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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


giovedì 1 Febbraio 2007, 12:58

Cronache della Foire

Ieri, come vi avevo anticipato, sono andato per la prima volta alla Fiera di Sant’Orso (anzi, la Foire de Saint-Ours), la millenaria festa cittadina di Aosta, che rappresenta il principale evento dell’anno per la Vallèe. Dopo aver lavorato per la mattinata, mi sono avviato giù per i tornanti da casa mia, per poi arrivare ad Aosta e cercare un parcheggio.

L’operazione non è stata facile, perchè c’era davvero tantissima gente: il primo parcheggio era esaurito e il secondo pieno di centinaia di auto (ovviamente bisogna parcheggiare fuori e prendere la navetta, visto che il centro città è opportunamente sbarrato). La giornata era bellissima, non c’era una nuvola e faceva caldo, per cui in parecchi sono venuti per la fiera; il pubblico era abbastanza equamente diviso tra tre gruppi linguistici: un terzo francese, un terzo italiano e un terzo piemontese. Ovviamente l’età media era altina, visto il giorno infrasettimanale, anche se non mancavano le famigliole un po’ incoscienti coi bambini piccoli, che cercavano di farsi strada nel muro di folla spingendo le facce dei pargoli sulle ginocchia dei passanti.

Parlo di muro di folla perchè la gente era davvero tantissima, e le vie del centro di Aosta sono strettine, tanto è vero che nella maggior parte del percorso era istituito il senso unico pedonale, con tanto di vigili che deviavano la gente agli imbocchi. Lungo le vie si trovano minuscoli banchetti di centinaia di artigiani professionisti e non, ognuno con una manciata di materiale in legno da vendere; chi ha assi e posate di legno, chi ha zuccheriere e grolle, chi vere e proprie sculture (l’attrazione principale era una scultura in legno di una vacca in scala 1:1). Io non ho comprato nulla del genere, avendo già acquistato grolle e zuccheriere dal simpatico intagliatore che ha un microscopico negozio sulla via principale di Saint Vincent, ed essendo che queste magnifiche opere hanno prezzi proibitivi (da cinquanta euro in su un tagliere con bordi intagliati…); mi sono però commosso nello scoprire che esistano ancora artigiani di mestieri antichissimi che parevano perduti, dal bottaio all’intrecciatore di cestini; e ho comunque comprato il dono tipico della fiera, un ramo di fiori di legno, che nel mio caso ho scelto colorati d’arancione.

In realtà, come potete immaginare, oltre alla bella giornata e al bel circondario – Aosta è una città davvero bella, con resti romani e medioevali di grande rilievo, in mezzo allo spettacolo delle montagne – io ero interessato soprattutto all’aspetto gastronomico. In piazza Plouves c’era un “padiglione enogastronomico” dove, contrariamente alle aspettative, non davano da mangiare, ma una serie di piccoli produttori vendevano prodotti tipici, essenzialmente formaggi, salumi, vino, liquori, miele, pane e dolci vari. In compenso, in giro per la fiera c’erano dei tendoni organizzati dalle Pro Loco, dove davano effettivamente da mangiare. Non era necessario andare lì, visto che tutti i ristoranti avevano il menu di Sant’Orso, i bar avevano le offerte di Sant’Orso, e persino il kebabbaro della via principale aveva il kebab di Sant’Orso; ma io volevo mangiare in giro, alla buona, bissando le esperienze delle varie fiere gastronomiche che sono sempre più di moda.

Ora, mentre i villici si accalcavano a frotte nello stand della Pro Loco di Brissogne che distribuiva polenta e salsiccia, io li ho snobbati entrando nello stand accanto a farmi dare la seuppe di Quart (già Porta Pretoria, per gli amanti dell’italianizzazione forzata). Con tre euro, mi sono fatto dare una gavetta profonda in plastica azzurra a pallini, che mi ha ricordato tanto le cene da bambino; me l’hanno riempita con una alluvione di zuppa. Apparentemente, la seuppe è un minestrone denso di verdure e pezzi di pane, dal colore tipicamente marrone; in realtà, è una centrale termonucleare, che accumula e riemette calore come una supernova sul punto di esplodere. Mi accampo sul marciapiede e cerco di assumerla piano piano; ciò nonostante, la mia lingua e il mio palato vengono carbonizzati all’istante. Ma non è finita: perchè la seuppe è caratterizzata dal fatto che, man mano che si scava, emergono delle bolle di fontina liquida. Viene buttata dentro a cubetti solidi, ma si liquefa immediatamente nel calore e quasi evapora, diventando iperfluida; quando la tiri fuori, riassume quel tanto di consistenza necessaria per aggregarsi vagamente in un filo.

Insomma, se prima avevo parecchia fame (erano quasi le due), la zuppa mi è magicamente bastata; non ho più avuto un briciolo di fame. Peccato che non abbia più avuto nemmeno un briciolo di papilla gustativa; anzi, per un po’ mi è stato impossibile persino fare assaggini. E’ che io prendevo il cubetto di fontina da assaggiare, ma quando me lo mettevo in bocca esso, come succedeva a Homer Simpson dopo aver mangiato il chili, cominciava a liquefarsi ed evaporare già a qualche millimetro dalla superficie della lingua!

Ho finito il giro con gli acquisti gastronomici: focaccia e pane nero al finocchio; il raro prosciutto di Saint-Oyen, anche se purtroppo il crudo (soli 36 euro al chilo, ma dicono li valga tutti) era finito; lardo di Arnad; e una fontina stagionata di La Salle, di quelle con le venature rosa e rosse e gli incavi marroni, sfarinati e salatissimi, da confrontare con la mia fontina stagionata di Brusson da cui sono ormai dipendente. Metterò le foto in linea quanto prima; nel frattempo vi lascio con la dichiarazione della madre del piccolo Ivan, otto anni e un po’ di mucche intagliate a qualificarlo come più giovane espositore della Fiera: “Meglio vederlo con un pezzo di legno che davanti al computer o alla televisione”.

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venerdì 26 Gennaio 2007, 11:02

Una sera in Versilia

Ieri ero a Pisa e non avevo voglia di restare, ma nemmeno di tornare. In verità, l’aria della Toscana è subito diversa, nel profumo, nella temperatura, nell’accento; è comunque dolce e tranquillizzante, e una volta ogni tanto fa piacere.

E poi, arrivarci in macchina è sempre una sfida, attraverso una sfilata di centinaia di gallerie che non finiscono mai, che scavano sempre più nel profondo, e insieme che mostrano i segni del tempo, nelle curve vetuste e nel cemento scrostato. All’andata ho trovato anche la neve, tra Sestri e La Spezia, e ho dovuto infilarmi nei curvoni in salita come una ballerina; il ritorno di sera è stato un’ipnosi di precisioni, centrando a centoquaranta gli stretti varchi tra un camion a destra e il muro a sinistra, per poi disegnare invece le pieghe più belle sulla semideserta salita di Voltri: dove le curve (tranne un paio) a centoquaranta si possono anche fare, prendendo lo spazio delle tre corsie e il rischio di uscire dalla galleria di Masone e trovare dall’altro lato il nevischio. E comunque, ci sono sempre quei chilometri di videonongioco, una finta finta prova speciale sui curvoni indecenti tirati da Mussolini sulle spalle di Sampierdarena – alcuni del livello di una svolta cittadina ad angolo retto tra due vie – e poi su tutta la tangenziale di Genova.

Come d’abitudine, mi sono fermato a mangiare alla stazione del Turchino, che come autogrill fa piuttosto schifo – non è nemmeno un Autogrill di marca, e nei cessi ci sono grandi cartelli in cui le autostrade si scusano per quanto fanno schifo, e promettono ristrutturazioni a venire – però è in una posizione straordinaria, con il vento che tira inarrestabile e le stelle proprio lì sopra; e mi ha regalato degli gnocchetti al falso pesto sotto un televisore col Grande Fratello, ma anche una scatola di pandolcini Preti che, in spregio alla globalizzazione, già dopo Novi Ligure non si trovano più.

Prima di tutto questo, però, la mia voglia di tornare e non tornare si è concretizzata in un avvio lento e costellato di ricordi, incerto se andare verso Lucca a comprare il buccellato, o fermarmi a Sarzana in un posto dove avevamo mangiato tanti anni fa. Alla fine ho optato per una passeggiata sul lungomare liberty di Viareggio, che è sempre una vista dall’anima caratteristica. Se non si prende l’autostrada, ci vanno quaranta minuti ad attraversare Pisa, l’Aurelia e Viareggio; ma ho parcheggiato proprio al bordo dei giardinetti.

La passeggiata di Viareggio, persino in una sera piovosa d’inverno, è piena di luci; la serie dei vecchi cinema in stile floreale è intervallata da ristoranti vuoti, negozi di vestiti alla moda (170 euro un piumino Moncler per quattrenni, se v’interessa) e un numero spropositato di negozi di audio, video e console (Panariello ovunque). C’era comunque gente, principalmente ragazzotti che paiono scimmiottare il Cipollini (non il pittore che lì ha lo studio, il ciclista) e il Pieropelù (credo che anche a lui, come al fu Battista Farina detto Pinin, daranno il permesso di fondere il nome col cognome e tramandare il tutto ai figli).

Comunque, dopo un po’ trovo quel che stavo cercando, cioè uno spazio finalmente libero da edifici, che mi permetta di svoltare verso il mare. Piovicchia, e la rena è bagnata, il che mi permette di camminarci sopra senza inzaccherarmi troppo le scarpe. Percorro alcune decine di metri entrando man mano nel buio e nel silenzio, rotto appena dalla risacca e dalle onde che salgono e scendono il declivio compatto e impercettibile che si inabissa man mano. Sono solo col tutto e le stelle.

A mare, il mondo è superfluo (la frase funziona anche rimuovendo un po’ di punteggiatura). Da una parte, resta una lunga, lunghissima curva di puntini luminosi, che unendosi tracciano la linea costiera che si perde per chilometri verso Massa. Dall’altra, una specie di castello Disney di alberi di barche e di gru di cantieri si specchia nell’acqua, disegnando un doppio patchwork indefinibile che cattura lo sguardo. Vorrei scattare una foto, ma non ne ho i mezzi, e non riuscirei certo a fermare la sensazione.

Alla fine, dopo aver scherzato un po’ con le dita nell’acqua, e a saltelli per evitare le onde, decido di rientrare nel mondo e mi volgo. La passeggiata illuminata è davvero lontana, con le auto e i pedoni che passano indifferenti, evitando di guardare il buco nero tra le quinte che apre la prospettiva infinita dell’orizzonte del Tirreno, smascherando il rassicurante contenimento delle case in muratura. Torno indietro tra le pozzanghere. Piove più forte.

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mercoledì 27 Dicembre 2006, 12:30

Ancora Berlino

Ebbene sì, sono di nuovo a Berlino, questa volta per assistere al 23C3, il ventitreesimo Chaos Communications Congress. (Per chi non lo sapesse, il Chaos Computer Club è la principale associazione di hacker tedesca, e direi anche d’Europa; organizza due volte l’anno la più grande conferenza di hacker del continente, e una delle due è tradizionalmente tra Natale e Capodanno.)

La sorpresa principale è stato il mio primo volo da Bergamo, e il mio primo volo con Air Berlin; se Bergamo come aeroporto è comodo (in auto) ma orribilmente sovraffollato, Air Berlin si è rivelata essere una linea aerea full service al costo quasi di un low cost; ci hanno preassegnato i posti, abbiamo volato su un nuovissimo Airbus 320 con tanto di schermini e proiezione di Mr. Bean, e a bordo ci hanno persino offerto un panino e una bevanda, incredibile… ancora una volta, ++ per i tedeschi.

Berlino è… beh, gelida e nebbiosa, ma l’atmosfera di Alexanderplatz immersa nella nebbia notturna è secondo me impagabile. Il convegno è molto cool, e magari bloggherò un po’ in proposito tra qualche tempo; ho già incrociato Thomas (che in questo momento sta cazziando in tedesco stretto il relatore del seminario su GnuPG per le sue ripetute inesattezze: mai fare una conferenza sulla crittografia di fronte a un matematico tedesco) e ho il sospetto che incrocerò parecchia altra gente del giro tedesco di ICANN / IGF; in compenso ancora nessuna traccia della autoproclamatasi “it.militia“.

Ora vi lascio, ma bloggherò ancora una battuta che ha fatto stamattina John Perry Barlow – uno dei padri della cybercultura e fondatore di EFF – nel discorso di apertura, dedicandola a tutti i nerd in sala e altrove!

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giovedì 14 Dicembre 2006, 13:48

Ancora sul Brasile

Da qualche giorno volevo completare il mio racconto del Brasile, parlandovi dell’impressione complessiva che ne ho avuto durante il viaggio a San Paolo.

Va subito detto che il Brasile è una grande nazione, e “grande” descrive bene l’effetto che fa, particolarmente andando a San Paolo – la maggior città del Sud America, con un numero di abitanti non specificato ma compreso tra 10 e 18 milioni, che contarli tutti è un po’ un casino. Tutto è grande, i palazzi, i centri commerciali, le strade, l’inquinamento.

La cultura è molto europea, fin troppo: potete entrare in un centro commerciale – uno qualsiasi delle decine che ci sono, una umile cosetta di vetro e marmi grande tre volte le Gru – e trovarci la Fnac identica a quella di Torino, solo tre volte più grossa; e poi scappare, entrare nel negozietto di dischi di fronte, pensando che finalmente lì troverete qualcosa di non massificato, e trovarvi davanti agli altoparlanti del negozio che mandano Bacco Tabacco di Zucchero. Ah, ma quanti danni ha fatto Zucchero nel mondo… mai quanto Ramazzotti e la Pausini, s’intende.

Il Brasile è un paese dove la gravità è dimezzata rispetto al resto del mondo: lo si vede dai corpi delle donne. Tutti sono belli, persino i brutti, e hanno fisici spaziali; credo facciano un sacco di sport, e poi fa caldo tutto l’anno, insomma si vive all’aperto.

Il Brasile è un paese dove ci si sente a casa per vari motivi, non solo per la cucina – ottima, ed è vero che si mangia molta carne, ma anche molta pasta e un sacco di frutta dalle forme e dai colori improbabili, che richiederebbe, quando la portano in tavola, l’accompagnamento di un manuale di istruzioni per il forestiero. Finalmente, mi son detto guardando i cartelloni sull’autostrada, un altro paese dove quasi tutte le pubblicità hanno dentro un calciatore, o, in subordine, un pilota di Formula Uno! Non è un caso se la compagnia aerea privata nazionale, l’equivalente locale di Air One, si chiama Gol

Ma c’è una cosa che, più di tutte, caratterizza il Brasile. Non sono le belle donne, non sono i centri commerciali, non è lo sport e nemmeno il clima. Se dovessi descrivere il Brasile con una parola, direi che il Brasile è il paese della disorganizzazione.

Già ne avevo avuto esperienze varie: basta studiare capoeira con un mestre brasiliano… Eppure, in questa settimana è successo di tutto; e non parlo solo della disorganizzazione spicciola evidente, i camerieri che vogliono fare i premurosi ma ti rovesciano l’acqua addosso, gli orari di qualsiasi cosa sempre casuali, le code al check-in senza nemmeno le transenne, con la gente disposta a grumo alla bell’e meglio in mezzo alla hall (quello peraltro succede anche a CDG).

Parlo ad esempio dell’incidente che si è verificato a metà settimana: si è rotto l’apparecchio radio che gestisce le comunicazioni da terra agli aerei. Beh, può succedere; peccato che fossero talmente organizzati che, quando si è rotto, la reazione è stata: “Toh, si è rotto! Bisognerà cercarne un altro…” E il vicino ha detto “Eh, sì, magari domani chiamo un riparatore…”. Insomma, per tre giorni tre aeroporti del Sud del Brasile, tra cui San Paolo Congonhas, sono rimasti completamente chiusi perchè si era rotto un pezzo in una radio, con migliaia di persone abbandonate sulle panchine in attesa che qualcuno pensasse a riparare l’oggetto.

Questo è ancora più evidente analizzando la principale meraviglia di San Paolo del Brasile: il traffico. Se non siete mai stati là, non avete mai visto un ingorgo; dopo esserci stati, la coda permanente del sottopasso di Porta Palazzo vi farà sorridere, non ve ne accorgerete nemmeno più.

Vi ho già detto che ho impiegato due ore e mezza dall’albergo all’aeroporto; questo non solo perchè esiste un’unica strada di grande scorrimento in tutta la città, ovviamente sempre bloccata, ma perchè ad essere permanentemente bloccata è l’intera città. Abbiamo chiesto quali erano le ore di punta da evitare negli spostamenti, e ci hanno risposto: “Beh, di notte non c’è tanta coda”. Ogni singola via, dai viali alle viuzze nei quartieri, è permanentemente occupata da una fila di auto ferme col motore acceso (a metà del viaggio, dalla puzza di inquinamento, io stavo per vomitare). In più, la città è cresciuta completamente a caso, senza un vero piano regolatore, per cui anche le strade sono assurde, fanno giri astrusi per districarsi tra le case e i grattacieli; quasi sempre per andare da A a B, anche se sono due punti di grande importanza, sono richieste un paio di inversioni di marcia e una gimcana per stradine a senso unico tra le villette (se in periferia, circondate dal filo spinato per evitare razzie).

La cosa che più colpisce, però, è la flemma: in queste code infinite, di ore e ore, quasi nessuno usa il clacson, se non con un colpetto per indicare la propria esistenza, e assolutamente nessuno viola le regole, ad esempio usando a sproposito le corsie preferenziali degli autobus, passando anche solo col giallo, o girando dove non si può. Lo ammetto, il mio sangue ribolliva quando il taxista che doveva riportarci all’albergo – operazione che richiedeva una inversione a U sul viale – risaliva per altri due isolati la strada per poi invertire e posizionarsi in fondo a cinquecento metri di auto ferme, quando avrebbe potuto evitare la coda semplicemente invertendo due isolati prima, violando però un divieto di svolta a sinistra.

Eppure, tutti stanno tranquillamente fermi per ore, senza lamentarsi. In Italia o nei paesi di lingua spagnola partirebbero lotte al coltello per accaparrarsi la corsia migliore e manovre assurde per guadagnare dieci metri; lì, no. Semplicemente, si aspetta in pace e senza farsi problemi, con la massima serenità.

Certo, in un paese organizzato – considerato che il Brasile nelle sue parti sviluppate non è affatto più povero o meno tecnologicamente avanzato che l’Europa – avrebbero già fatto dieci linee di metro, un treno veloce per l’aeroporto, venti sopraelevate e sottopassi, e insomma risolto un po’ di problemi in qualche modo. Ma ci sarebbe stato da sbattersi: troppa fatica.

Lì, sapete qual è la soluzione? Arrangiarsi: difatti, sul volantino dell’ente del turismo ci si vanta che San Paolo è la città con la seconda più grande flotta di elicotteri al mondo (vedi Vint in arrivo). Insomma, i ricchi vanno in elicottero, e gli altri pazientano: in un certo senso, è organizzazione anche quella.

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martedì 5 Dicembre 2006, 12:42

Piovve

Piovve… orca vacca se piovve! Un gruppo di rappresentanti delle associazioni di utenti sudamericane, in gita-shopping per la città, è rimasto bloccato su un autobus impantanato in mezzo a una via che si è trasformata in un fiume, inondando mezzo quartiere. Più prosaicamente, noi stasera avremmo il torneo di calcio – il vero motivo per cui siamo qui – e il campo è da strizzare, anche se stamattina, pur essendo il cielo grigio scuro, non piove. Saremo coraggiosi abbastanza? E avrò fatto bene a non portarmi dietro la roba, contando di riuscire a fare avanti e indietro dal mio albergo (cinque chilometri che nelle ore di punta sono completamente intasati) nelle due ore di buco che ho a fine pomeriggio?

Ieri, in compenso, mi sono visto l’approvazione definitiva dello Statuto della organizzazione At Large latino-americana, la prima organizzazione At Large che viene ufficialmente istituita. Oggi a mezzogiorno ci sarà la cerimonia della firma, con Vint e Paul sorridenti davanti ai fotografi! Nel frattempo, ieri hanno eletto i due nuovi membri sudamericani dell’ALAC, per rimpiazzare i miei colleghi di quattro anni di Comitato, l’argentino Sebastian Ricciardi e il peruviano Erick Iriarte Ahon (che tipo). Per sei voti a cinque, sono usciti fuori l’argentino Carlos Aguirre e il venezuelano José Ovidio Salgueiro; quest’ultimo, eletto in contumacia in quanto attualmente impegnato nello scrutinio elettronico della rielezione di Chavez, è noto per aver giocato in porta nella nostra squadra al precedente torneo di calcio di Mar del Plata 2005. Tuttavia, a fine riunione sono arrivati quelli che erano rimasti bloccati dalla pioggia, che ovviamente hanno chiesto di rifare la votazione; e stamattina si stanno scannando per decidere che fare.

Dal punto di vista sociale, va invece segnalata la mia cena al ristorante italiano del centro commerciale di fronte all’albergo, io e la Chair tedesca del comitato, soli come due piccioni. Il clou è stato quando mi hanno portato un bel vassoio pieno dei vari dessert, per farmi scegliere; io ne ho individuato uno e l’ho preso. Il cameriere mi guarda, e fa: “Nao come!” Ok, non mangio, penso io, ma perchè? Noto che le guarnizioni di panna sono in realtà di plastica, e penso: ah, deve togliere le guarnizioni, per farmi mangiare il gelato che sta in mezzo. E invece no, anche il gelato era di plastica: praticamente, sul carrello dei dolci portano delle perfette riproduzioni in plastica di tutti i dessert!

Per fortuna che mi sono tirato su con la TV via cavo, e in particolare con i canali di cartoni animati, dove ho potuto non solo vedere qualche puntata in portoghese dei Fairly Oddparents, un cartone americano buffissimo sulle avventure di un bambino e della sua coppia di pseudogenitori fatati (peccato che in italiano il gioco di parole non si possa rendere, e quindi su Sky è diventato banalmente Due fantagenitori); ma anche guardare due minuti dei Gigimon, la versione dei Digimon per un popolo che non riesce a pronunciare la D.

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lunedì 4 Dicembre 2006, 14:36

Impressioni di San Paolo (2)

Ieri mattina ho finalmente fatto il mio primo giro per la città. A dire il vero, il tutto è nato in modo del tutto fortuito: difatti, sono andato a far colazione con l’idea di tornare alla sede del meeting, registrarmi, e cercare gli altri per capire innanzi tutto il programma della mia settimana. A colazione, però, ho incontrato il mio amico Izumi, in perfetta tenuta turistica e con il piano di andare a visitare la città, e in particolare il mercato delle pulci e il quartiere giapponese; e mi sono prontamente aggregato.

Innanzi tutto, ho scoperto che noi siamo in realtà molto lontani dal centro convenzionale di San Paolo. Su consiglio del concierge, abbiamo preso un taxi per venti minuti (25 real) che ci ha portati alla fermata Concepçao della metro, da cui, con sole dodici fermate (stazioni cementosissime, ma sistema molto efficiente), siamo arrivati a Sé, la piazza del Duomo nonchè incrocio della linea blu con la rossa, e quindi, per definizione, centro della città.

Il Duomo risale addirittura al 1954, ed è naturalmente in stile finto-gotico; più interessante la passeggiata per negozi e il mercato delle pulci domenicale di Praça Republica, dove Izumi ha comprato dei piccoli dipinti veramente belli per otto euro l’uno. Abbiamo attraversato una zona residenziale, con ampi vialoni alberati – effettivamente la città è piena di valli (solitamente occupate da superstrade di grande scorrimento, visto che le case si affollano in alto) e di verde rigoglioso – e poi visto il quartiere giapponese: San Paolo è la più grande città giapponese fuori dal Giappone, e si vede, con negozi dove vendono qualsiasi cosa, dai manga alla salsa di soia, fino alle spade da samurai. Nel frattempo, però, il clima si era fatto pesante: 28 gradi all’ombra, sole a picco, sudore e disidratazione a palla nonostante le maniche corte e un bel venticello.

Dopo un pranzo eccezionale in un ristorantino all’angolo – bistecca eccellente, riso, patate fritte, zuppa di fagioli e 33 cl di birra per 6,50 real ovvero 2,34 euro: il Brasile ha anche i suoi bei vantaggi – abbiamo visitato il museo dell’immigrazione giapponese, dove Izumi ha provato a comprare il biglietto in inglese e non lo capivano, poi ha tentato ipotetici spagnolo e portoghese senza risultato, e poi ha attaccato il giapponese e non solo gli hanno risposto, ma gli hanno fatto pure le feste. Sempre in giapponese, ha spiegato che non ero burasiriajin ma itariajin, e così hanno fatto le feste anche a me. E, tra l’altro, chissà quand’è che anche noi troveremo i soldi e la voglia per fare i monumenti all’epopea dei nostri emigrati all’estero.

Comunque, la cosa ha presa una piega piuttosto surreale, visto che nel teatro a pianterreno stavano tenendo, in diretta televisiva col Giappone, una edizione speciale dell’equivalente giapponese del Festival di Sanremo: 25 cantanti uomini sfidano 25 cantanti donne, e i giurati decidono quale sesso vince. Le canzoni andavano dal tradizionale (stile Orietta Berti tastierato) al molto tradizionale (avete presente quegli spettacoli giapponesi in cui un uomo travestito da geisha gorgheggia in modo incomprensibile per cinque minuti accompagnato solo dal suono di una corda da stendere fatta vibrare a caso? avete presente? beh, io ora ce l’ho presente e non è una bella sensazione). In sala c’erano cinquecento giapponesi ambosessi rigorosamente sopra i cinquant’anni, e un unico occidentale (io). E anche questa non è una bella sensazione.

Mi sono però preso la rivincita al ritorno, quando scesi dalla metro abbiamo preso il taxi, e Izumi ha detto al conducente: “Burue Terii Towerusu Morumubi Hoteru” (che sarebbe Blue Tree Towers Morumbi, il semplice nome del nostro hotel). E il conducente, un vecchio nero che sembrava il nonno di Huey dei Boondocks, ha abbozzato e ha fatto una faccia come a dire: de che? Al che, attimo di panico, intervengo io, e penso: conoscerà certamente il centro commerciale di fronte all’albergo, ma come faccio a dire “di fronte a”? E lì ho imparato che lo studio serve sempre, e ho ringraziato i miei lontani corsi di capoeira, e in particolare la “mezzaluna di fronte”: gli ho detto “De frente a shopping Morumbi”, con un perfetto accento brasileiro (cioè, come un genovese che dice “de frenci, belin”, però senza “belin”), e siamo partiti a razzo; è venuto giù il tettuccio dagli applausi. Poi mi ha chiesto perfino se volevo l’aria condizionata, ma c’è un limite anche ai virtuosismi linguistici.

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domenica 3 Dicembre 2006, 20:47

Impressioni di San Paolo

Il primo impatto con San Paolo è stato devastante. Ok, una buona responsabilità ce l’ha l’Air France, che non solo non è riuscita a recuperare nulla dell’ora abbondante di ritardo con cui siamo partiti, ma è anzi pure peggiorata, atterrando con un’ora e mezza di ritardo senza nessuna ragione apparente, cosa mai vista per un volo intercontinentale; e, ciliegina, siamo pure stati fermi per quasi venti minuti sulla pista dell’aeroporto di Guarulhos, in attesa che si liberasse un gate a cui farci attraccare. Quando sono sceso dall’aereo l’ho guardato bene da fuori per controllare che ci fosse scritto “Air France”; a giudicare dalla puntualità, mi sarei aspettato di vederci scritto Trenitalia.

Naturalmente, dopo questi venti minuti di sequestro gratuito a cento metri dall’arrivo – che direi responsabilità dei brasiliani – è seguita la coda infinita alla dogana; nonostante non facciano praticamente alcun controllo, le dogane brasiliane avevano aperto per 250 persone ben due sportelli, di cui uno permanentemente occupato da membri dell’equipaggio, famiglie con bambini e altri passeggeri prioritari ma di complicato trattamento.

Recuperati i bagagli e usciti dall’aeroporto – ed erano già le nove e mezza, cioè mezzanotte e mezza nella mia testa – l’organizzazione brasiliana ha colpito ancora: contrariamente a quel che ci era stato detto e che avviene normalmente per i convegni internazionali, non c’era alcun tipo di accoglienza, neanche un cartello scritto a penna. Identificato a fatica il banco dei taxi dove avremmo dovuto trovare il passaggio prepagato, ho scoperto che delle quattro impiegate nullafacenti tre non parlavano una parola d’inglese, mentre la quarta conosceva quel tanto necessario a dare ordini; e a dirmi che, non importa se io stavo in un altro albergo, lei aveva l’ordine di farmi portare all’hotel del convegno. E così, sono stato caricato su un taxi che per quarantacinque minuti mi ha scarrozzato fino alla sede del meeting, dove sono sceso, entrato nella hall con tutti gli onori, fatto dietrofront e preso un altro taxi (stavolta a mie spese) fino al mio albergo, cinque chilometri più in là.

Ora, ecco la prima impressione di San Paolo: in pratica, sono trenta chilometri lineari di cemento addossati a una placida fogna. Difatti, usciti dall’aeroporto e percorsa (ovviamente ad alta velocità) l’autostrada Ayrton Senna, ci si ritrova improvvisamente su di un lungofiume superstradale a tre corsie, tutte in un senso, mentre le tre corsie per il senso opposto sono dall’altra parte del fiume. Il fiume, però, è un rigagnolo putrido e piatto, dalle anse troppo regolari per essere naturali, che piano piano s’allarga.

Tutto questo va avanti per trenta chilometri buoni, in cui da un lato non si lascia mai l’acqua, mentre dall’altro scorrono via, in modo piuttosto lasco, casette, favelas, cementifici, megachurrascherie illuminatissime, concessionari di SUV, grattacieli con alberghi, centri commerciali, e soprattutto un sacco di grandi tabelloni pubblicitari, principalmente concentrati su telefonini, motociclette e schermi al plasma. Il paesaggio non è nè brullo nè piatto, ci sono continuamente collinette e avvallamenti, con alberi un po’ dappertutto; ma perplime un po’ questa sequenza di edifici (rigorosamente in cemento, al massimo con un po’ di ferro se sono vecchi, o un po’ di vetro se sono nuovi) in cui peraltro spuntano marchi noti di mezzo mondo: a un certo punto, con il Carrefour da una parte e Leroy Merlin dall’altra, mi sembrava di stare a Moncalieri.

La cosa che colpisce, però, non è solo il traffico spericolato (non si capisce da che parte si guidi, visto che in teoria si guida a destra ma il mio taxi, fisso sulla corsia di sinistra a 90 all’ora, era costantemente superato a destra da giganteschi camion di rumenta industriale). Si nota il fatto che le auto sono più grosse del dovuto, con tanti pickup e SUV che paiono adusi a fare a sportellate in fuga, e soprattutto che buoni due terzi di esse, senza esagerare, hanno i vetri oscurati, in modo che i criminali in attesa non possano capire cosa c’è dentro. Appena partiti, in due taxi su due, l’autista ha chiuso la sicura delle porte, e non l’ha riaperta finchè non siamo stati sotto il portico dell’albergo…

L’effetto di questa immensa, infinita sequenza di curvette indistinguibili, edifici riccamente sberluccicanti ed edifici poverissimi in cancrena, tutti mescolati, è totalmente alienante, disumano: non è un posto in cui un essere umano possa vivere. C’è solo un altro luogo al mondo che mi ha offerto le stesse prospettive e le stesse sensazioni: Los Angeles. Vi assicuro che non è un complimento.

San Paolo dalla finestra del mio albergo
San Paolo vista dalla finestra della mia stanza d’albergo.
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sabato 4 Novembre 2006, 16:10

Greci

Non ho avuto granchè modo di vedere Atene: i greci, difatti, hanno scelto di ospitare il meeting dell’IGF a Vouliagmeni, una delle zone più lussuose del litorale a sud della città, a trenta chilometri dal centro. Se quindi sulla strada principale ho visto sfrecciare alcune Ferrari (dalle velocità di tutte le auto, comprese le Punto, è evidente che in Grecia non hanno la più vaga idea di cosa sia un autovelox) e se comunque il meeting è andato accettabilmente, era del tutto chiaro che agli organizzatori interessava di più impressionare gli ospiti internazionali con il lusso dei propri alberghi migliori, che rendere il meeting efficiente e ben organizzato.

Peraltro, anche nell’impressionare hanno fallito: l’ambiente era bellissimo, ma gli alberghi erano vecchiotti, piccolini, pretenziosi e basta; e non puoi organizzare una conferenza per 1500 persone, con mezz’ora scarsa di pausa pranzo, e offrire come uniche opzioni-cibo il ristorante a cinque stelle a quaranta euro, dove ci vogliono minimo 90 minuti, oppure panini a dieci euro l’uno all’elegante bar. Centinaia di persone – non solo noi della società civile, ma anche i rappresentanti dei governi africani o asiatici, che spesso hanno meno soldi di noi – hanno saltato il pranzo regolarmente e poi sfogato il loro nervosismo nei meeting.

Comunque, questo vi riassume la mia opinione della Grecia: non pensavo che sarebbe stato possibile trovare un popolo più pigro, disorganizzato e casinista degli italiani, e finora le mie peregrinazioni per il mondo avevano confermato questa osservazione… e invece i greci ce l’hanno fatta. Per dire, la nuova e splendida metro che va dall’aeroporto (che sta praticamente in Turchia) alla città va a una velocità tale da venire sorpassata ampiamente dai camion che arrancano sull’autostrada adiacente; alle stazioni, poi, si ferma, riparte, riapre le porte, le richiude, fischia tre volte, e sembra sempre sul punto di gettare la spugna.

Le navette dell’organizzazione, invece, erano totalmente imprevedibili: gli autisti discettavano tra loro, deviavano per andare a prendere amici e parenti, cambiavano percorso ogni giorno, partivano senza aspettare gli utenti, e giravano sempre ad orari insensati (a che serve una navetta alle 8 e poi più niente, se la sessione quel giorno inizia alle 10?). Sul pullman dall’aeroporto, l’unica parola di inglese conosciuta dalla guida era “yes”, il che ha portato a caricare anche una signora americana che con il Forum non c’entrava nulla… mitico poi quando la guida ha cercato a gesti di far salire sul pullman tutti quelli che dovevano andare a un determinato albergo, che però si trovava esattamente di fronte a quello della conferenza: per fortuna uno degli ospiti lo sapeva, e ha dovuto trascinare a braccia la guida per cento metri a piedi e indicarle l’insegna col nome dell’albergo, per convincerla a lasciarli andare.

Ha molto divertito tutti noi anche l’implementazione greca della security. Per entrare al convegno c’era una fila di metal detector che funzionava così: arrivati al controllo, bisognava posare le borse su un tavolino messo a fianco del portale; dopodichè, si passava nel portale; il portale suonava; la guardia, invece di perquisirti, faceva cenno di andare avanti, e tu dall’altro lato riprendevi le borse (che non erano passate sotto alcuno screening) e proseguivi, potenzialmente con un intero arsenale o nella borsa o in tasca. Ma se per caso provavi a passare direttamente con le borse nel portale, senza posarle sul tavolino, cominciavano a urlare! Come variante, all’aeroporto – dove le cose erano leggermente più serie, ma di poco – superata la mezz’ora di coda con gente che si infilava e litigava a voce alta dappertutto, se il portale suonava, ti perquisivano; ma non avevano i metal detector portatili, e quindi si limitavano a tastarti un po’ in giro con le mani.

In compenso, il cibo era ottimo, anche se non molto vario (souvlaki, polpette, verdure, formaggio), e il mare molto bello. E trovo molto affascinante la lingua: mi hanno detto che il greco classico è inutile allo scopo, ma io ho passato i giorni come dentro una immensa Settimana Enigmistica, prima per essere sicuro della traslitterazione delle singole lettere e riuscire a leggere velocemente, e poi per capire i significati per paragoni etimologici. Ci sono alcune corrispondenze bellissime: l’uscita si chiama esodo, e sul foglio di registrazione la casella del cognome è intitolata epiteto. Ma il meglio l’ho visto in autostrada, dove il casello si chiama diodo, e sulla sede della manutenzione c’è scritto centro liturgia: se ci pensate, non fa una grinza.

E però, alla fin fine, tra le due offerte avanzate per ospitare l’IGF del 2010 (Lituania e Azerbaigian) ho visto molti pregare per evitare Baku: sarà un posto senz’altro bellissimo (lo cantava pure Battiato), ma per questo genere di incontri la cosa più importante è che NON vengano ospitati solo per autocelebrare le magnifiche e progressive sorti di una determinata nazione.

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sabato 28 Ottobre 2006, 17:29

Tedeschi

Oggi pomeriggio stavo riordinando le foto del mio giro a Berlino di un mesetto fa, e me ne sono capitate due che volevo pubblicare, a proposito dei tedeschi e della loro maniacale, nevrotica necessità di organizzare tutto fin nei minimi dettagli (che però, bisogna riconoscere, rende varie cose in Germania molto più facili).

La prima riguarda le toilette: d’accordo, la stazione della metro di Alexanderplatz è enorme e frequentatissima, e quindi è logico che ci sia bisogno anche di molti bagni, e ben segnalati. Ma da qui al mettersi a realizzare e pubblicizzare dappertutto il “WC Center“, dove grandi e piccini potranno trovare tutto ciò che fa toilette e soddisfare in modo facile e veloce le proprie necessità mingitorie, ce ne passa!

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La seconda riguarda un segnale che sta nel seminterrato dell’ingresso del museo di Pergamo, anche lì vicino ai cessi. E’ quello più a destra nella foto: riuscite a interpretarlo?

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Alla fine la mia teoria è che indichi ai gruppi di lasciar passare prima i singoli nella coda per il bagno, ma potrebbe voler dire tante altre cose, da “almeno uno si metta fuori dalla tappezzeria a pallini” a “uno di voi verrà inesorabilmente schiacciato da un peso di una tonnellata”. Suggerimenti?

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giovedì 29 Giugno 2006, 01:57

Notti arabe

Se non vi ho ancora parlato di Marrakech, è perchè è difficile raccontare tutti i colori, i suoni e le sensazioni di un mondo così diverso e fiabesco.

Stasera, però, vorrei mostrarvi una foto della grande piazza Jamaa El Fna, il centro della città, da sempre il punto di ritrovo e di commercio tra il Sahara occidentale e le coste meridionali del Mediterraneo, e di lì verso l’Europa. Qui ogni genere di visitatori e viaggiatori viene a vendere e comprare; la piazza è piena di venditori di arance e di datteri, cantastorie circondati da un gruppetto di astanti meravigliati, incantatori di serpenti, domatori di scimmie, negozietti di narghilè o di tappeti, vecchiette che chiedono l’elemosina, giovani locali che si bullano davanti a ragazze velate, e ovviamente turisti (ma sorprendentemente in netta minoranza rispetto ai locali).

Dopo il tramonto, però, il rumore dei tamburi e dei pifferi si fa improvvisamente silenzio, quando dalle torri sopra le moschee i muezzin cominciano la preghiera, rincorrendosi l’un l’altro in una litania dal sapore veramente alieno. In quel momento ci si sente veramente intrusi capitati indietro di secoli, quando Marrakech era la città delle mille e una notte, misteriosa e inconoscibile, piena di pericoli e di ricchezze.

E’ in quel momento che, dalla terrazza di un ristorante, ho preso questa foto, che non riesce a trasmettere altro che un pallido frammento dell’emozione di questa sera.

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