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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


sabato 29 Marzo 2008, 16:28

Conferenze d’Egitto (2)

Se la parte turistica del mio viaggio in Egitto è stata caotica, la parte di conferenza è stata davvero ottima, anche se sicuramente diversa da come sono abituato. Già vi ho detto di alcuni aspetti positivi e negativi: devo aggiungere il buffo incidente avvenuto quando uno dei relatori, con un gran sorrisone, ha rassicurato la platea che noi occidentali non eravamo venuti lì per imporre all’Egitto le nostre politiche e i nostri valori, ma semplicemente per spiegargli come funzionavano certi meccanismi in modo che potessero trovare in autonomia la propria strada. A noi relatori europei sembrava un discorso gentile, ma tra i notabili c’è stato un brusio, e tra le nostre facce un po’ sorprese il moderatore della sessione ha subito interrotto l’intervento; e, davanti alla first lady, ha preso la parola per precisare che l’Egitto non ha niente da imparare da nessuno, che è un paese leader mondiale delle nuove tecnologie e che lo scopo della conferenza era soltanto quello di condividere l’esperienza egiziana con il resto del mondo.

Bisogna anche dire che, guardandosi attorno, gli egiziani avevano i loro più che validi motivi d’orgoglio: la conferenza si teneva nel cosiddetto Smart Village, una ampia zona a parco – con tanto di palme, laghetti ed erba verde dappertutto, un abuso idraulico mai visto – situata nel bel mezzo del deserto, una ventina di chilometri fuori dal centro del Cairo. Sparsi in tutto il villaggio, vi sono palazzi bianchi e azzurri, tutti appena costruiti, che ospitano le sedi delle organizzazioni governative e delle principali aziende tecnologiche del paese: Vodafone, Mobinil, Ericsson, Microsoft… Con una battuta, il dirigente Microsoft locale ci ha detto che una sede così non l’avevano nemmeno a Redmond. Il centro conferenze, poi, era veramente grandioso, con una enorme hall piena di schermi, la vista su un laghetto con una piramide monumentale al centro, una sala da pranzo dove ci hanno cibato fino a farci scoppiare con gamberi, salmone e della carne buonissima, e poi una sala conferenze con maxischermi e traduzione simultanea.

Certo, è una di quelle operazioni che sono possibili solo in paesi autocratici, dove il governo ordina a tutti di spostarsi lì e loro si spostano, e dove può reperire a bacchetta i fondi per creare un’isola modernissima in mezzo a un mare di degrado e povertà. Ciò nonostante, è anche vero che per questi paesi l’ICT è una buona opportunità di sviluppo: a titolo d’esempio, nonostante fossimo stanchissimi, a fine conferenza ci hanno portato a vedere il fiore all’occhiello, cioè un call center che gestisce l’assistenza Microsoft per mezza Europa, compresa l’Italia. Se attivate Windows via telefono, o se avete bisogno di assistenza sull’X-Box, la vostra telefonata finisce esattamente lì: c’erano due piani pieni di ragazzi che prendevano telefonate.

Comunque, credo di avere anche capito varie cose del circo delle conferenze internazionali, vedendo alcuni relatori – tra l’altro persone molto famose in questi circoli – sdilinquirsi in lodi veramente sperticate alla first lady, e quanto era brava, e quanto era bella, e quanto sembrava giovane; e subito dopo cercare di vendere tra le righe una consulenza miliardaria al governo egiziano. Ho capito che io non ci sono proprio tagliato.

[tags]conferenze, egitto, call center, microsoft[/tags]

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venerdì 28 Marzo 2008, 14:09

Il Cairo a piedi

Non so se sono contento di aver speso una paccata di soldi – quasi duecento euro, tra tutto – per concedermi una giornata extra al Cairo; comunque, i soldi spesi in visitare posti nuovi non sono mai sprecati, e quindi pubblicherò ancora qualche appunto preso sul posto.

La città, come ogni altro posto, è interessante; certo io l’ho presa di punta, e ho rischiato di esserne travolto. Difatti, invece di lasciarmi spaventare dalle storie di turisti rapinati o minacciati, mi sono lasciato convincere dall’allegro entusiasmo della mia Lonely Planet, e da buon ingegnere ho pianificato un giro a piedi che toccasse tutti i punti principali.

Peccato che abbia capito soltanto dopo che il motivo per cui la Lonely Planet insisteva sul prendere spesso il taxi non era soltanto la fatica; questa, oggi, non è una città turistica, e anzi in certi tratti ero totalmente perso nel magma di quartieri che potevano tranquillamente (anche in termini di distruzione e sporcizia) essere a Baghdad o a Kabul. Non credo di essere mai stato veramente in pericolo, ma in certi punti ero chiaramente l’unico occidentale nel raggio di un paio di chilometri, e il modo con cui sono stato guardato – pur avendo una faccia che da queste parti non dà troppo nell’occhio, e pur essendo abituato a scivolar via con lo sguardo basso, la macchina foto ben chiusa e ben stretta, e l’autocontrollo sufficiente per non reagire assolutamente a niente – mi è piaciuto poco.

Il mio giro è iniziato da Garden City, il quartiere coloniale dei grandi alberghi, seguendo la passeggiata sulle rive del Nilo. Il fiume è uno spettacolo, sa già di mare anche se siamo a duecento chilometri dalla foce, ed è coperto dal vento, tanto da esser pieno di barche a vela. La passeggiata quindi non è male, ci sono le panchine e le piante e le coppiette locali che si scambiano effusioni sconce in maniera disgustosa – voglio dire, due si tenevano addirittura per mano! Sembra molto Borghetto Santo Spirito, però a Borghetto non ci sono quattro corsie di traffico impazzito e strombazzante subito a fianco della fila di magnolie, perciò alla fine Borghetto S.S. 1 – Il Cairo 0.

Il problema è quando poi lasci la riva del fiume e ti addentri nelle case, cercando di risalire verso la collina della Cittadella. Non solo l’orientamento è complicato, visto che poche vie hanno il nome scritto anche in inglese e che comunque la cartina di quella zona sulla Lonely Planet è molto deficitaria; a un certo punto vai a sbattere contro un cavalcavia. Ora, io in tre giorni ho già acquisito abilità stupefacenti in questo continuo Frogger dal vivo che è attraversare la strada al Cairo; per dire, sono in grado di fermarmi sulla riga tratteggiata tra due file di traffico che sfrecciano a sessanta all’ora a non più di tre centimetri dal mio naso, o di sfruttare lo spazio triangolare dinamico generato temporaneamente da due veicoli che stanno lentamente divergendo, o di attraversare a pancia retrattile, cioè davanti a un veicolo in movimento e ritraendo la pancia sopra il cofano per superare gli ultimi venti centimetri con un salto proprio quando già esso pare avere le ruote sopra di me. In generale, comunque, mi metto a valle di un locale usandolo come scudo umano e stando però attento a calcolare bene il parallasse, che se no dove passa lui poi non ci passo più io.

Comunque, tutto questo va bene, ma a percorrere a piedi un cavalcavia largo come una macchina più una zanzara non ci penso proprio; e così ho dovuto tuffarmi nelle viscere del quartiere, trovare la stazione della metro, usarla come scavalco, attraversare il mercatino di carabattole (tutte made in China) che occupava la stazione degli autobus iniziata e mai finita che stava dall’altro lato, e poi trovare un vialone che risaliva verso nord, in un quartiere popolare, fino a una grande piazza occupata da una moschea dove si intravedevano torme di donne velate, e non son certo andato ad indagare. Ecco, questo pezzo qui è stato uno dei più inquietanti, anche perché ho dovuto interpretare la mappa sempre un po’ di soppiatto e senza fermarmi in mezzo alla strada con il libro bene in mano (il che equivale a “ehi, sono qui, sono straniero e mi sono perso, fate di me ciò che volete”).

La salita verso la Cittadella però è interessante, perché si svolge per una strada tranquilla piena di ruderi che si rivelano essere pezzi di chiese copte del nono secolo abbandonati lì e usati come discarica di letame, oppure come motoofficina o come stalla per gli asini che tirano i carretti, sempre abbondanti per queste vie. A metà salita, però, c’è la Moschea di ibn-Tulun ed ecco, questa è la cosa che valeva il viaggio: un gigantesco quadrato circondato da un porticato, il più antico edificio ad archi a sesto acuto che si conosca. Al centro del grande cortile, a rompere la luce del mezzogiorno, c’è una cupola che copre una fontana, o un altare, o chissà cosa.

Mi siedo lì sotto e mi godo il vento e la bellezza mozzafiato del luogo. Ignoro le mezze richieste di mancia dei custodi – che svolgono anche il lavoro di fornirti i copriscarpe di tela – e percorro il cortile esterno fino al minareto; salgo proprio in cima, e c’è una vista mozzafiato su tutta la città, con la Cittadella da un lato, e dall’altro una distesa di case tutte coperte di parabole satellitari; la più vicina ha anche un attico al quarto piano sul cui terrazzo c’è una capra che fa la cacca.

Il resto della giornata, invece, è snervante; alla Cittadella nemmeno entro, ho letto che non vale la pena, ma proprio lì davanti vengo abbordato. E’ normalissimo venire abbordati nei paesi arabi, di solito è qualcuno che in inglese ti chiede da dove vieni, e poi si offre di farti da guida, e alla fine ti porterà in un negozio di un amico da cui prende commissioni, oppure ti chiederà soldi lui, o entrambe le cose.

Qui hanno una tecnica più raffinata; basta un attimo di esitazione per offrirsi di aiutarti, e poi la seconda battuta è “oh lì dove vuoi andare è chiuso, ma vieni con me, ti porto in un altro bellissimo posto”. Io sapevo benissimo che la Cittadella era aperta, ma ciò è irrilevante: questi sono capaci di dirti “vedi quel bar lì dove c’è una folla che prende il gelato? quel bar lì è chiuso, ma vieni con me”. L’unica soluzione è sorridere, dire no grazie, e partire con decisione nella direzione opposta, non importa quale sia e dove porti (potete sempre fermarvi dietro il primo angolo).

Dalla Cittadella poi vi è una lunga discesa in un altro quartiere simil-Baghdad (ho incrociato una vecchia 131 che aveva ancora la targa di Milano, vecchio sistema arancio su nero, sopra cui avevano direttamente incollato quella egiziana…), dove l’asfalto finisce e si scende una via stretta piena di ogni cosa, auto, moto, bici, persone, animali, vecchiette sedute, cumuli di monnezza, scavi di non si sa bene cosa e altro ancora.

Ogni tanto sul lato si vede qualche edificio medievale davvero bello, alcuni restaurati, altri meno. La sporcizia è davvero pesante: qui è proprio pieno Terzo Mondo, c’è un livello di schifo elevato persino per l’Africa, sembra quasi Napoli. I bambinetti però sono simpatici, e dopo un po’ ti abitui a schivare con le orecchie le auto e i pick-up che scendono per la via a velocità folle. Qui vedo anche il mio primo incidente: da una via secondaria arriva a tutta velocità un ragazzino più piccolo su una bici, che viene centrato in pieno da un ragazzino più grande su una moto che percorreva la via principale. Il colpo è secco e il più piccolo vola per almeno un paio di metri sulla sabbia, ma i due mica litigano; semplicemente il più grande dà un bacio in fronte al più piccolo e poi ognuno riparte.

Arrivo alla fine a Bab Zuweila, la porta con i due minareti, un altro edificio molto bello e suggestivo: dalla porta si entra nella città vecchia, lasciando fuori questo borgo di case affastellate e piene di bambini (un paio provano anche ad attaccar briga, ma io li ignoro decisamente). Dentro comincia il mercato, e mano a mano la via si riempie di bancarelle di jeans e borse cinesi; non c’è assolutamente niente di interessante se non vestiti e zainetti delle tre marche che vanno fortissimo tra i giovani egiziani, cioè Diesel, Diessil e Dolce (non ho capito che ne abbiano fatto di Gabbana). Non ho nemmeno capito se quelli che hanno scritto Diesel facciano i bulli con quelli che hanno scritto Diessil o viceversa. Lungo questo percorso però ci sono edifici ancora più belli, tra cui la grande fontana di Pasha che purtroppo non ho potuto fotografare a causa dei banchetti del mercato.

Giungo infine al famoso Cairo Islamico, pensando chissà che, visto quanto era islamico tutto il resto. Invece si rivela una mezza delusione; l’antica università è piena di gente che prega e batto in ritirata; oltre la piazza Hussein, superati i caffè pieni di turisti e di acchiappaturisti, comincia un altro quartiere piuttosto degradato; c’è qualche altro bell’edificio medievale, ma la zona del mercato (Khan Al-Khalili) è sostanzialmente una grossa carta moschicida per mosche da torpedone (e qui, dopo tre ore di cammino, vedo i primi occidentali, ad eccezione forse di un paio incontrati dentro ibn-Tulun).

Qui è dove scoppio: c’è semplicemente troppa gente, troppo rumore, troppe cose strane e troppa sensazione di essere un alieno in un mondo forse non proprio ostile, ma certamente non amichevole; raramente mi sono sentito così rigettato come qui.

Faccio per ritornare, e mi tocca percorrere una infinita via di mercato, dove nel mezzo metro libero dalle bancarelle turisti e locali si superano a varie andature. Il mercato è infinito, arriva fino in piazza dell’Opera, interrotto solo da corso Porto Said, che si supera con un sovrappasso pedonale perché lì nemmeno un locale ce la farebbe ad attraversare. Mi chiedo cosa vendessero queste bancarelle prima che arrivassero le importazioni cinesi.

Alla fine scopro ancora un’altra anima del Cairo, il cosiddetto Downtown: una zona di vie dritte e palazzoni all’europea, mal tenuti ma comunque imponenti, e parecchio estesi. Qui il traffico è ancora peggio, e compaiono pure alcuni semafori, anche se sono del tutto inutili perché non li guarda nessuno, e parecchie volte trovo le auto col verde diligentemente ferme in attesa che le altre auto col rosso rallentino, per potersi infilare. Trovo però anche parecchi giovani in giro per shopping con un gelato in mano, e una timida rivendita di panini e bevande dove con circa un euro e venti centesimi pranzo (alle quattro passate) con un paninone di shawarma e una Pepsi Light.

Devo ancora laurearmi in attraversamento, per riuscire a superare piazza Tahrir, e poi arrivo al mio albergo; l’ultimo attraversamento è proprio sulla curva di un vialone a tre corsie dove le auto sfrecciano, eppure lo faccio in souplesse, calcolando in automatico che le auto si sposteranno leggermente più all’interno o più all’esterno a seconda della posizione del pedone che attraversa tre metri più a monte di me, e quindi sfruttando i coni di spazio che egli crea. Arrivo in albergo dopo cinque ore di giro, e ovviamente l’idea di andare ancora al Museo Egizio è passata da parecchio; anzi crollo sul letto a guardare i cartoni animati, finché non arriva un bellissimo tramonto sul Nilo.

Credo di aver capito che pochi percorrono il Cairo a piedi, senza guida e senza un veicolo. Sono contento di averlo fatto, però che stanchezza!

[tags]cairo[/tags]

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lunedì 24 Marzo 2008, 09:08

Cairo (la città, non la persona)

Tutte le mie idee precedenti su questo posto sono state spazzate via prima ancora di atterrare, mentre lo scassone Alitaglia (ma fatela fallire, dai, è triste vederla soffrire così) si avvitava come un cavaturaccioli cercando di infilare la pista dell’aeroporto. Ho capito che c’era un vento della forca, visto che la manica a vento accanto alla pista non solo stava permanentemente orizzontale, ma aveva l’aria del naufrago che cerca con tutte le sue forze di restare aggrappato ad un pezzo di legno per non venire trascinato via dalla corrente. Eppure, Cairo si riassume con una sola parola: caldo. Voglio dire, è il 23 marzo, a Roma piove, e qui ci sono 37 gradi: quando il pilota l’ha annunciato ho pensato a uno scherzo.

Scrivo quando sono in Egitto da circa tre ore; per la precisione, sono sul terrazzo della mia stanza d’albergo, e sto resistendo alla voglia di farmi un bagno in piscina, non tanto perché ieri avevo ancora 38 di febbre, quanto perché sto indossando i miei pantaloni da bagno e devo purtroppo dire che ci entro dentro soltanto in modo nominale, e che se provassi veramente a usarli per dimenarmi nell’acqua esploderebbero come uno pneumatico troppo gonfio. Quindi mi son messo qui, per godermi il vento e il profumo d’acqua e di erba, naturalmente entrambe artificiali, visto che siamo in mezzo al deserto; e anzi mi chiedo come facciano gli inappuntabili camerieri di questo posto ad aggirarsi a bordo vasca in gilè, pantaloni e camicia a maniche lunghe.

Prima di rientrare al fresco dell’aria condizionata, però, ho già da raccontare il mio primo impatto con l’Egitto, maturato durante un’ora di guida tranquillamente allucinata per le tangenziali del Cairo. Già, perchè dall’aeroporto a qui devono esserci una cinquantina di chilometri, tutti attraverso le infinite propaggini di questa città che ha probabilmente tra i dieci e i venti milioni di abitanti. Le tangenziali sono larghe e autostradali, ma il paragone con le altre città del genere finisce qui; in questo posto, le tangenziali e le strade in genere sono teatro di un continuo videogioco che mi ha lasciato ammirato.

Solo qui, per dire, ho visto una superstrada a quattro corsie per senso di marcia in cui viaggiano in parallelo a ottanta all’ora sette auto, quattro sulle corsie e tre sulle righe tratteggiate tra le corsie, in un miracolo di gomito a gomito che non lascia mai più di cinque centimetri a fianco o davanti o dietro a ciascuna auto, costantemente bordeggiando e beccheggiando e superando e controsuperando e oscillando verso destra e verso sinistra. Le macchine non scorrono, si incastrano dinamicamente; proprio come in Out Run, arrivano i momenti complicati in cui hai un camion lento a sinistra, un furgone carico di ceste di vimini sulla destra che lentamente si sta spostando in mezzo, due macchine che si sorpassano subito più avanti, e tu calcoli che l’unica traiettoria possibile per non schiantarti è sorpassare a destra il camion, accelerando per passare davanti al rientro del furgone, ma poi scartando ancora a destra per usare la banchina sterrata e schizzare davanti a tutti; e poi, come se tutti telepaticamente si fossero parlati e senza la necessità nemmeno di un colpetto di clacson, questo è esattamente ciò che accade. In confronto, i zig-zag che faccio io su corso Peschiera quando sono di fretta sono delle innocenti evasioni; credo che guidare qui mi darebbe tutto un altro sprint.

Tutto questo avviene su strade pari a quelle televiste in Iraq: vero, ci sono i segnali e le corsie tracciate, ma sono più che altro di bellezza. Per esempio, qui ho scoperto l’esistenza della mezza corsia: la corsia di sinistra che però a un certo punto, causa restringimento della strada, si riduce a 80 o 50 centimetri, epperò continua ad essere tracciata con la sua brava riga bianca tratteggiata, e ovviamente viene occupata sbordando a portellate in quella a fianco. E poi, ogni tanto c’è l’ostacolo traditore: improvvisamente in mezzo alla strada compaiono un carretto a cavalli, un camion in panne, una voragine, persino un blocco di cemento (mille punti). Nel frattempo, siccome la superficie è irregolare e gli ammortizzatori sono cadaveri di Tiramolla, dopo cinque minuti di viaggio hai già il mal di mare.

Così ho attraversato per quasi un’ora un infinito mare di casupole dallo scheletro di cemento e dai mattoni rossi, tutte col tetto piatto (o più facilmente un altro piano non finito in cima), tutte impolverate dalla sabbia e dal vento, tutte inframmezzate da stretti vicoli e da qualche via sterrata, tutte abitate da un mare di umanità poverissima, con torme di bambini scalzi che giocano a calcio con qualcosa che visto bene non è certamente un pallone, e sembrava più un grosso melone o un globo di creta, non so. E’ una skyline infinita di lineette orizzontali ad altezze irregolari ma più o meno costanti, una specie di segnale discreto che mura l’orizzonte, stipando il terreno di case comunque alte e comunque densissime, perché qui la terra buona è solo a raggio d’innaffio dal fiume, e gli egizi moderni sono troppi.

La cosa però strana da intuire è che la terra qui sarebbe verde e ridente di suo, coperta d’erba che cresce nel limo rigoglioso del fiume; infatti il ponte sul Nilo è uno spettacolo magnifico, una lenta e infinita quantità d’acqua che scivola piano in mezzo a una selva verdissima di piante che sprizzano dure verso il cielo, e sembrano palme più piccole. E’ invece l’uomo che desertifica il limo, costruendoci sopra case su case, strade sterrate e spiazzi da mercato di carabattole e verdure, e premendoci sopra in maniera insopportabile. Ho subito associato questa città a Pechino, ma come suo totale opposto: tanto fredda, ordinata e fiorente quella, quanto caotica, calda e decadente questa. Forse così è come finirebbe Pechino se vi sostituissimo la cultura cinese con quella arabo-cristiana…

Qui, però, a un certo punto succede l’incredibile: qualcosa che non si spiega. Perchè dopo un’ora di auto, in mezzo all’ennesimo ingorgo, all’improvviso dietro la solita riga piatta e irregolare di casupole si stagliano due punte: le piramidi di Giza. E’ indescrivibile l’effetto che fanno: anche a venti chilometri di distanza, si capisce che non c’entrano niente con questo pianeta. Eppure non si riesce a staccare lo sguardo: in fondo, sono solo due triangolini appena visibili in fondo alla foschia, eppure non si riesce a staccare lo sguardo. Non so che cosa diavolo abbiano di speciale, sarà che sono gli unici due triangoli in un mare di lineette orizzontali, sarà che punte a triangolo di cento metri d’altezza non ce n’è molte al mondo, so solo che davvero, veramente non si riesce a staccare lo sguardo. L’autista del taxi deve esserci abituato, non fa nemmeno caso a me che come un idiota passo dieci minuti buoni con lo sguardo fisso su di un solo punto dell’orizzonte.

Alla fine la superstrada sale sopra ad alcune colline, per cui perdo di vista le piramidi ed entro in un altro mondo: questi devono essere i quartieri dei nuovi ricchi (ammesso che ce ne siano). Cioè, sono densi e sabbiosi come gli altri, ma si vede che sono per ricchi: per prima cosa perché lungo la strada compaiono le pubblicità, essenzialmente di università private oppure di negozi di moda. Poi perché appare un centro commerciale, con un trashissimo carrello di cartapesta alto circa dieci metri come insegna, con tanto di cartone del succo d’arancia formato gigante all’interno. E poi perché questi quartieri sono pretenziosi: immaginate, per dire, un palazzotto mediterraneo, tre piani, cinque o sei finestre per piano, ogni finestra con l’arco e una bifora dentro, però il tutto fatto di cemento prefabbricato, replicato all’infinito, in un quadrato di trenta palazzotti per lato, separati l’uno dall’altro al più da due metri di vuoto; e all’ingresso una specie di arco di trionfo greco-romano-egizio, ampiamente dorato, con scritto il nome del progetto immobiliare.

Sì, lo so, sono tamarri: per quanto la cultura araba possieda grandi sacche di raffinatezza, e per quanto gli arabi non siano certo paragonabili ai popoli che raggiungono le vette della tamarraggine (l’intero Sudamerica in testa), e per quanto noi italiani dovremmo stare zitti quando si parla di tarri (sul mio aereo c’era quella che pareva mezza classe quinta dell’ITIS Chanel Totti di Monterotondo), gli arabi ottengono comunque lo Shakirino d’Oro in alcuni settori ben definiti, come i gioielli, i vestiti e la pomposità architettonica. E però qui è tutto nuovo, tutto in costruzione: cavolo, più che Egitto sembra quasi la Turchia.

Ovviamente il mio albergo è proprio in mezzo a questi nuovi insediamenti, dietro l’angolo della sede della CAF (l’equivalente africano dell’UEFA): l’avrà scelto Cairo-la-persona? Comunque, all’elenco di tamarraggini ho dimenticato di aggiungere la musica: il mio albergo ha appena deciso di contribuire all’atmosfera piazzando quattro enormi casse a bordo vasca che ora sparano un remix techno-trance di What A Feeling. Ecco, ora segue la musica dello spot della TIM. Vabbe’, torno dentro e sbarro le imposte.

[tags]egitto, cairo, alitalia, piramidi, viaggi[/tags]

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lunedì 24 Dicembre 2007, 09:30

Strane civiltà

Ci sono molte cose da dire a favore dei tedeschi: sono efficienti e organizzati, rispettano le regole e producono dell’ottimo cibo nei settori “carne”, “pane” e “pasticceria”. Però ieri sono rimasto sconvolto da una scoperta: è difficile da credere, ma a Monaco, domenica 23 dicembre, i negozi sono tutti chiusi!

Cioè voglio dire, è l’antivigilia di Natale, la domenica culmine dello shopping di tutto l’anno, e i negozi sono chiusi! Chiusi! CHIUSI!!!

E io che volevo andare in un Mediamarkt a vedere se i controller della Playstation costavano meno!

Il problema è che i tedeschi hanno i mercatini di Natale, che sono bellissimi da vedere, e anche un’ottima e inesauribile fonte di wurstel arrosto, wurstel viennesi, wurstel bianchi bolliti (tipici di Monaco e buonissimi), wurstel larghi, lunghi, alti, nel panino, nel panone, coi brezen, venduti a coppie e a terne; e anche di frutta glassata e vin brulè. Ma per il resto vendono solo stupidaggini: statuine di presepe; oggettini di legno; stracci e strofinacci da cucina; bamboline; saponi profumati; palle di vetro con la neve finta; candele di ogni ordine e grado; taglieri con scritta customizzata; eccetera. Ma non hanno i controller della Playstation, né alcun altro oggetto che possa venire utilizzato in un consesso civile!

L’unico altro luogo aperto oltre ai mercatini di Natale era una fiera, nello stesso piazzale dell’Oktoberfest, dove, su una scala dieci volte più grande, vendevano… le stesse cose che nei mercatini di Natale! E i locali prendevano la metro e accorrevano a frotte, dicendo “oggi non ho voglia del solito mercatino di Natale, andiamo in un mercatino di Natale più grosso e affollato”!

Dev’essere che i tedeschi – specialmente i bavaresi – sono così. Sono efficienti e moderni, dominano il mercato globale in molti dei settori all’avanguardia, ma in fondo sono paciosi e semplicioni: gli metti un wurstel in una mano, una pinta di birra nell’altra, e gli fai dondolare davanti agli occhi una statuina di presepe o un ritratto in miniatura di papa Ratzinger, e loro sono contenti. Al massimo l’unica altra cosa che desiderano è il televisore, per piazzarcisi davanti e vedere di nuovo il Bayern Monaco perdere la Champions League e la Germania perdere i Mondiali di Calcio. Ma cosa importa, quando hai così ampie opportunità di acquistare candele profumate!

[tags]germania, monaco, natale, wurstel, ratzinger, candele[/tags]

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venerdì 7 Dicembre 2007, 15:47

I diritti umani e la Cina

Dopo questa settimana di racconti, ci tenevo a parlare del tema più caldo e complesso: la Cina e i diritti umani.

E’ molto difficile giudicare il livello di rispetto dei diritti umani in un Paese da una visita di una settimana, limitata alla capitale, e senza avere grandi possibilità di interazione con i locali. Al giorno d’oggi, qualsiasi regime sa che l’immagine pubblica è fondamentale, per cui è improbabile che violazioni e restrizioni siano facilmente visibili, specialmente agli occhi degli stranieri in visita.

Eppure, io sono arrivato in Cina con in testa le tradizionali immagini dei regimi autoritari di tutto il mondo: mi aspettavo polizia ovunque e propaganda dappertutto. Ho trovato invece una città sostanzialmente uguale alle nostre, piena di palazzi di vetro, centri commerciali, pubblicità e gente indaffarata. Ho avuto la sensazione di un luogo sicuro, dove – a parte la folla di venditori di paccottiglia nei luoghi turistici – nessuno ti assalta per strada; se questo sia dovuto a paura di repressione o semplicemente a una moralità più diffusa, non lo posso sapere. Ci sono, è vero, telecamere dappertutto, anche se non ho idea di come vengano utilizzate – e peraltro ormai è così anche da noi. Ma non ci sono certo squadroni della morte e desaparecidos (del resto i dissidenti sono processati e condannati per terrorismo, mica ammazzati per strada).

Mi aspettavo un Paese dove l’informazione fosse rigidamente controllata, dove sui giornali apparissero zone vuote al posto degli articoli censurati – come accadeva col fascismo – e dove la gente avesse paura di parlarti per strada. Nulla di più sbagliato; forse era così fino a dieci anni fa, ma nel centro di Pechino le edicole vendono Newsweek e Sports Illustrated e i negozi sono pieni di marchi occidentali; e si pubblica un giornale in lingua inglese – il China Daily – su cui ho letto editoriali che descrivono la libertà di espressione come un elemento fondamentale per la realizzazione di una giusta società socialista. (Naturalmente il giornale in lingua inglese è alla portata di pochi locali, e quelli in cinese potrebbero essere ben diversi.)

Resta, è vero, la buffa sensazione di cliccare su un link a Wikipedia e vedere la connessione andare magicamente in timeout, e però è più una curiosità che un problema, visto che io, da un albergo pieno soprattutto di cinesi, ho potuto leggere online tranquillamente i giornali e i blog italiani, usare Google in italiano (chissà se riconosce che vengo dalla Cina e aggiusta i risultati?), e leggere le mie mailing list dove si parla di diritti umani ogni due post. Non si è presentato alcun poliziotto alla porta; può darsi che sarebbe successo se non fossi stato un turista occidentale, non lo posso sapere.

Abbiamo avuto occasione di parlare con i locali; seduti in un elegante caffè della zona delle aziende tecnologiche, ci hanno detto tranquillamente che in Cina c’è molta disoccupazione perché tutti i giovani vogliono andare in città, studiare e andare a fare gli impiegati, e nonostante la crescita non c’è posto per tutti; e ci hanno persino detto che anche là esistono le raccomandazioni. Non mi sono parsi affatto spaventati all’idea di esporre queste critiche; il più spaventato era l’accompagnatore per la Grande Muraglia, quando gli abbiamo offerto la nostra frutta secca e lui ci ha detto che, se il capo avesse saputo che lui accettava cibo dei clienti, sarebbe stato licenziato in tronco. Ma mi sembra una misura di cortesia, non una forma di repressione ideologica.

Insomma, non metto in dubbio che in Cina esistano i campi di lavoro forzato, le persone incarcerate per avere chiesto riforme, e un uso significativo della pena di morte. La Cina di oggi, però, è solo un lontano parente del regime autoritario comunista che mandava i carri armati contro gli studenti; assomiglia forse più a una nazione dove un gruppo di potere seduto su una montagna di soldi cerca di utilizzare le proprie prerogative per rintuzzare chi potrebbe mettere tale potere a rischio; esattamente come l’Italia o gli Stati Uniti. La differenza – ed è una differenza non da poco – è che in Italia il giudice che indaga su Mastella o D’Alema viene trasferito e il politico che critica il segretario del partito non viene ricandidato, mentre in Cina potrebbero finire in prigione per dieci anni; ma tale differenza sta nella quantità della punizione, non nell’approccio in sé.

Anche le più visibili manifestazioni dell’autoritarismo cinese sono spesso fraintese. Il desiderio di inglobare Taiwan, per dire, non è tanto una mania espansionista quanto una riunificazione, visto che Taiwan rimase separata dalla Cina semplicemente perché fu l’unica regione dove la guerra civile cinese non fu vinta dai comunisti ma dai nazionalisti, e l’avvento della guerra fredda congelò la Cina divisa, esattamente come la Germania. La stessa questione della sovranità del Tibet è complessa, fatta di trattati contrapposti e talvolta discordanti, risalenti a vari periodi degli ultimi cento anni. La repressione del culto del Falun Gong è una violazione di diritti umani, eppure tutti i paesi occidentali reprimono le sette religiose (vedi Scientology in Germania) quando ritengono che esse siano pericolose per i propri cittadini.

Insomma, se da una parte la Cina ha ancora molta strada da percorrere, dall’altra mi pare che con essa si usi, spesso per ignoranza o per la semplificazione operata dai media, un metro di giudizio particolarmente duro, che non si usa invece nei confronti di se stessi o di paesi più “amici”.

Credo però che il nocciolo di questa discussione possa stare in un assunto che sembriamo dare tutti per scontato, e che invece andrebbe perlomeno motivato: siamo così sicuri che a tutte le società del pianeta si debba applicare la visione occidentale del rapporto tra individuo e società, basata sulla totale supremazia della libertà individuale rispetto alle esigenze collettive?

La Cina, per via delle proprie radici confuciane ben più che di quei sessant’anni di comunismo, ha un rapporto tra le due cose totalmente opposto rispetto al nostro: prima vengono le esigenze collettive – la morale comune, gli obiettivi condivisi, l’equilibrio sociale – e poi viene la libertà del singolo. Se chi governa ordina di radere al suolo un isolato per costruire una stazione della metropolitana, spostando gli abitanti trenta chilometri più in là, per noi sta violando i diritti dei singoli abitanti; per loro sta semplicemente facendo ciò che è complessivamente meglio per tutti, evitando inoltre l’immobilismo dovuto a un piccolo gruppo che tiene in ostaggio la collettività, modello “non nel mio cortile”. L’attacco all’ordine costituito non è quindi un esercizio di democrazia, ma un comportamento antisociale ed egoista.

Dovreste vedere lo spettacolo di migliaia e migliaia di persone che si muovono come api nella metro di Pechino, per capire quanto sia difficile immaginare che una società così densa possa sopravvivere senza un rigido ordine. Allo stesso tempo, questo ordine è pieno di disordine creativo, e di gente sorridente; sarà anche per aver messo la polvere sotto il tappeto, ma il tappeto dei cinesi appare piacevole per tutti quelli che vi sono seduti sopra, e la densità di nuove aziende, nuovi negozi, nuovi palazzi, nuove infrastrutture testimonia come la libertà personale di intraprendere sia tutt’altro che impedita, finché non si va al di fuori dei limiti collettivi.

Noi occidentali continuiamo a vantarci della nostra presunta libertà, contrapposta al presunto autoritarismo cinese; eppure si respira un’aria molto più libera e piena di opportunità a Pechino, dove tutti corrono e fanno e dove non hai paura di venire scippato per strada, che a Los Angeles, dove c’è l’atmosfera cupa della segregazione razziale di fatto e dove se giri l’angolo sbagliato rischi di beccarti una pallottola vagante.

Penso sempre di più che l’argomento dei diritti umani in Cina, iniziato dal basso in totale e giustificata buona fede, sia per i poteri occidentali anche una comoda scusa per mettere in difficoltà politica un rivale economico che ha trovato un interessante compromesso tra libertà, solidarietà sociale e crescita economica, e per tentare una colonizzazione culturale. Vedendo il disastro morale delle società occidentali, ammetto di sperare che a Pechino smettano di filtrare Wikipedia e di arrestare chi critica, ma si guardino bene dall’adottare tout court i nostri modelli sociali.

[tags]diritti umani, cina, libertà[/tags]

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mercoledì 5 Dicembre 2007, 17:42

Ritorno

Ho appena finito di chiudere la valigia; domani mattina, sveglia presto e aereo del ritorno.

Sono molto contento di essere venuto in Cina; è stato un primo contatto con un mondo affascinante, su cui c’è moltissimo da imparare. Mi è venuta voglia di imparare la lingua e comunque di tornarci per capirne di più.

Ci sono ancora molte cose che vorrei raccontare, anche se di solito succede che appena rimesso piede in Italia vengo avvolto dalle cose da fare e non riesco più a mettermi a scrivere. L’impressione che però si ha della Cina, vedendola da vicino, è piuttosto diversa da quella che noi occidentali ci aspetteremmo. Per certi versi non è molto diversa da quelli di un qualsiasi paese in crescita, e Pechino potrebbe davvero essere una qualsiasi città del Nord Europa, solo molto più estesa sia in orizzontale che in verticale, visto che siamo in Asia e la densità di persone negli agglomerati urbani è quella che è. E’ probabilmente la città più ordinata e sicura che abbia visto nei miei viaggi fuori dall’Europa; in confronto, le città degli Stati Uniti sembrano la peggior America Latina, piene di barboni, di degrado e di ricchi chiusi in torri d’avorio. Qui la ricchezza appena trovata è percepibile, ma non lo sono le disuguaglianze sociali (che pure ci sono); e la cosa che ti colpisce di più camminando per la strada è che praticamente tutti, ricchi e poveri, sembrano piuttosto contenti, e pieni di cose da fare.

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martedì 4 Dicembre 2007, 17:40

Cucina

Stasera ci siamo superati: siamo finiti in un ristorante di lusso (tipo 60 euro a testa, che per qui sono una cifra astronomica) dove ci hanno cucinato teppanyaki davanti agli occhi, con tanto di esibizione acrobatica con coltelli e macinapepe, e ho persino assaggiato il manzo di Kobe, che effettivamente è molto particolare, con il grasso e la carne tutti mescolati, e si scioglie veramente in bocca.

Ma la cucina qui è in generale buona: nulla a che vedere con il cinese che si mangia in occidente (tranne che a Vancouver, dove avevo mangiato della cucina cinese vera). E’ fatto con ingredienti freschi, pesce carne uova e verdura, e ha un sapore vero, di cibo, non come la roba precotta che prendiamo noi, e che è in realtà l’equivalente di una pizza surgelata.

Uno dei picchi di piacere è stato il pesce in casseruola cotto sotto la montagna di peperoncini rossi che devo aver già menzionato qualche giorno fa; ma la cosa più particolare è stata il beijing pancake mangiato sotto la Grande Muraglia, in una bancarella in mezzo alla via. Ho anche il filmato della preparazione (che non ho ancora scaricato) – in pratica è un pancake coperto da uno strato di uovo, poi con un po’ di cavolo e con una roba croccante dentro, che non ho capito cos’è ma potrebbe essere fritto di fritto con fritto. Tutto ciò, oltre a costare un euro e mezzo, era buonissimo, anche se poi ho dovuto abusare di Dissenten per calmare il mio stomaco.

Peccato però che la cucina pechinese sia uniformemente basata su due elementi profusi in abbondanza, cioè salsa di soia e aglio tritato. Ad esempio, stasera il contorno della bistecca erano circa quaranta (non scherzo) spicchi d’aglio fritti. Oppure, l’altra sera uno di noi ha ricevuto una insalata composta per metà di fagioli e per metà di aglio tritato.

Così dopo un po’ ci è venuta nostalgia, e quindi abbiamo sbracato, siamo andati nella zona dei locali vicino alla stazione della metropolitana e ci siamo infilati nel Bravo, un fast food italiano. Ebbene, l’ambientazione lasciava qualche dubbio – sulle scale c’erano due gigantografie, una della Torre di Pisa e l’altra di un castello della Loira – e invece, non ci crederete, la pasta era pasta, e sarebbe stata passabile persino in un bar o tavola calda in Italia. La pasta al pesto aveva persino i pinoli, ed erano proprio pinoli! D’altra parte i cinesi copiano tutto alla perfezione, vuoi che non siano capaci a copiare la pasta al pesto?

[tags]manzo di kobe, pasta, beijing pancake, grande muraglia, dissenten, cina, cucina, cu[/tags]

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lunedì 3 Dicembre 2007, 17:02

L’inutilità del software libero

Il motivo per cui sono venuto in Cina è l’acquisizione di un prodotto software per Internet, che una azienda cinese ha realizzato (mettendoci una decina di sviluppatori per due-tre anni) e che ora vorrebbe cedere.

Il prodotto è bello e funziona bene, è parecchio avanzato e anche tecnicamente all’avanguardia – certamente più degli equivalenti progetti europei e americani. Però ha un difetto: per ora, l’unica implementazione disponibile utilizza i formati multimediali di Windows Media e gira solo come plugin per Internet Explorer su Windows. Per cui, ovviamente, siamo arrivati con le nostre richieste per chiedere se ci facevano anche il porting.

Abbiamo così dato vita a una conversazione surreale con l’amministratore delegato e il direttore tecnico di questa azienda cinese, che suonava più o meno così:

Italia: “Dunque, vorremmo però che il sistema utilizzasse anche Flash, non solo Windows Media.”

Cina: “Flash? Sì, ne abbiamo sentito parlare, ma perché volete usare Flash? Tanto i computer hanno già tutti Windows Media.”

Italia: “Beh, no, non tutti, dipende dal sistema operativo… e poi anche il browser cambia, ci servirebbe che funzionasse anche dentro Firefox.”

Cina: “Firefox? Una volta l’abbiamo visto, ma qui da noi non si usa, se volete lo guardiamo meglio…”

Italia: “Sì perchè, sapete, ci servirebbe davvero che il sistema funzionasse con altri sistemi operativi, non solo con Windows.”

Cina: “Certo, ma è già così: funziona anche con Windows Vista.”

Italia: “Ok, abbiamo capito, ma a noi interesserebbe farlo funzionare sui Macintosh.”

Cina: “Macintosh?? Cos’è?”

Italia (mostrando iBook): “Ecco, questo, vedi… il sistema operativo è una variante di Unix.”

Cina: “Unix?”

Italia: “Non usate Linux?”

Cina: “Linux?”

Il punto è peraltro ovvio: in un paese dove la proprietà intellettuale è un concetto alieno, e dove – come da noi una decina di anni fa – il software è quasi sempre copiato e si trovano facilmente CD pirata a prezzo stracciato ovunque, tutti hanno Windows, Internet Explorer e Windows Media; non c’è alcuna necessità di utilizzare altro. Il software libero quindi è una idea incomprensibile ai cinesi, visto che “free as in free beer” il software lo è già, e “free as in free speech” è un concetto culturalmente alieno.

L’unica spinta che sta cominciando a portare Linux da queste parti è, paradossalmente, proprio il fatto che gli occidentali comincino a insistere seriamente perché i cinesi smettano di copiare il software, oltre alla naturale avversità che i cinesi hanno (e che dovremmo avere anche noi) verso l’idea di una emorragia di soldi in licenze verso gli Stati Uniti.

[tags]cina, software libero, windows, linux[/tags]

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domenica 2 Dicembre 2007, 17:09

La Grande Muraglia

Oggi siamo stanchissimi: qui è mezzanotte, domani mattina ho la sveglia alle otto e un quarto e in teoria ho anche un’altra sveglia alle tre e mezza di notte per seguire in streaming Toro-Genoa (ma ammetto che potrei dare forfait).

Oggi io e il mio socio (gli altri due del gruppo erano stanchi e sono rimasti in albergo) siamo andati prima alla Grande Muraglia e poi al Tempio del Paradiso; e la giornata ha dato un senso al nostro viaggio. Credo infatti di avere cominciato a capire alcune cose della cultura cinese, per quanto lo si possa fare al terzo giorno di incontro.

Alla Grande Muraglia, tratto di Mutianyu, arrivi prima per una moderna autostrada a tre corsie – le corsie peraltro sono irrilevanti, ci si stringe e ci si infila come in un videogioco – che ha un costo occidentale, due euro per quaranta chilometri; poi per una bellissima strada di campagna che si snoda sulle pendici di una montagna costeggiando un lago e sembra Svizzera; è fiancheggiata da due strette file di pioppi che sono state dipinte per mezzo metro di bianco per fare da paracarro. Poi si attraversano un paio di villaggi di campagna, più che dignitosi e pieni di lampioni alimentati da pannelli solari, e si risale per un po’ una valle; e poi all’improvviso si vede là, proprio sulla cresta delle alte montagne, la muraglia che si staglia sotto il cielo e si estende a perdita d’occhio, con tanto di diramazioni e torri di guardia sulle montagne circostanti.

Per fortuna c’è una funivia per salire; in cima il cielo è terso e non c’è una nuvola, e l’aria sa già di ghiaccio, proprio come sulle nostre montagne (anche se qui siamo solo a un migliaio di metri di quota). Ci vuole un po’, magari anche un’ora di camminata in cima al muro, per capire perché è così straordinario, visto che anche noi abbiamo le nostre montagne e anche noi abbiamo le nostre fortificazioni, che non saranno lunghe settemila chilometri e costruite senza sosta per diciotto secoli, ma sono comunque imponenti.

Eppure ce l’aveva detto il nostro autista, prima di lasciarci andare: “you should walk by foot, it is good for body and soul”, e noi a guardarlo senza capire, “sure, sure”. Certo si fa una fatica notevole, perché il muro non è mai piatto, ma continua ad andare su e giù, ora di poco, ora ripidamente, per sequenze infinite di piccoli scalini.

E però è proprio quella la rivelazione, ciò che non si nota ma è la radice della perfezione di questo monumento; il fatto che non una pietra, non una roccia della montagna siano state tagliate o spostate per far passare il muro. La costruzione è adagiata sui monti come una corda sulla schiena di un dragone; ne segue le sinuosità naturali senza mai interferire con esse. Anche quando ciò costringe il muro a impennate quasi verticali, non c’è mai un terrapieno, un livellamento, uno sbancamento, una variazione di altezza o di spessore, a parte le casupole quadrate, semplici eppure meravigliosamente decorate, poste ad intervalli pianificati con tale cura da non farsi notare, ovvero là dove non disturbano la forma della montagna.

C’è una placca a un certo punto del sentiero che ritorna alla base della funivia, che spiega che la Grande Muraglia è bella perché è armoniosa. A prima vista sembra una di quelle affermazioni incomprensibili che si ottengono quando gli orientali traducono le proprie frasi – sequenze di concetti rappresentati per immagini – in modo letterale: arrivi al fondo e hai capito tutta la frase, ma non l’hai compresa. Bisogna arrivare in cima alla Grande Muraglia, faticare sui gradini e insieme respirare il vento e insieme ammirare la vista e insieme dimenticarsi ciò che si è, per capire cos’è l’armonia, l’unione e l’equilibrio perfetto di sostanza e spirito, di sé e di altro da sé, di individuo e natura; talmente perfetto da risultare ovvio, invisibile come uno zero, come due onde uguali ed opposte in totale sincronia.

A quel punto tutto è in discesa; anche il Tempio del Paradiso non è più un insieme di pagode a caso, ma una escrescenza naturale del terreno, anche se costruita dagli uomini. Si capisce perché un nuovo quartiere di lusso venga pubblicizzato come la sede per una “flawless life”, ossia una vita in cui nulla turbi l’armonia. Il termine “armonioso” compare ovunque: solo due settimane fa all’IGF i cinesi organizzarono un workshop su come realizzare una “harmonious Internet”, e tutti noi occidentali a ridergli dietro, o peggio ad accusarli che il termine nascondesse soltanto desideri censori. In realtà, temo che a noi manchi una intera categoria dello spirito.

[tags]cina, pechino, grande muraglia, mutianyu, tempio del paradiso, armonia[/tags]

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sabato 1 Dicembre 2007, 18:14

Perché la Cina è un grande Paese

Perché puoi andare a visitare il mausoleo di Mao mentre sta chiudendo, e una delle innumerevoli guardie all’ingresso ti noterà e, nello spirito di servizio tipico del dipendente pubblico comunista, si farà in quattro pur di servirti, gridandoti di seguirlo, e attraversando la strada col rosso pur di portarti in tempo al deposito borse per lasciare la macchina foto, e poi riattraversando di corsa, e poi portandoti fino all’ingresso, e poi, nello spirito imprenditoriale tipico del commerciante, chiedendoti una mancia di 10 euro, e tu gliene darai uno, con reciproca soddisfazione: servizio pubblico svolto alla grande, e economia privata spinta altrettanto alla grande.

Perché negoziano duro, ma senza richiedere le due ore di paziente conoscenza reciproca ed esposizione dei propri alberi genealogici davanti a un tè che ti richiedono i marocchini; bastano due minuti per “135 euro!” “No, 7 euro.” “120 euro!” “No, 7 euro.” “100 euro!” “No, 7 euro.” “Ma stai scherzando, vale proprio 100 euro!” “No, 7 euro.” (Pausa) “Ok, 15 euro!” “No, 7 euro.” “Ma dai, dammi almeno 10 euro!” “No, 7 euro.” “Allora niente.” “Ok, niente” (io mi allontano, la venditrice dopo un attimo mi insegue) “No aspetta, facciamo 8 euro, 8 euro e te ne vai dai!” “Va bene, 8 euro perché sei simpatica.” “Ok, affare fatto!” (e lei comunque ci ha guadagnato lo stesso un margine del 300%: era un pashmina misto seta, e io probabilmente potevo partire da 5 euro o anche meno).

Perché trovi ragazzi di trent’anni che ti dicono che lavorano dieci ore al giorno per sei giorni alla settimana, e lo dicono con orgoglio, non con scazzo.

Perché se a mezzanotte e mezza decidi che il giorno dopo vuoi vedere la Grande Muraglia ma non hai voglia di partire con il pullman delle 7,30, c’è un numero di telefono attivo 24 ore su 24 dove uno che parla inglese ti prenota una macchina con autista anglofono per il mattino dopo alle 9,30 sulla porta dell’albergo; e se tu non sei sicuro di come si pronunci il nome del tuo albergo in cinese, ti chiede il numero di telefono (una chiave numerica che si scrive allo stesso modo in entrambe le lingue e molto facile da comunicare anche in inglese) per usarlo come chiave unica di ricerca e verificarlo.

Perché se proprio non riesci a farti capire, c’è una ditta privata che fornisce 24 ore su 24 anche un servizio di traduttore simultaneo via cellulare.

Perché i venditori del mercato ti prendono per braccio per cercare di portarti dentro il loro stand, ma nessuno si è mai avvicinato con le mani alle mie tasche.

Perché puoi telefonare per venti minuti da una cabina a un cellulare per circa quindici centesimi di euro, e non ho visto pubblicità di suonerie da nessuna parte.

Perché puoi andare al ristorante e ordinare da una fotografia una teglia di pesce, aglio e peperoncino, ed è proprio così, una grossa teglia di metallo servita sul tavolo insieme a pietre calde per tenerla in temperatura, nella quale ci sono due grossi pesci al forno sommersi da centinaia di piccoli peperoncini rossi e svariate teste d’aglio spezzettate; essi galleggiano in un olio rosso rubino, e sfidano la sopportazione dell’essere umano occidentale, ma superato l’impatto iniziale (cosa che nessun altro al tavolo ha fatto, e me ne vanto) si rivela uno dei piatti di pesce più buoni che abbia mai mangiato – e costava cinque euro e mezzo in un buon ristorante.

Perché qui nei mercatini compri la stessa identica roba che compri in Italia, dai vestiti all’elettronica spicciola, ma la paghi dal 50 al 99 per cento in meno.

E poi è grande perché ci devono stare dentro un miliardo e trecento milioni di persone, e che diamine!

[tags]cina, mao, grande muraglia, cibo[/tags]

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