio di cui sopra – se tu giri con tanti soldi in tasca di sera per una strada buia, la colpa del furto è anche tua: non lamentarti. Tutto ciò scritto nero su bianco in una sentenza di tribunale.

Le vette dell’assurdo – almeno per noi – si raggiungono quando c’è di mezzo la stregoneria: perché il feticcio fa parte della cultura locale e viene usato per spiegare più o meno qualsiasi cosa (come nel caso del parto di tre tazze). Naturalmente la stregoneria a scopo maligno è vietata e punita, tanto per cambiare, con il linciaggio; c’è però chi, civilizzato, si rivolge invece al tribunale.

E’ il caso di un tizio a cui un’altra famiglia, per questioni economiche irrisolte, aveva fatto un malocchio che lo costringeva a muoversi sempre a quattro zampe, e così aveva perso il lavoro e subito dei danni. Per questo motivo, si era rivolto al tribunale (non si sa se in piedi o a quattro zampe) per ottenere una sentenza che obbligasse la sua controparte a togliergli il malocchio. E infatti, il giudice, esaminato il caso, gli ha dato ragione: ha ordinato all’altra famiglia di togliere la magia e ripagargli i danni subiti.

Insomma, anche se la legge dice che la magia non esiste, i giudici mozambicani si arrabattano per trovare un appiglio per condannare chi è accusato di stregoneria; questo nel loro stesso interesse, visto che, se non altro, essere chiusi in prigione è un modo di evitare il linciaggio. Talvolta invece gli stregoni vengono assolti, specie se dicono di avere agito per ordine degli spiriti: se è stato uno spirito a ordinargli di trasformare temporaneamente il signor tal dei tali in un serpente, mica è colpa loro.

In certi casi, però, c’è un problema: supponete, che so, che vostro figlio sia improvvisamente impazzito d’amore per una stronza. E’ evidente che egli sia stato reso schiavo da lei mediante una stregoneria, tramite il noto metodo di rinchiudere la sua anima in una bottiglia. Però, come si fa a sapere chi è lo stregone responsabile del vile gesto?

In questi casi, spesso succede così: il tribunale interpella l’associazione nazionale degli stregoni (sì, c’è) che, tramite un rito di lettura degli ossicini, scopre chi è stato. Così possono andare a prenderlo e metterlo in galera o linciarlo a seconda del caso.

Bene, vi siete divertiti? Sarete contenti di non vivere in Mozambico, ma in un Paese dove la giustizia è equa e razionale. Per questo vi suggerisco di dedicare ancora dieci minuti a leggere fino in fondo quello che diceva l’altro giorno Travaglio a proposito del nuovo reato di “contrattazione di sesso a pagamento” e di altre meraviglie della nostra legislazione. Noi sì, che siamo dei giusti.

[tags]viaggi, mozambico, stregoneria, giustizia, travaglio, italia[/tags]

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sabato 23 Agosto 2008, 11:37

Dalai chi?

Sapete che sulla questione relativa a Cina, Tibet e diritti umani ho il mio punto di vista, che non è particolarmente allineato con il pensiero unico che ha dominato i giornali e i blog italiani negli ultimi mesi. Mi sembra che troppi in Italia – dove, solo in quest’ultima estate, sono stati assolti o quasi i poliziotti che avevano sequestrato e massacrato di botte gli oppositori politici del nostro governo a Bolzaneto, si sono moltiplicate le retate di stranieri e gli attacchi razzisti ed è stata intensificata l’attività di filtraggio di siti Internet – utilizzino la questione dei diritti umani in Cina per sentirsi più buoni, e per evitare di guardare in casa propria; da parte dei politici, poi, cavalcare i sentimenti anticinesi è un buon modo per distrarre l’opinione pubblica, e magari trovare anche un comodo capro espiatorio per il fallimento economico del nostro Paese.

Comunque, ricordate le settimane che hanno preceduto le Olimpiadi? Sembrava che si stesse andando in guerra: non passava giorno senza che i giornali italiani si interrogassero su come dovessero comportarsi i nostri atleti, riportando gli appelli di politici e intellettuali al boicottaggio e alla protesta. Per un po’, il Dalai Lama ha avuto sui nostri media quasi lo stesso spazio del Papa: bastava che ruttasse e finiva in prima pagina. Le previsioni erano apocalittiche: si anticipavano grandi manifestazioni represse nel sangue, censure continue alle riprese televisive, gare continuamente interrotte dalle proteste e atleti squalificati per aver espresso le proprie opinioni. In più, per buona misura, si prevedeva anche che gli impianti sarebbero stati deserti causa mancanza di cultura sportiva dei cinesi, e che atleti e spettatori sarebbero soffocati per l’inquinamento.

La realtà, ovviamente, è stata ben diversa, cominciando dalla cerimonia inaugurale che nessuno ha boicottato – tranne Berlusconi perché non c’aveva voglia – e che tutto è stata meno che la celebrazione di un regime, lasciando con un palmo di naso tutti i critici che erano lì pronti a gridare alla scandalosa autocelebrazione della dittatura (sono comunque riusciti a criticare lo stesso la cerimonia per il motivo opposto, “non c’erano Mao e il comunismo”). Anzi, la cerimonia ha cercato di comunicare tutta la diversità e la profondità della Cina, con l’esibizione dei bambini delle diverse etnie (Tibet compreso) e facendo notare che la cultura cinese è ben più complessa di un mezzo secolo di comunismo.

Per il primo paio di giorni qualche protesta c’è stata, da parte di gruppi di due o tre esagitati che si sono pagati il biglietto aereo da Londra o da New York per sventolare uno striscione e finire presi a lazzi, a sputi o a schiaffi – a seconda dell’umore – nemmeno dalla polizia, ma dai passanti cinesi che si trovavano lì in quel momento. Per il resto, le gare sono state belle, l’aria pulita – spesso con tanto di cieli azzurri – e gli stadi quasi sempre pieni e calorosi, con ovvia preferenza per gli sport popolari tra i locali. Nessun atleta si è sognato di protestare in gara, esattamente come dovrebbe essere in un’Olimpiade, dove persino russi e georgiani hanno gareggiato insieme in giorni di vera guerra senza andare mai oltre qualche mala parola; il massimo scandalo, a parte qualche caso marginale di doping, è stato lo svedese che ha gettato via il bronzo alla premiazione per protesta contro l’arbitraggio. Ciò nonostante, nelle interviste gli atleti hanno detto ciò che volevano e nessuno li ha limitati; alcuni hanno ribadito le critiche della vigilia, altri si sono resi conto che, tutto sommato, la Cina non era poi così brutta come la si dipinge.

Il terrorismo c’è stato, ma non è avvenuto in Tibet; sono stati gli uiguri, etnia turcofona dell’estremo ovest della Cina, anch’essa indipendentista ma che, non essendo foraggiata dagli americani ed essendo addirittura musulmana, non trova altrettanto spazio sui nostri media.

All’inizio, il Dalai Lama ha elargito sante parole di pace: ha fatto gli auguri e i complimenti alla Cina, e si è messo ad aspettare. E non è successo niente: dopo tre giorni, i giornali parlavano solo più di gare e di successi sportivi. Dopo la prima settimana, il Tibet era al massimo un asterisco in fondo alla generale ammirazione per la riuscita delle Olimpiadi; niente proteste e niente clamore, anzi quel poco di esposizione da violenza che c’era se l’erano fregato gli uiguri di cui sopra e pure Putin e Bush nel Caucaso (dove, incidentalmente, l’offensiva georgiana contro gli independentisti osseti ha fatto in pochi giorni cento volte le vittime degli scontri etnici di Lhasa a marzo). E’ chiaro che così non andava bene.

Così, nella seconda settimana il Dalai Lama ha cambiato tono, e ha cominciato ad alzare la voce. Nessuno però sembrava più interessato, e così Sua Santità si è ridotta a un vecchio trucco da politico democristiano: l’intervista bomba con smentita. Mercoledì, infatti, è andato a dire a Le Monde che i cinesi avrebbero appena ucciso 140 persone in Tibet sparando sulla folla. I politici, i bloggherz – segnalo in particolare l’ineffabile Adinolfi – e i media allineati gli sono subito andati dietro, montando il caso e indignandosi a comando. I giornalisti veri hanno alzato un sopracciglio: 140 morti? In un momento in cui la Cina è sotto gli occhi del mondo? Con migliaia di giornalisti stranieri in giro per il Paese e in attesa soltanto di un caso clamoroso da riportare?

Infatti, puntuale il giorno dopo è arrivata la smentita: scusate, non ho detto ciò che ho detto – ma intanto ha riconquistato le prime pagine, e ha reinnescato il meccanismo.

Riparte quindi l’italico teatrino: primo La Russa, che dalla sua poltrona romana invita di nuovo gli atleti italiani a protestare. Ma il meglio lo dà Margherita Granbassi, schermitrice italiana appena ritornata da Pechino con una medaglia di bronzo.

La Granbassi, dopo aver passato una settimana a chiedere di non pagare le tasse, cambia argomento e passa al Tibet. Esordisce dicendoci che avrebbe volentieri boicottato le Olimpiadi (però non l’ha fatto). Quindi, dopo essere andata, aver gareggiato, aver preso la medaglia e aver avuto il suo momento di gloria senza minimamente fare nulla per il Tibet, torna in Italia e solo allora si ricorda di dire agli atleti italiani che sono ancora a Pechino che (loro) devono protestare. Aggiunge che le Olimpiadi sono state uno scandalo e che addirittura sono stati utilizzati lavoratori schiavizzati e sfruttati per realizzare le medaglie (tra cui la sua di bronzo che si tiene ben stretta al collo).

Eccezionale, infine, è l’accusa alla televisione cinese (con due settimane di ritardo) di censura dello striscione (nemmeno legato al Tibet) da lei esibito nella cerimonia inaugurale, quando la regia televisiva è internazionale e quando è noto che durante la cerimonia di apertura è vietato esibire qualsiasi cosa che non siano le bandiere nazionali, figuriamoci il classico lenzuolo “ciao mamma” scritto a pennarello, che peraltro solo un italiano potrebbe avere l’idea di sventolare in una simile occasione senza sentirsi ridicolo.

A quel punto, qualcuno deve averle fatto notare che parlare è facile ma forse è anche il caso di agire di conseguenza, e lei ha provveduto: oggi annuncia che donerà al Dalai Lama la sua maschera di gara. Addirittura! Che durissimo gesto di protesta! Di restituire la medaglia, naturalmente, non se ne parla nemmeno.

Ora, di fronte a un simile miracolo di ipocrisia – in buona fede, ma pur sempre ipocrisia – che cosa si può dire? Il problema del Tibet esiste; anzi, è possibile che ci siano stati veramente degli scontri, così come è possibile che in extremis qualche protesta avvenga anche all’Olimpiade. Il problema del Tibet, però, è lo stesso dell’Ossezia, del Kosovo, della Cecenia, dell’Irlanda del Nord, dei Paesi Baschi, del Kashmir, del Kurdistan, insomma di qualsiasi parte del mondo dove si trovino due etnie diverse che non riescono a vivere insieme (o, più spesso, che includono minoranze estremiste che non vogliono vivere insieme). In questi casi, gli scontri, le provocazioni e le violenze avvengono sempre da entrambe le parti; quando questi problemi si sono risolti senza lo sterminio o la cacciata di una delle due etnie, è perché le due etnie hanno isolato gli estremisti e hanno imparato ad accettarsi e a convivere.

Per questo motivo, quando l’Occidente prende nettamente le parti di una delle due etnie – spesso per via di interessi geopolitici, economici e militari, come in Kosovo e in Ossezia – fa quasi sempre danno; molto più utile è comportarsi con moderazione e tenere aperto il dialogo con entrambe. Ma fallo capire all’italiano medio.

[tags]cina, tibet, diritti umani, dalai lama, olimpiadi, la russa, granbassi[/tags]

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mercoledì 20 Agosto 2008, 14:57

Il servizio pubblico informa

Se per caso anche voi, come me, avete visto il TG1 delle 13:30 di oggi, potrebbe avervi colpito un lungo servizio dedicato alla vicenda del professor Claudio Riolo, politologo dell’Università di Palermo, che dopo quattordici anni di battaglia giudiziaria ha avuto ragione dalla Corte di Giustizia Europea, a cui aveva denunciato l’Italia. Il professore, racconta il servizio, aveva scritto sul periodico Narcomafie un articolo “critico” verso “un ex presidente della provincia di Palermo”, ed era stato per questo condannato dal tribunale di Palermo per diffamazione; la corte europea ha riconosciuto che la diffamazione era in realtà legittima critica delle azioni di un politico, e che l’Italia, condannando Riolo, ha violato la libertà di espressione riconosciutagli dal diritto internazionale.

Tutto bene, festeggiamo? Sì, però il TG1, nonostante l’esteso servizio con tanto di intervista al professore, si è “dimenticato” di riportare alcuni piccoli dettagli; e potevamo noi, dotati di buona volontà, non supplire a questo “errore” certamente del tutto involontario?

Per cominciare, l’“ex presidente della provincia di Palermo” ha un nome, cognome e partito: è Francesco Musotto, ex socialista, all’epoca dei fatti in Forza Italia. Oltre a “dimenticarsi” di fare il nome, il TG1 si è anche completamente “dimenticato” di raccontarci quali fossero le “critiche” contenute nell’articolo. Per esempio, il TG1 si è “scordato” di dire che l’argomento dell’articolo era la strage di Capaci; e che la “critica” per cui il professore era stato condannato dagli inflessibili giudici palermitani consisteva nel paragone tra Musotto e mister Hyde, in quanto egli da un lato presiedeva la provincia di Palermo e rappresentava le istituzioni, e dall’altro, nella sua professione di avvocato, difendeva uno degli imputati per la suddetta strage, strage che ovviamente è attribuita alla mafia. Il TG1 si è poi dimenticato di aggiungere che il suddetto Musotto fu processato per concorso esterno in associazione mafiosa, e che la sentenza, pur assolvendolo, dichiara probabile che egli sia stato eletto con voti mafiosi (tra l’altro fu poi aperto contro Musotto un ulteriore procedimento per voto di scambio) e documenta che la sua villa fu frequentata da mafiosi e usata per nascondervi delle armi, tanto da condannare suo fratello (si sa che in Forza Italia l’adorazione del capo è fondamentale, quindi va di moda avere un fratello che si becca le condanne). Infine, il TG1 non ha riportato le motivazioni della decisione della corte europea, che ritiene che la condanna, pur giustificata in base alle leggi italiane, rappresenti una limitazione della libertà di espressione oltre ciò che – come dicono le convenzioni internazionali – è “necessario in una società democratica”, e insomma che le leggi italiane sulla diffamazione e la loro applicazione da parte dei nostri tribunali siano troppo favorevoli ai politici e troppo poco a chi li critica.

Ci spiace che il TG1, un telegiornale solitamente così attendibile e scevro da qualsiasi servilismo nei confronti dei politici, si sia sfortunatamente macchiato di qualche piccola omissione; ma non temete, che il servizio pubblico lo facciamo noi della rete!

[tags]tg1, politica, informazione, giustizia, riolo, musotto, palermo, capaci[/tags]

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mercoledì 13 Agosto 2008, 12:38

Italiani olimpici

Le Olimpiadi sono iniziate da qualche giorno e, come ogni volta, è iniziata anche la retorica olimpica: i giornali si sono riempiti di articoli strappalacrime che narrano le storie di questi atleti di sport ingiustamente considerati minori, che una volta ogni quattro anni arrivano all’onore delle telecamere per le loro medaglie, e poi vengono riconsegnati all’oblio per far vedere soltanto gli spocchiosi e infantili calciatori. Compaiono quindi articoli come questo (peraltro molto interessante, specie nei commenti) che distinguono tra la solita Italietta dei politici e dei calciatori, e l’Italia vera, seria, devota degli schermidori e dei tiratori.

E’ un peccato che gli schermidori e i tiratori si siano prontamente dedicati a demolire questo mito, dichiarando come primo e massimo desiderio dopo aver vinto la medaglia una sola cosa: poter non pagare le tasse. E giù di piagnucolii, e le tasse sono alte, e le paghiamo già tutto l’anno, e lo Stato si porta via metà del nostro premio, e noi abbiamo fatto tanta fatica, e già il premio è solo centoquarantamila euro, una bazzecola.

In effetti, a vedere certe prestazioni olimpiche, a sentire certe storie di lavoro e preparazione, ci eravamo stupiti: sembravano quasi gli atleti di un altro Paese. Per fortuna ci hanno subito pensato loro a rassicurarci: no no, sono proprio italiani.

[tags]italia, olimpiadi, tasse[/tags]

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martedì 12 Agosto 2008, 15:32

Scripta mutant

Oggi non volevo proprio bloggare sulle solite miserie italiche; volevo parlarvi della riforma delle Nazioni Unite e di altri temi che, nelle nazioni meno onfalofile della nostra, sono all’ordine del giorno. Solo che mi sono accorto che, quatta quatta, Repubblica.it ne ha fatta un’altra delle sue.

Stamattina, infatti, il quotidiano del Partito Democratico riportava con grande enfasi la notizia di otto ferrovieri genovesi licenziati per essersi fatti timbrare il cartellino da un collega, pur essendo assenti dal posto di lavoro. Qui trovate la prima versione della notizia, come apparsa anche in home page questa mattina: Repubblica la presenta (sia all’inizio che alla fine) come “effetto Brunetta”, parla di “duro provvedimento” e chiude evidenziando la protesta dei sindacalisti: “è una vergogna che li abbiate licenziati, stavano rubando lo stipendio ma non è poi così grave”.

Probabilmente Repubblica sperava in questo modo che i suoi lettori si indignassero contro il cattivo ministro forzitaliota che, poveretto, traumatizza i dipendenti pubblici licenziandoli se non lavorano. Qualcosa però deve essere andato storto: devono essersi accorti che persino i loro lettori progressisti trovano giusto che uno che si assenta di nascosto dal posto di lavoro venga licenziato.

E così, senza preavviso, nel giro di qualche ora è spuntata la seconda versione. Il primo paragrafo è quasi identico, ma poi sparisce qualsiasi riferimento sia a Brunetta che ai sindacati; in compenso, ora si racconta una storia strappalacrime secondo cui gli otto avrebbero in realtà svolto del duro straordinario, e si sarebbero fatti timbrare il cartellino dall’amico solo per non perdere il treno che, al termine del loro encomiabile sforzo, li avrebbe riportati a casa.

Che dire? Speriamo che ora i lettori si convincano, se no tra qualche ora Repubblica cambierà di nuovo l’articolo di soppiatto, e riporterà che gli otto avevano in realtà passato giornate senza dormire pur di riparare un intero Eurostar con il piccolo pezzo di filo di ferro a loro dato in dotazione dalle Ferrovie, e stavano correndo via senza timbrare, dopo diciotto ore di straordinario, soltanto per via di un terribile lutto in famiglia.

P.S. Ezio Mauro, vedi di non cambiare più niente, che ho fatto gli screenshot!

[tags]media, repubblica, ferrovie, brunetta, lavoratoooooriiiiii[/tags]

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