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sabato 3 Febbraio 2007, 17:09

A Nightmare on Elm Street

Salto per il momento il racconto di tutte le procedure di sicurezza che ho dovuto subire per entrare in America, e che meritano un discorso serio, per raccontarvi del mio primo approccio con un pianeta sconosciuto: la provincia del New England.

Mi ritrovo difatti in un’ala semidimenticata del megaaeroporto di Filadelfia, scaricato lì da una navetta svogliata della US Airways: è l’ala più vecchia e lontana, e viene usata per i voli locali, quelli dei pendolari. Il punto è che in America hanno un concetto di pendolare aereo che noi non abbiamo: e difatti, percorrendo i vari gate scopro voli in partenza per i buchi più minuscoli degli Stati Uniti orientali. Passi il volo per Knoxville, che è già abbastanza nota; passino anche quelli per Ithaca o per Syracuse, che a voi non diranno niente ma sono centri dell’intellighenzia bene che si è spostata nell’upstate New York per sfuggire alla vita vuota di Manhattan. Ma il volo per Massena? Quello per Newport News? Elmira? Altoona? Harrisburg/York? Utica? Hartford/Springfield? Ogdenville? Shenandoah Valley? Tutti questi posti non solo esistono veramente, ma dispongono di un aeroporto e di collegamenti diretti con Filadelfia (neanche New York).

Peccato che questi collegamenti siano più o meno dello stesso livello dei nostri treni interregionali. Già il gate scrostato con i tubi in evidenza e la moquette strappata mi avrebbe dovuto far intuire qualcosa; ma l’orrida verità si materializza quando salgo sull’aereo. Che si rivela essere un vecchissimo bimotore ad elica, risalente almeno agli anni Sessanta, più probabilmente ai Cinquanta: ha due sedili per lato e nove file, di cui l’ultima è contro una paratia e ha pure il sedile in mezzo, proprio come nei pullman. Ecco, questo aereo ha battuto il record dell’aereo più vecchio e scassato su cui abbia mai viaggiato, surclassando persino il temibile volo Aerolineas Argentinas da Buenos Aires a Montevideo che ho preso nel 2001 (ed era il periodo in cui Aerolineas era in fallimento). (Devo però dire che non sto contando il volo su Cessna che ho fatto in Nuova Zelanda, decollando da una striscia di terra battuta e atterrando in un prato zuppo d’acqua: quello è hors categorie.)

Comunque, il volo sembrava un po’ come quello nel finale di Ti presento i miei: difatti c’era la hostess di mezza età e tuttofare, che al gate chiama i passeggeri delle file posteriori (quattro) e poi, dopo avergli strappato le carte d’imbarco, annuncia al microfono con estrema professionalità che “ora imbarchiamo i passeggeri delle file anteriori” (altri sei). Abbiamo ballato come dei dannati, visto che fuori pioveva a dirotto ed era buio, ma soprattutto che l’aereo era uno sputacchio nel risucchio del vento. La suddetta hostess ha pure annunciato al microfono che “a causa delle turbolenze, vi preghiamo di tenere strette le bevande che vi saranno versate” (il verbo al passivo naturalmente copre la verità, cioè che a bordo c’era solo lei). Ma è la prima volta che vedo un aereo dove sui sedili, al posto di “Life vest under your seat”, c’è scritto “Use bottom cushion for flotation”.

La situazione è divenuta ancora più ridicola dopo l’atterraggio all'”aeroporto” di New Haven, che si è rivelato essere una specie di autogrill prefabbricato in mezzo a un piazzale. In pratica, si scende dall’aereo, si cammina per il piazzale, si svolta dietro una parete di cartongesso e lì c’è il recupero bagagli. Umano: non c’è un nastro trasportatore, c’è un omino che tira su a mano una serranda che dà sull’esterno, poi fa il giro, e attraverso la serranda prende i bagagli dal camioncino e li butta per terra davanti ai viaggiatori. Fuori, oltre al parcheggetto per le macchine dei pendolari, c’è lo stand dei taxi, con un taxi solo. Chiuso e vuoto. Vado in giro, chiedo all’unico impiegato dell’aeroporto (che fa check in, gate di ingresso, gate d’uscita e distribuzione bagagli) dove trovo un taxi, mi dice: ma hai visto dentro? Torno là, mi avvicino al taxi sotto il diluvio. Dentro, a ben guardare, ci sono avanzi di McDonald’s per tutti i sedili, e un nero che dorme sdraiato. Busso, lo sveglio, e mi butto dentro.

Il percorso per arrivare in città prevede l’attraversamento di una zona di ville: ecco, al buio e sotto la pioggia, sembra un film di Nightmare, con le casette di legno con le verande e i tetti a punta in cima alle collinette, circondate da alberi spettrali. Non a caso la strada principale di New Haven si chiama Elm Street.

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2 commenti a “A Nightmare on Elm Street”

  1. Attila:

    Non hai mai provato a volare con gli idrovolanti tipo film “Commando” tra le isolette dei Caraibi, con piloti (probabilmente radiati da qualche aviazione militare) che si divertivano a fare picchiate “a tuffo” (tipo Stuka per intenderci) in atterraggio e a virare a bassa quota vicino alle spiagge… ovviamente senza hostess….
    io un pacco di anni fa ho fatto circa 20 voli così… il primo mi ha terrorizzato, ma verso gli ultimi ho fatto l’abitudine e mi sono (quasi) divertito….

  2. FRANK:

    Ricordo nel 92 o 93 un volo andata ritorno Cayo Largo/Habana con uno Yak 40 (Russo) a reazione. Il piccolo jet ballava latinoamericano benissimo. Al ritorno in Italia andai a visitare la cabina del fiammante B737 e lo raccontai al comandante, considerandomi fortuanto, visto che la seconda scelta era un Lancaster bimotore del ’45…. mi disse che era meglio il Lancaster.

 
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