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Archivio per la categoria 'TorinoInBocca'


sabato 23 Ottobre 2010, 10:21

Normalità pelosa

Ha fatto molto scalpore in città, in questi giorni, la vicenda del volantino-offerta di lavoro che scriveva esplicitamente “NO PERDITEMPO E NO STRANIERI”. Si sono subito scatenate le analisi sociologiche e le reazioni poltiiche, con Chiamparino che parla di “grave episodio di razzismo” e si prostra davanti al commissario europeo romeno. Dato che sul volantino c’è un numero di cellulare, i responsabili saranno presto presi e assicurati alla giustizia. Tutto risolto?

Per quanto mi riguarda, sono stato più interessato (sorpreso no, le prevedevo) delle reazioni dal basso, che sono molto ben esemplificate dalla lettera pubblicata oggi su Specchio dei Tempi:

«Scrivo in merito ai volantini che girano per Torino: offrono lavoro nei centri commerciali e non vogliono stranieri. Subito si è levato in coro di sdegno e rabbia, con richieste di scusa agli stranieri per questa forma di razzismo. Ma non è razzista anche chi cerca dipendenti dai 18 ai 24 anni? Perchè nessuno chiede scusa anche a chi, come me, ha 49 anni e viene discriminato per l’età? Troppo vecchio per lavorare? Davvero non sono più in grado di fare niente? «Io ho bussato a tante porte ma nessuna si è aperta, anzi non ci sono state neanche risposte. E dire che ho venti anni di esperienza nel settore commercio «Eppure io sono italiana e devo far fronte alle spese come tutti, immigrati e non. Per cui mi sento discriminata anch’io e mi sembra un razzismo per il quale non si indigna nessuno».

Molto pochi, tra i lettori italiani della Stampa, si sono preoccupati degli stranieri discriminati sul posto di lavoro; quasi tutti hanno invece pensato “e io?”. Ognuno di noi si è sentito discriminato per qualcosa, spesso a ragione; non di rado, a un colloquio di lavoro si viene respinti perché si è bassi, perché si è brutti, perché si ha la erre moscia che suona un po’ snob, perché non piace il colore della cravatta, o, più spesso, perché si è donna o perché non si è più giovani (in certi casi anche perché si è troppo giovani).

D’altra parte, uno dei principi basilari della nostra società è la proprietà privata; se l’azienda è mia, assumo chi voglio (se la casa è mia, la affitto a chi voglio) e non sono tenuto a fornire spiegazioni. Questo principio ha cominciato ad essere mitigato con le lotte per i diritti dei neri negli Stati Uniti, nel dopoguerra, e ha progressivamente dato vita a una folta legislazione che discrimina per non discriminare, obbligando i privati ad assumere, per esempio, un disabile ogni 15 dipendenti (uno dei motivi per cui certi grandi gruppi si organizzano in micro-aziende di 14 dipendenti ognuna) o vietando, appunto, l’aperta discriminazione degli stranieri e delle donne (“aperta” perché comunque se tu non assumi qualcuno non sei tenuto a fornire ragioni, dunque ti basta non dire chiaramente che è una questione di genere o di colore della pelle; in molti casi il datore di lavoro non è nemmeno cosciente del suo pregiudizio ed è convinto di aver scelto in modo oggettivo).

Cosa distingue, allora, ciò che è una discriminazione accettabile – richiedere la laurea o una età non superiore a 25 anni – da una discriminazione inaccettabile, da vietare per legge? Non lo distingue niente; è un fattore culturale, una scelta politica. E allora è anche giusto che ogni categoria si faccia sentire per chiedere protezioni migliori; credo che una legge che vietasse le discriminanti di età negli annunci di lavoro riscuoterebbe un enorme consenso, nella nostra società di vecchi.

D’altra parte, non servirebbe a nulla: le aziende continuerebbero ad assumere i giovani, che costano meno e si lasciano sfruttare senza opporre resistenza, così come continueranno a non assumere gli stranieri se non li vogliono, qualsiasi legge venga fatta; a dimostrazione che sui temi sociali la legge ha un importante ruolo di sostegno, ma le battaglie si vincono o si perdono a livello culturale.

E allora, tutta questa indignazione per chi ha messo nero su bianco la normalità, quello che in silenzio fanno in molti, suona anche un po’ ipocrita; come se i politici non sapessero che il razzismo strisciante e crescente deriva dalla loro incapacità ventennale di gestire l’immigrazione in maniera appena decente; come se il problema, come spesso in Italia, non fosse il fare qualcosa di male, ma il dirlo apertamente.

[tags]immigrazione, lavoro, annunci, stranieri, discriminazione, donne, xenofobia, torino, chiamparino[/tags]

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mercoledì 20 Ottobre 2010, 18:06

I cantieri del quartiere Parella (4)

Pensavate che fosse finita? Ma no, certamente… rispetto all’ultimo post, ne hanno combinate ancora!

Dovete sapere che attorno a casa mia è diventato molto difficile parcheggiare, da quando hanno aperto il cantiere del parcheggio di piazza Chironi eliminando un centinaio di posti auto. Se prima parcheggiavo tranquillamente sotto casa fino alle 18, adesso non c’è mai un posto e bisogna andare verso corso Lecce.

Bene, a inizio della scorsa settimana apprendiamo una ferale notizia: troviamo tutto il tratto di via Zumaglia sotto casa punteggiato di segnali di divieto di sosta e fermata, per un paio di centinaia di metri. I lavori del teleriscaldamento sono arrivati anche da noi, e non per breve tempo: su ogni cartello è appiccicato un foglio di carta su cui è scritto che il divieto durerà dal 14 ottobre al 22 novembre, più di cinque settimane per duecento metri di lavori.

Il 14 ottobre, giovedì scorso, la via è perfettamente sgombra: tutto pronto per iniziare i lavori. Se non che, purtroppo, non si vede nessuno: in tutta la giornata non arriva nemmeno mezzo operaio. Venerdì 15 la via è ancora sgombra, ma nemmeno allora si presenta qualcuno. A quel punto molti, stufi di girare inutilmente cercando parcheggio, sfidano il divieto e ricomincia l’occupazione della via. Nel weekend molti sono fuori Torino, ma lunedì la via è di nuovo piena di auto in sosta, infilate alla bell’e meglio tra un cartello e l’altro (visto che sono stati messi sulla carreggiata). Nemmeno lunedì mattina appaiono le ruspe.

Oggi, in compenso, guardo i cartelli e scopro che qualcuno è passato… a cambiare i fogli: ora dicono che i lavori saranno dal 21 ottobre al 30 novembre. Di fatto, per una settimana il parcheggio è stato vietato inutilmente: disagi inutili, inquinamento inutile, rumore inutile, solo perché non sono nemmeno capaci a programmarsi il lavoro. Vedremo se domani mattina si presenteranno davvero le ruspe!

Speriamo almeno che dopo questi lavori sistemino per bene l’asfalto, perché non solo la gobba di cui ho parlato nell’ultimo post è ancora lì, ma ieri mattina su di essa c’è stato un altro bell’incidente…

[tags]torino, parella, cantieri, lavori, traffico, appalti[/tags]

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sabato 16 Ottobre 2010, 11:57

L’apolizia

Per prima cosa, vi faccio leggere le due lettere che Specchio dei Tempi riporta stamattina:

Una lettrice scrive:
«Domenica 10 ottobre decido di prendere il treno per Torino. Alle 17,15 mi reco alla stazione di Settimo Torinese in tempo per acquistare il biglietto allo sportello automatico, ma ahimè, la macchinetta è rotta. Mi guardo intorno e vedo la biglietteria chiusa, il giornalaio chiuso e la macchinetta stampabiglietti fuori servizio. Aspetto quindi il treno, Gtt, al binario numero 3 con altre 3 persone sprovviste come me del biglietto. Facciamo presente al capotreno la situazione venendo rassicurati. Il biglietto si può fare tranquillamente sul treno, ci dice lui, e noi restiamo ad aspettare mentre compila le ricevute. Ad ognuno di noi viene quindi consegnata una ricevuta recante il prezzo del biglietto più una sovrattassa! La sovrattassa!? Perché mai, mi chiedo, dovrei pagare una sovrattassa? «Il costo del biglietto lo pago volentieri, dico al capotreno, ma la sovrattassa (il “Diritto fisso esazione in treno”) proprio no! Il capotreno risponde che devo pagare. In alternativa posso fornire il documento e successivamente farmi fare una bella multa. «Decido di non presentare il documento e chiedo di pagare per l’ennesima volta solo il costo del biglietto. Il capotreno non ci sta e contatta l’ufficio della polizia ferroviaria di Porta Susa. La polizia!? Ma stiamo scherzando!? La polizia per una sovrattassa!? «Accorrono subito due poliziotti in divisa e mi chiedono cosa stia succedendo. Io spiego, un po’ intimorita dall’accerchiamento. Credo che non mi abbiano ascoltato perché un attimo dopo mi intimano (con una “toccatina” al braccio) di presentare al capotreno il documento per l’identificazione e la contravvenzione e mi ricordano (il tono utilizzato purtroppo non può essere reso a parole…) che “sul treno si sale con il biglietto”! «Mani in alto per me. Mi arrendo!».
C.F.

Un lettore scrive:
«Vi racconto un episodio avvenuto giovedì 14 sul treno in arrivo a Torino alle 19 proveniente da Savona. All’altezza di Carmagnola una coppia di ventenni in stato visibilmente alterato inizia a prendere a calci le porte che separano le carrozze, mandando in frantumi i vetri. Passeggeri paralizzati, attoniti. Mia moglie decide di andare in cerca del capotreno, che constata i danni e chiede i documenti ai giovani. I due dichiarano di non averli, e nel frattempo lanciavano banconote da 50 euro al capotreno minacciando mia moglie per aver “fatto la spia”. «Arrivati a Porta Nuova i due ragazzi scendono senza problemi, nessuno li blocca e nessuna pattuglia li attendeva al binario, mentre mia moglie deve chiedere al personale ferroviario di essere scortata sino alla fermata del tram per paura di ritorsioni…».
CRISTIAN ATZORI

Poi, vi rimando al filmato (peraltro non molto movimentato) che mostra i militanti del Popolo Viola fermati e identificati dalla Digos dopo essersi allontanati dal corteo studentesco dell’altro giorno.

E poi vi chiedo se non pensate che se gli italiani hanno sempre meno fiducia nelle istituzioni (anche se le forze dell’ordine sono sempre tra le più gettonate) non sia solo per il nazionale benaltrismo per cui il cattivo è chi fa la multa e non chi passa col rosso, ma perché effettivamente le logiche di azione della polizia non sono più comprensibili; ammesso che ci sia ancora una logica, e non piuttosto una serie di coraggiose e scoordinate azioni dei singoli agenti, resistendo ai tagli degli stipendi e delle risorse, insieme a un sacco di altri agenti che si fanno i fatti propri o peggio rispondono a logiche deviate di varie genere, dal manganellare per il gusto di farlo fino all’obbedienza politica.

[tags]polizia, forze dell’ordine, specchio dei tempi, ferrovia, digos, istituzioni[/tags]

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venerdì 8 Ottobre 2010, 15:32

Viva la mafia

Tra ieri sera e stamattina, a Torino, si sono svolti due eventi molto interessanti: ieri sera Sonia Alfano, Salvatore Borsellino e Gioacchino Genchi hanno tenuto una conferenza su mafia e Stato, mentre stamattina è stato inaugurato presso l’ITIS Levi il nuovo Auditorium Beppe Alfano, intitolato al padre di Sonia.

Ieri sera, a sala strapiena, si sono ripetute quelle verità che per noi sono ormai scontate, ma che fuori dai nostri circoli lasciano ancora le persone con un senso di stupore e persino di incredulità. Tra le chicche, Sonia ha raccontato del suo incontro in carcere con Totò Riina, che parlando di Berlusconi le ha detto “iddu c’a futtiu” (“quello ci ha fregato”); vari mafiosi le hanno chiesto come mai loro stanno in carcere mentre “quelli di Roma” sono tutti liberi. Genchi ha ricordato che, all’epoca, i circoli di Forza Italia a Brancaccio e Misilmeri sono stati aperti prima ancora che aprisse la sede provinciale del nuovo partito, creati da tal Lalia che, come da tabulati, intratteneva conversazioni telefoniche con Spatuzza e altri mafiosi riconosciuti; e che costui cominciò a chiamare persone che poi sarebbero divenute esponenti siciliani di Forza Italia, le quali poco dopo chiamavano un numero privato della casa romana di Berlusconi. (Del resto Dell’Utri, l’uomo “senza cui Forza Italia non sarebbe esistita” come disse lo stesso Berlusconi, è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa…)

Insomma, chi voglia aprire gli occhi può sapere ormai con certezza che le stragi di Capaci e di via D’Amelio non furono stragi di mafia, ma stragi di Stato eseguite dalla mafia, nell’ambito del passaggio di mano del potere tra la prima e la seconda Repubblica. Abbiamo un Presidente del Senato che è stato socio o consulente di mafiosi acclarati e un Ministro della Giustizia che è stato fotografato al matrimonio della figlia di un boss: ma che volete ancora?

Tuttavia, per me è stato meglio l’incontro di stamattina; un incontro in cui Sonia Alfano ha parlato a lungo della storia del padre, commuovendosi a più riprese. E’ bene dire qualche cosa su questa storia poco conosciuta, perché per noi, da qui, le vittime di mafia appaiono sempre lontane; e la tragedia non è, come noi crediamo, la morte in sé, ma tutto ciò che viene prima e che viene dopo.

Beppe Alfano era un insegnante con l’hobby del giornalismo; oggi sarebbe un blogger. Cominciò a fare inchieste sugli scandali del paese in cui viveva, Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina; svelò giri di soldi che non doveva toccare. Gli offrirono 39 milioni di lire per tacere, e lui li rifiutò; allora gli dissero che sarebbe morto entro il 20 gennaio. Per un paio di mesi visse sapendo di dover morire, e ogni giorno i suoi familiari si chiedevano se sarebbe stato quello buono; alla fine fu ucciso con tre colpi di pistola l’8 gennaio 1993.

Il giorno dopo, le compagne di studi di Sonia, che frequentava l’università a Palermo, la chiamarono per dire che i loro genitori avevano loro vietato di vederla ancora. L’intero paese fece capire alla famiglia Alfano che non era più gradita, e una settimana dopo si trasferirono di corsa a Palermo, dove non conoscevano quasi nessuno. Nè lo Stato nè altri assistettero la famiglia economicamente o psicologicamente.

Il processo fu anche peggio; il loro avvocato, il famoso Galasso, smise di presentarsi in aula, e Sonia, irritualmente, si dovette fare l’arringa da sola. A un certo punto un avvocato della difesa la chiamò a testimoniare e le chiese se suo padre avesse mai abusato di lei, visto che in paese “si diceva” che fosse pedofilo (o adultero, o puttaniere: tutte voci messe in giro dalle cosche). In un altro momento della lunghissima vicenda giudiziaria (in parte ancora in corso) i giudici dissero che mancavano le prove del collegamento tra gli esecutori e i mandanti; i carabinieri del paese dissero che “non riuscivano a trovare niente”, nonostante queste persone fossero sempre in giro per le vie. Alla fine Sonia fu costretta a introdursi di sera nel cimitero, l’unico punto da cui si poteva vedere l’interno del capannone dove si riunivano i mafiosi, e a trovare lei le prove osservandoli.

La piazza dove abitava la famiglia Alfano è stata in teoria intitolata a Beppe Alfano; in teoria, perché il Comune non ha mai provveduto ad apporre le relative targhe. Qualche giorno fa, qualcuno ha scritto con la vernice sul selciato: “VIVA LA MAFIA”. I parenti di Sonia sono andati a cancellare la scritta, e sono stati insultati dagli abitanti del palazzo di fronte. Ogni anno, la famiglia cerca di organizzare una commemorazione in paese, e ogni anno i presidi si rifiutano di farvi partecipare i ragazzi delle scuole, con giustificazioni come “sono già andati al cinema la settimana scorsa, non possono fare troppe assenze”. L’ultima volta, nell’auditorium da 500 posti, c’erano 12 persone. Intervistati di nascosto, alcuni ragazzi del paese hanno risposto che non sapevano bene chi fosse Beppe Alfano: in paese si dice che “forse era un giornalista, o forse un puttaniere”.

Io so che leggendo queste cose siete inorriditi – e di storie così ce n’è ancora, e ancora, e ancora: la storia di Rita Atria, quella di Graziella Campagna, quella, particolarmente terribile, di Giuseppe Francese. Storie in cui una persona sta da sola con l’onestà, e il potere sta dall’altra parte; e di fronte hanno uno Stato che non sa mai scegliere da quale parte stare.

Solo, di una cosa vi devo pregare: non pensate, come pensano quasi tutti al Nord, che queste siano storie di terre lontane; non osservate queste persone come si fa coi leoni nelle gabbie, un brivido e via. La criminalità organizzata è tutto attorno a noi; c’è la ndrangheta a Rivoli, c’è la ndrangheta a Moncalieri, e attenzione, non sono per strada a spararsi, ma sono nelle istituzioni, esprimono politici e assessori nel centrodestra e nel centrosinistra, sono immischiati in tutti gli appalti, nella Tav, nei nuovi quartieri. Il fatto che da noi non si spari è ancora più preoccupante: vuol dire che le cosche hanno trovato un loro spazio consolidato nell’amministrazione della zona in cui viviamo. Comunque anche qui, contrariamente a quel che pensano in molti, Bruno Caccia non fu ucciso dalle BR ma dalla ndrangheta; e prontamente dimenticato.

Sarebbe bello se anche da noi, come in Sicilia, ci fossero così tante persone che lottano contro le cosche – ma quelle nostrane, non quelle lontane; avendo la consapevolezza di trovarsi contro anche ampie fette dello Stato. Nel frattempo, informare è cosa importante; perché pochi, troppo pochi, sanno cosa succede veramente.

[tags]mafia, ndrangheta, criminalità, borsellino, sonia alfano, beppe alfano[/tags]

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domenica 3 Ottobre 2010, 16:36

I cantieri del quartiere Parella (3)

Vorrei riprendere l’incresciosa vicenda dei cantieri nel quartiere Parella solo per segnalare che, pochi giorni dopo il mio post precedente, l’incrocio sotto casa mia si presentava così:

parella-3.jpg

Come era facile prevedere, c’è subito stato un bell’incidente i cui detriti, peraltro, sono ancora lì dopo un paio di settimane.

Ma ovviamente gli incidenti sono sempre colpa degli automobilisti, mica del Comune…

[tags]torino, parella, cantieri, lavori, appalti, incidenti, traffico[/tags]

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mercoledì 22 Settembre 2010, 17:28

Un disastro chiamato Caselle

Da un po’ di tempo mi capitava di prendere l’aereo da Malpensa, per un motivo o per l’altro. Per quest’ultimo viaggio ho invece insistito per viaggiare da Caselle; bene, è successa una tale serie di cose che me ne sono dovuto pentire. L’aeroporto dovrebbe essere una risorsa per la città, e invece pare essere soprattutto una palla al piede…

All’andata, ho provato ad andare a Caselle con i mezzi pubblici (in tutto il mondo si va all’aeroporto coi mezzi pubblici; il collegamento aeroportuale è in genere la prima preoccupazione dell’azienda di trasporti). La situazione di Caselle è notoriamente infelice: si può scegliere tra un treno-lumaca ogni mezz’ora e non collegato con niente – per cui ora hanno aggiunto una navetta di collegamento tra Porta Susa e Torino Dora, ma a forza di salire e scendere i tempi sono lunghissimi – e un bus carissimo (6,50 euro), ancora meno frequente del treno e nemmeno diretto, che attraversa i paesi raccogliendo casalinghe e studenti.

Io sono fortunato, perché da casa mia col 2 posso arrivare direttamente alla stazione Madonna di Campagna, da cui passa il treno. Esiste un biglietto integrato da 3,80 euro, nel quale è compresa anche la tratta in bus; peccato che sia venduto soltanto all’aeroporto, nelle stazioni della Torino-Ceres e in un paio di uffici GTT in centro. In pratica, sono stato costretto a pagare un euro extra per il biglietto del 2, e poi a comprare il biglietto a Madonna di Campagna.

In tale stazione, peraltro, vi è una piccola biglietteria messa dalla parte opposta rispetto all’ingresso di chi arriva fin lì col pullman, presidiata da una signora che, quando sono arrivato, stava tranquillamente leggendosi le sue carte seduta a un tavolo – nonostante il treno fosse proprio in arrivo. Ovviamente l’operazione è stata svolta con tutta calma e ovviamente ho perso il treno; per fortuna ero molto in anticipo e ho potuto prendere il successivo, e con me altre 4-5 persone che hanno perso il treno per lo stesso motivo.

Mi era già successo una volta anni fa: arrivando, la biglietteria era deserta, e solo dopo che il treno era passato lasciandomi lì la bigliettaia si era palesata: era al bar. Inutile dire che, in una stazione in cui passa un treno ogni mezz’ora e dunque la biglietteria serve per cinque minuti ogni trenta, uno potrebbe anche andare al bar in un altro momento; per non parlare del fatto che, in una linea così lenta, la bigliettaia potrebbe anche avvertire il treno fermo al piano di sotto che ci sono ancora persone in coda che devono prenderlo. Comunque, non ci sarebbe stato problema se, semplicemente, io avessi potuto comprare il biglietto del treno in anticipo da qualche parte.

Arrivati all’aeroporto, altra scenetta non da poco. Ai controlli di sicurezza metto la mia roba sul nastro, passo una volta, suona. Mi tolgo la cintura, ripasso, suona di nuovo. Non ho più niente di metallico addosso, pazienza, sarà regolato sul minimo: l’addetto allora prende e… mi aspetto che, come in tutti gli aeroporti del mondo, mi perquisisca con il metal detector portatile; invece no, comincia a palparmi direttamente con le mani, perché evidentemente non è dotato della macchinetta. Dietro di me un gruppo di fiamminghi anche loro diretti a Bruxelles, stessa scena; in più, l’addetto non parla mezza parola di inglese. Alla fine, sbuffando, questi gli dicono “airport language is English, not Italian”. Ma l’addetto non ha capito nemmeno quello.

Tralasciamo la successiva scoperta per cui la lounge per i clienti di Brussels Airlines si trova prima dei controlli di sicurezza e non vicino ai gate (anche questo non è esattamente uno standard internazionale) e veniamo al ritorno: atterro domenica sera alle 20. L’aereo non viene attaccato ai “finger” del terminale (costeranno troppo?) ma viene parcheggiato sul piazzale: lo sbarco avverrà col bus. Peccato che il bus non ci sia: per qualche minuto, con tutti i passeggeri già in piedi e pronti a scendere, il comandante è costretto a ripetere che “we are waiting for the bus to arrive”.

Alla fine il bus (marcato Aviapartner) arriva, ma sull’aereo c’è una persona che cammina con difficoltà e ha bisogno di assistenza; l’assistenza non c’è. La signora scende a fatica dalla scala appoggiandosi su un bastone con l’aiuto di un altro passeggero e si pigia col bus in mezzo agli altri. Arrivati nel terminal, mentre attendiamo i bagagli, arriva un ragazzo di corsa: comincia a dire all’anziana signora che “c’è stato un casino” (testuale) e, con molta gentilezza ma un linguaggio non proprio formale, racconta che loro sono arrivati ancora dopo e che non hanno trovato più nessuno, perché lo sbarco era già avvenuto.

Nel frattempo attendiamo i bagagli, chi con il treno da prendere, chi con amici e parenti fuori ad aspettare. Aspettiamo, riaspettiamo, aspettiamo ancora… alla fine l’attesa da quando siamo arrivati davanti al nastro a quando esso ha cominciato a girare è stata di 19 (diciannove) minuti. Nel gruppo c’erano due signore africane che commentavano che il loro aeroporto di provenienza nell’Africa nera era stato molto più efficiente. Non so se questi siano i colleghi dei famosi lavoratori cassintegrati della vertenza in atto, ma se lavorano così, è facile prevedere ulteriori licenziamenti.

Prendo il bagaglio, esco, mia mamma è venuta a prendermi, arriviamo all’auto parcheggiata nella zona “i primi 30 minuti sono gratis ma poi ti saccagniamo”, istituita dopo anni di proteste popolari perché la cifra richiesta a chi parcheggiava per aspettare e prendere qualcuno arrivava anche a 6-7 euro. Mi viene il dubbio che l’attesa dei bagagli sia concepita per farti superare i 30 minuti di sosta e saccagnarti. Comunque, non solo l’area è piena, ma di fronte alla sbarra di ingresso c’è una lunga coda di auto ferme in attesa che si liberi un posto, in modo da poter entrare. La coda intasa il passaggio; d’altra parte non ci sono alternative, e l’area è ridicolmente piccola (saranno una trentina di posti in tutto). Dietro di essa c’è un’altra area parcheggio, credo per dipendenti, praticamente vuota. Dall’altro lato, nel multipiano, c’è una nuova area parcheggio riservata ai possessori di una misteriosa tessera – completamente vuota pure quella. Ma la strada è intasata di gente che non trova parcheggio. Geniale.

Sarebbe bello poter dire “cambiate quel dirigente, cambiate quel fornitore e tutto si risolverà”. Qui il problema è alla radice: è un intero sistema cittadino, dal Comune a GTT, da Sagat alle aziende private, che funziona al peggio; che con l’obiettivo di fare soldi a breve distrugge le prospettive future e spinge i torinesi a usare gli aeroporti di Milano – o anche, specie per le aziende, a trasferircisi direttamente. Certo che la situazione di Caselle è davvero disperante.

[tags]torino, aeroporto, caselle, gtt, sagat, aviapartner, sicurezza, bagagli, parcheggio[/tags]

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lunedì 20 Settembre 2010, 22:27

Spinoffiamo la città

Ha fatto rumore in tutto il mondo, nei giorni scorsi, la decisione degli azionisti della Fiat di separare le attività automobilistiche da tutto il resto. I giornali, obbedienti, hanno presentato l’operazione come un grande successo manageriale; tempistiche perfette, esecuzione precisa, evviva Marchionne. “Più libertà”, parola magica, da cui dovrebbe derivare uno sviluppo migliore di entrambe le attività. Ma sarà vero?

Uno spinoff, come l’hanno chiamato i media, avviene di solito quando una azienda prende un pezzo delle proprie attività e le trasforma in una nuova azienda, che però resta controllata almeno in parte dalla prima. Quel che è avvenuto in Fiat invece è più insolito, e, più precisamente, si chiamerebbe spinout: l’azienda è stata spezzata in due, e (semplificando per farvi capire) chi prima aveva in mano due azioni Fiat ora si ritroverà in mano una azione di Fiat Auto e una azione di Fiat Industrial, che saranno dunque due aziende completamente separate e indipendenti; solo per caso e solo all’inizio avranno gli stessi padroni, che poi via via si diversificheranno.

Esistono dei precedenti? Ma certo che sì: uno dei più famosi è quello del gigante del tabacco e dell’alimentare Philip Morris, che all’inizio del nuovo millennio era un conglomerato con dentro non solo il business del tabacco (Marlboro, Benson & Hedges e così via) ma anche quello del cibo (Kraft, Nabisco). Tramite una serie di spinout, gli azionisti si sono alla fine trovati a possedere azioni di tre aziende diverse: Kraft per la parte alimentare, Philip Morris International per il tabacco fuori dagli Stati Uniti e Altria Group (classico nome da conglomerato anonimo) per il tabacco negli Stati Uniti e poco altro.

Qual è il senso di una mossa di questo genere? Lo trovate descritto in questo articolo finanziario; in pratica, è una mossa che si fa quando una grossa parte del tuo business è considerata “tossica”, ovvero pericolosa e potenzialmente disastrosa, dagli investitori. In questo caso, l’elemento tossico è il tabacco, anche in senso finanziario: i continui maxi-risarcimenti decisi dai tribunali e le crescenti restrizioni al consumo fanno pensare che, nel lungo termine, quello del tabacco sia un business morente. Il valore di Borsa del conglomerato era basso perché tutti avevano paura di comprare le azioni del tabacco, anche se in realtà dentro c’era una gigantesca e preziosa industria alimentare come la Kraft.

A questo punto, spezzando completamente le aziende, si è permesso a ogni azionista e investitore di fare le proprie scelte; chi non voleva più investire nel tabacco ha potuto vendere le azioni di Philip Morris / Altria e tenersi quelle di Kraft, azioni che non avendo più nulla a che fare con i rischi del tabacco hanno potuto salire di valore. Anche l’ulteriore suddivisione tra tabacco americano e tabacco “internazionale” ha lo scopo di isolare i rischi: se negli Stati Uniti i tribunali tengono sotto scacco la Philip Morris, in molte nazioni più piccole è la Philip Morris a tenere sotto scacco i tribunali e le istituzioni.

Capite quindi subito cosa voglia dire, sotto questa luce, lo spinout di Fiat Auto dal gruppo. Vuol dire che per l’auto è il bacio della morte; adesso, avendola separata da tutto il resto, può andare verso il proprio destino senza che ciò vada più a toccare il ben più lucrativo business dei veicoli industriali e del movimento terra e di quant’altro Marchionne vorrà mettere in piedi. E’ segno che Marchionne pensa che l’auto farà la fine del tabacco: un business progressivamente eroso in quanto sempre più maturo, sempre meno redditizio e sempre più soggetto a restrizioni legali (in questo caso, contro i danni da traffico privato). Il messaggio insomma è chiaro: nonostante tutte le rassicurazioni, Fiat si è messa nelle condizioni tecniche e operative di potersi liberare definitivamente del settore auto in qualsiasi momento.

In quest’ottica, le prospettive sono particolarmente nere per gli operai di Torino e degli altri stabilimenti italiani. Infatti, fin che la testa delle nostre fabbriche di auto stava in città, si poteva sperare in un po’ di buon cuore, un po’ di voglia di puntare su Mirafiori, un po’ di orgoglio italiano. Una Fiat Auto separata dal resto, invece, se la crisi perdura non potrà che fare la fine di tutte le altre piccole industrie automobilistiche sparite in questi anni; gli investitori poco fiduciosi scapperanno appena possibile, erodendo il valore dei titoli, fino a che l’azienda, non più in condizioni di tirare avanti da sola, sarà venduta a qualche grande gruppo straniero (oggi c’era già chi parlava di Volkswagen). In quest’ottica, nessuno avrà più alcun riguardo per le fabbriche torinesi (ammesso che qualcuno l’abbia mai veramente avuto, s’intende).

D’altra parte, è interessante scoprire che anche Philip Morris International si è trovata davanti a un problema del genere; e, per mantenere la redditività della propria produzione europea al riparo da alti costi e troppi impicci legali, ha passato gli ultimi anni a investire per sviluppare impianti in un posto a caso: in Serbia. Un paese perfetto: fuori dall’Unione Europea ma circondato da essa, con costi pari a un terzo di quelli italiani, sufficientemente piccolo da far sì che uno straniero che investe centinaia di milioni di euro possa fare più o meno ciò che vuole, e casualmente fiaccato dieci anni fa da tante belle bombe NATO, in quella logica di distruzione e ricostruzione di cui parlava Grillo l’altro giorno.

A questo punto l’idea che la Fiat si sia ispirata direttamente alle strategie di Philip Morris è piuttosto plausibile; ma se ancora non ci credete, basta prendere l’elenco dei consiglieri di amministrazione della Philip Morris, scorrere fino alla lettera M e… scoprire che c’è anche un certo Sergio Marchionne.

Dal suo punto di vista, Marchionne fa bene ad essere euforico; ha preso un bollito italiano come era la Fiat nel 2004, l’ha riportato a livelli di decenza, l’ha impacchettato insieme a un bollito americano come è la Chrysler oggi, e ora è pronto a vendere il pacchetto bello infiocchettato. I suoi azionisti internazionali, i suoi banchieri di New York e di Londra, saranno contenti; faranno probabilmente ancora dei soldi con un business che rischiava di esplodergli in mano. Chiaramente, Marchionne lavora per loro, non per noi.

Ma se Marchionne lavora per loro, chi lavora per noi? La città dipende tuttora da Fiat Auto per la sua sopravvivenza economica: chi si è preoccupato di che fine farà?

[tags]economia, fiat, marchionne, auto, philip morris, strategie, spinoff, serbia[/tags]

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martedì 14 Settembre 2010, 06:50

La marcia No Tav di Chiomonte

Sono un po’ di corsa e il wi-fi dell’albergo funziona a singhiozzo, ma ho finito di montare il video della marcia No Tav di sabato, da Chiomonte a Giaglione, e ve lo lascio volentieri: mostra come anche questa volta la partecipazione fosse oceanica. E’ stata una bella camminata su per i monti e ne è valsa proprio la pena… Naturalmente i giornali si sono subito messi a parlare delle questioni interne al PD, in modo da non dover spiegare perché la protesta continua e quali sono le sue ragioni; e che, francamente, di cosa pensi questa settimana il PD non ce ne frega più niente.

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giovedì 9 Settembre 2010, 13:40

Di nuovo No Tav

Puntuale come la riapertura delle scuole, riapre anche la lotta sulla TAV. Stando a un messaggio che circola in questi giorni, le forze dell’ordine avrebbero prenotato decine e decine di camere in tutti gli alberghi della Valsusa e della periferia di Torino (a spese nostre, ricordiamolo) a partire da lunedì.

Dunque, è probabile che “nella notte tra lunedì 13 e martedì 14 settembre si possano piazzare delle trivelle per dei sondaggi “leggeri” in uno di questi comuni: Torino, Rivalta, Rivoli, Villarbasse, Buttigliera Alta, Avigliana, Sant’Ambrogio… Venaus, Susa, Vaie, Chiusa San Michele”.

Naturalmente, qui non ci si fa sorprendere: è già in programma una manifestazione intitolata Prove tecniche di Resistenza, che culminerà sabato pomeriggio in una marcia da Chiomonte a Giaglione, a cui ci sarò anch’io.

Nel frattempo, quest’estate è uscita l’ennesima “imprevista” bomba finanziaria legata alla TAV: si sono accorti solo ora che i contratti con gli appaltatori fatti vent’anni fa contengono delle clausole per cui a questi ultimi viene facilissimo contestare i conti e chiedere cifre ingenti, in qualità di “compensazione” per costi aggiuntivi che naturalmente all’inizio non erano stati conteggiati. In altre parole, la costruzione della TAV nazionale (Torino-Salerno) rischia di costare sei miliardi di euro in più rispetto a quanto già pagato, che comunque è già molto di più di quanto originariamente preventivato.

Ricordiamo che la Corte dei Conti già due anni fa ha sottolineato che le promesse iniziali di autofinanziamento della TAV nazionale, via project financing dei privati, erano chiaramente campate in aria, e che ciò ha già creato, contrariamente alle assicurazioni iniziali, “un onere rilevantissimo per la finanza pubblica” (vedi pagina 49 della relazione). Aggiungiamoci ancora sei miliardate di euro… il rischio concreto è il fallimento del Gruppo Ferrovie dello Stato, che, ricordiamo, è una s.p.a. – così può essere gestita un po’ come si vuole senza sottostare ai controlli previsti per gli enti pubblici, incluso l’indebitarsi a piacere – ma è posseduta al 100% dal Ministero dell’Economia – dunque anche qui, alla fine, paghiamo noi.

In questo bello scenarietto, come si possa ancora pensare di costruire la TAV Torino-Lione è un mistero; lo scetticismo e le opinioni contrarie sono penetrate in grandi parti dell’opinione pubblica torinese, da Nuova Società a Radio Flash, dove ieri una conduttrice commentava apertamente la follia di quest’opera nonostante il PD torinese ne sia da sempre il maggior sostenitore. E lo dice uno che cinque anni fa ripeteva ciò che sentiva dai mezzi d’informazione, cioè che un’opera importante per il progresso veniva fermata da quattro montagnini facinorosi, e che poi proprio grazie a una migliore informazione ha cambiato idea su questa e su tante altre cose; in particolare, grazie al lavoro del movimento valsusino e grazie a Grillo che ne è stato il primo megafono… e così spero a mia volta di aver convinto tanti altri abitanti di Torino città.

Comunque, è ancora molto presto per cantare vittoria; la mobilitazione, e soprattutto l’informazione, sono ancora necessarie.

P.S. Ricordo anche che domani sera in via Luserna 8 alle 21 si tiene un incontro pubblico del Movimento mirato agli abitanti della Circoscrizione 3.

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mercoledì 8 Settembre 2010, 19:05

La moschea tedesca

Non dovrebbe esserci bisogno di fare un post per spiegare perché è una notizia positiva quella dell’apertura di una moschea a Torino, in via Urbino. E non è solo una questione di diritti, del fatto che tutte le religioni devono essere liberamente praticabili e trattate allo stesso modo dallo Stato.

L’integrazione passa innanzi tutto, prima ancora che attraverso il conseguimento di una stabilità economica e sociale tramite il proprio lavoro, attraverso la sensazione di essere rispettati e accolti. Chi, pur straniero, si sente parte della nostra comunità – si sente torinese – avrà molto più rispetto per gli altri, molto più interesse a preservare il quartiere in cui vive dal degrado, molta più voglia di contribuire alla crescita pacifica dell’intera città. Chi si sente emarginato, umiliato e messo da parte invece maturerà rabbia e frustrazione, che poi si scaricheranno in una reazione negativa verso ciò che lo circonda; e dover pregare in un garage o in un sottoscala, vedendosi negare uno spazio migliore, può essere una umiliazione non da poco anche per una persona non particolarmente religiosa.

Naturalmente ciò non vuol dire che tutto debba essere tollerato, che chiunque debba essere accolto indipendentemente da come si comporta, o che non ci debba essere attenzione alla possibilità di derive estremistiche dentro i luoghi di culto (di qualsiasi religione siano). La strada è sempre quella, distinguere tra chi rispetta la legge e la convivenza civile e chi invece le viola, per poi sostenere l’integrazione dei primi ed espellere gli altri.

Tuttavia, esattamente come le parrocchie sono ormai praticamente l’unica struttura di assistenza sociale per togliere dalle strade i ragazzi delle periferie, anche le moschee – tanto più in una cultura ancora meno laica della nostra – possono diventare un buon modo per gestire il territorio, per provare a far sì che anche tra gli immigrati chi si trova in difficoltà possa aggregarsi e trovare assistenza tra i compatrioti, invece di finire ad ubriacarsi per strada con la birra dell’unico punto di aggregazione per gli stranieri della zona – la moschea tedesca di via Aosta.

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