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Archivio per la categoria 'TorinoInBocca'


sabato 3 Gennaio 2009, 12:12

Potere e grandi opere

Tra la pila non molto spessa di libri che mi porto dietro per i periodi di vacanza, da qualche tempo c’era Sulla pelle viva, il libro di Tina Merlin che racconta la storia della tragedia del Vajont in modo giornalistico, dettagliando puntualmente, quasi giorno per giorno, la sequenza dei fatti che portarono al disastro.

L’ho letto ieri ed è molto interessante, non solo per il valore storico di testimonianza, per provare che tutti sapevano ma tacevano, che non si è trattato affatto di un disastro naturale ma del risultato dell’avidità e dell’incoscienza di industriali, tecnici e politici, perfettamente prevedibile ed evitabile. E’ interessante la lezione generale che se ne trae, sul rapporto tra potere e persone, tra centri e periferie, tra (presunta) modernità e tradizione, tra sviluppo e ambiente.

La cosa che più mi ha colpito leggendo quelle cronache è infatti stata la similitudine con tante altre cronache anche ben più recenti. I racconti sui carabinieri mandati dalla pianura a sorvegliare le preoccupate riunioni dei comitati valligiani o a espropriare con la forza i pascoli e i boschi necessari alla grande opera, o le testimonianze sui giornali democristiani o confindustriali che omettevano qualsiasi accenno ai pericoli del progetto ma pubblicavano continuamente paginoni per lodare l’ambizioso progetto fonte di sviluppo e di gloria nazionale, sono precisi identici ai racconti che trovate sui siti No Tav, che potete ascoltare da Venaus o dai presidi contro gli inceneritori, contro le discariche, contro la base americana, contro questa o quella infrastruttura decisa altrove per gli interessi di qualcun altro, e calata sulla testa di un territorio remoto dando per scontato che, in quanto remoto, esso abbia meno diritti di sopravvivere rispetto alla pianura, alla città, all’industria.

Naturalmente questo non vuol dire che tutte le grandi opere finiscano in tragedia o anche solo che siano tutte inutili e tutte esclusivamente finalizzate ad interessi economici privati; dimostra però come i meccanismi del potere siano sempre gli stessi, cioè una decisione presa in un palazzo da poche persone, sostenuta manipolando l’informazione, comprando a colpi di consulenze i dipendenti pubblici che dovrebbero vigilare e i tecnici universitari che dovrebbero valutare, e motivata pubblicamente con obiettivi di sviluppo, posti di lavoro e ricchezza, ma in realtà gestita badando soprattutto a massimizzare il profitto di chi la realizza, prima ancora delle ricadute positive per la collettività (qualora esistano).

Per questo mi ha fatto ancora più effetto vedere proprio in questi giorni su La Stampa – dopo la spaccatura del tavolo di discussione tra sindaci e governo – una serie di paginoni ancora sulla Tav, pieni di interviste al tecnico pro-Tav Virano (e se è tecnico vuol dire che è imparziale e degno di fiducia, no?), di sdegno di Chiamparino e Bresso, di illazioni sui fini elettorali della protesta, persino di aperte minacce del tipo “il PD non supporterà più le candidature dei sindaci No Tav” (nota: la SADE riuscì a superare l’opposizione locale alla costruzione della diga del Vajont quando acquistò a peso d’oro i terreni del sindaco di Erto, fino ad allora leader della protesta, dimostrando a chi resisteva che tutti erano in vendita).

In tutti questi paginoni, chili e chili di carta, La Stampa si è dimenticata di raccontare alcuni dettagli, per esempio che i rappresentanti dei sindaci della valle hanno lasciato il tavolo perchè Virano è andato a presentare all’Unione Europea un documento a nome anche loro che approvava il nuovo progetto della Tav, ma si era “dimenticato” di discuterlo con loro e di dirgli che semplicemente leggendolo lo stavano approvando. O che non sono i sindaci che hanno lasciato l’Osservatorio sulla Tav in un impeto di distruttività, ma lo stesso Virano che ha deciso di chiuderlo dimettendosi perché tanto i valligiani sono stati gabbati e il tavolo non serve più, badando bene però a rovesciare la frittata. Ma cosa volete che sia…

Per questo fa un po’ ridere vedere sullo stesso giornale un dibattito tra Meo e Mantellini (addirittura) sul tema “Internet, facendo circolare le informazioni, avrebbe potuto fermare Hitler?”. Sarà… vediamo se perlomeno Internet riuscirà a far circolare qualche informazione un po’ meno manipolata su ciò che succede nel giardino di casa nostra!

[tags]vajont, merlin, tav, no tav, la stampa, informazione, potere, grandi opere[/tags]

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domenica 28 Dicembre 2008, 10:38

I cantieri anticrisi

Anche oggi sul giornale cittadino c’è un articolo cementizio: sotto il titolo propagandistico, “Via ai cantieri anticrisi”, si esalta il nuovo piano di far buttare giù a privati tutta la vecchia zona industriale compresa tra via Monginevro, via Caraglio, via Lancia e via Issiglio, con la ristrutturazione in appartamenti del grattacielo Lancia e la costruzione di due “torri di 17-18 metri”.

Dico anche, perché ce n’era un altro solo cinque giorni fa, che raccontava dell’imminente costruzione di un “torrino” di 24 metri in pieno centro, addirittura su richiesta della Soprintendenza alle Belle Arti, che stando al giornale troverebbe importante preservare l’architettura storica del nostro centro costruendoci un nuovo palazzo di otto piani.

Se è veramente così, attendiamo gli esiti del test del palloncino per il soprintendente; ma perché tutta questa insistenza sulle mille nuove torri di Torino? Che poi, se leggete con attenzione, le due nuove “torri di 17-18 metri” dell’area ex Lancia sarebbero due normalissimi palazzi di sei piani, alti come quelli che esistono lì intorno da quarant’anni, o anche di meno. Tuttavia, proprio in queste settimane stanno iniziando i lavori per il famigerato grattacielo Intesa-Sanpaolo di Porta Susa, osteggiato dai due terzi dei torinesi e disperatamente voluto da Chiamparino, sia per amicizia con i vertici della banca (almeno prima che cacciassero gli ultimi manager ex Sanpaolo e che la banca diventasse totalmente milanese), sia per l’urgenza di incassare trenta milioni di euro di oneri di urbanizzazione, altrimenti il Comune rischiava di non avere i soldi per pagare gli stipendi. E allora, bisogna far sembrare a tutti i costi che costruire “torri” sia una cosa giusta, bella, talmente positiva che non può mancare in alcuna nuova speculazione edilizia, in centro o in periferia che sia.

Il resto dell’articolo de La Stampa è pubblicità sfacciata per il palazzinaro di turno (non so chi sia, se sia la solita De-Ga o altri dei vari giri torinesi): l’area viene presentata come “all’angolo dei corsi Trapani e Rosselli” (cioè davanti al parco e vicina alle Gru e alle tangenziali) quando in realtà è chiusa dentro le strette vie del quartiere; e si prospetta il solito fantastico scenario dell’area “tutta pedonale” che porta a piedi fino nel parco, che poi diventa “tutta pedonale tranne le strade perimetrali”, e trattandosi di un singolo isolato ci si chiede perché avrebbe dovuto essere diversamente.

Insomma, lo spottone prevede la creazione nell’immaginario collettivo dell’idea di un’area ampia, piena di verde, libera dalle costrizioni cittadine, anche quando poi, come succede a chi ci ha creduto e ha comprato le case sulla Spina 3 (via Livornocorso Mortara), i servizi latitano, il presunto parco si rivela una landa desolata piena zeppa di rifiuti industriali cancerogeni, e bisogna costituirsi in comitato e protestare per lustri per ottenere che costruttori e Comune facciano almeno in parte quanto promesso.

Ma questo che importa? La Stampa conclude l’articolo con l’esaltazione del cemento, con una girandola di aree industriali trasformate in palazzine, naturalmente per il bene di tutti e “contro la crisi”. In realtà, non è chiaro chi mai comprerà tutti questi appartamenti – nelle zone della Spina 3, per esempio, moltissimi sono ancora invenduti – né quale sarà il risultato tra venti o cinquant’anni della cementificazione di ogni residuo angolo non densamente abitato di Torino; né se davvero, nel lungo termine, tale cementificazione contribuirà ad alleviare la crisi economica, o piuttosto la incrementerà, creando nuovi problemi di traffico, di inquinamento, di urbanistica, di malattie – problemi che hanno un costo non trascurabile – e nel frattempo riducendo la bellezza e la vivibilità della città e diminuendone l’attrattività.

Qui, l’unica crisi che si vuole evitare è quella delle casse di Chiamparino, e del giro di amici dei salotti bene che con quelle casse ci vive. Nella testa di una giunta comunale che un mese fa pensava di vendere la Mole per far cassa, la frase chiave dell’articolo è una sola: il Comune “si aspetta di incassare altri 3-4 milioni in contanti tra oneri di urbanizzazione rimanenti e oneri sul costo di costruzione. Denaro che, almeno in parte, il Comune ha chiesto di poter incassare al più presto.”. L’importante è nascondere il buco, i tre miliardi di debito; riuscire a tamponarli alla bell’e meglio ancora per un paio d’anni, fino al 2011, quando ci saranno nuove elezioni e un altro sindaco. Chiamparino, si sa, andrà a Roma; dopo di questo, che i torinesi se la vedano loro.

[tags]torino, costruzioni, cemento, urbanistica, chiamparino, spina 3, lancia, la stampa, informazione manipolata[/tags]

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lunedì 22 Dicembre 2008, 16:09

La folla folle di Natale

Gli ultimi giorni prima di Natale sarebbe il caso di decretare il coprifuoco: infatti uscire e andare in giro per la città diventa sempre un delirio. Quest’anno confidavo nella crisi, e invece niente: sono lo stesso tutti per la strada a fare acquisti.

E così, me le sono viste tutte, a cominciare da una signora in SUV che qualche giorno fa percorreva via Pilo (una via stretta dove le due auto nei sensi opposti passano a malapena) a circa cento all’ora, ovviamente stando nel bel mezzo, perché aveva visto verde il semaforo due isolati più in là: abbiamo mancato il frontale solo perché ho inchiodato e mi sono buttato verso un portone, e la signora non ha nemmeno rallentato.

Qualche giorno dopo è stato il turno di un motociclista che, arrivando da via Fratelli Bandiera, ha pensato bene di svoltare a sinistra in corso Ferrucci col rosso pieno, sfruttando il fatto che sull’altra carreggiata non arrivava nessuno: per cui ha affiancato dal centro strada il flusso di auto in direzione largo Orbassano, percorrendo il corso completamente contromano. Peccato che dopo un po’ stessi arrivando io, e il motociclista prima ha fatto l’indifferente, poi, capendo che non mi sarei spostato, è rientrato in mezzo alle auto in corsa tagliando la strada a tutti.

Lasciamo perdere lo splendido tizio che, mentre ero in mezzo a una lunga fila di auto ferme al semaforo della via che va dalle Gru a via Veglia, ha sorpassato tutta la coda contromano, salvo poi rischiare il frontale con le auto che avevano cominciato ad arrivare in senso opposto; e parliamo della geniale signorina ferma con le quattro frecce davanti a un bar di via Tripoli nel pieno doppio caos del traffico da dopopartita e da mercato di corso Sebastopoli (a proposito: ormai è frequente ma sempre geniale l’idea di tenere il mercato in corso Sebastopoli in contemporanea con le partite all’Olimpico). Centinaia di auto cercavano disperatamente di defluire, ma lei doveva proprio fermarsi lì.

E di gente nelle preferenziali ne ho vista ovunque, ma cosa dire del tizio che, dopo aver parcheggiato nel piccolo spazio (per taxi, credo) che sta in piazza Rivoli all’inizio di corso Trapani proprio sopra lo sbocco del cavalcavia, ha cercato di reimmettersi nella rotonda della piazza percorrendo contromano la carreggiata del bus, finendo faccia a faccia con un 2 che stava uscendo dalla rotonda? (Almeno guardare che non arrivi il bus pare brutto?)

Secondo me sono tutti pazzi; d’altra parte, essendo da quelle parti, l’altro giorno sono andato da Eataly a cercare un regalino mangiabile. Non ho comprato nulla, non perché non potessi, ma perché i prezzi mi sono sembrati immorali: per dire, mezzo chilo di normalissima pasta confezionata (naturalmente fatta a mano nel presidio di San Gennaro Ncoppamunnezza) costava sei euro e mezzo. E sì che qualche indizio sul fatto che sia tutta una operazione di marketing dovrebbe essere evidente, tipo il fatto che vendano anche lo zucchero industriale Eridania (ex Montedison) e il cioccolato Novi: buono eh, ma pur sempre lo stesso che trovi al supermercato a metà del prezzo. Comunque, vedere torme di borghesotti firmati uscire da Eataly coi carrelli pieni mi fa pensare che per la borghesia italiana le tasse siano ancora troppo basse: IVA al 40 per cento su tutto lo slow food, presto!

[tags]natale, regali, consumismo, traffico, torino, follia, folla, slow food, eataly, lusso, tasse[/tags]

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lunedì 15 Dicembre 2008, 17:50

Porta Susa Sotterranea

Forse non ve ne sarete ancora accorti, perché ne ha parlato soltanto ieri sera il TG Regionale del Piemonte con un servizio, ma oggi è stata ufficialmente aperta la nuova stazione di Torino Porta Susa. Si tratta di un evento storico: è da venticinque anni che le Ferrovie, con i tempi biblici dello Stato italiano, lavorano alla realizzazione del passante ferroviario e della nuova stazione. Il servizio di ieri sera era piuttosto celebrativo, ma si è dimenticato di dire alcune cosette – per esempio, se tutti i treni ora fermano là sotto oppure no. Pertanto, oggi all’ora di pranzo, passando in zona, sono andato a fare un piccolo reportage.

Il risultato è stato scoprire che, come intuibile, la notizia dell’apertura è un tre quarti di bufala: al momento, la stazione è servita soltanto da nove treni al giorno, con destinazione Bra o Chieri; tutto il resto transita dalla stazione vecchia. Infatti, sono aperti soltanto i due binari 5 e 6, e soltanto in direzione Torino Lingotto; il resto del passante e della stazione è ancora da finire, e in certi casi proprio da costruire; anche dentro la parte aperta della stazione, incuranti degli scarsi passeggeri (ok, quando ero lì l’unico treno in un’ora era il regionale per Chieri delle 13:26), ci sono operai ovunque che montano piastrelle e sistemano cavi.

Sull’orario Trenitalia, comunque, la stazione viene indicata a parte, con nome Torino Porta Susa Sotterranea, o abbreviato Torino P.SS; potete quindi effettuare ricerche specifiche da o per essa, anche se generalmente vi verrà proposto di “cambiare” andando alla (normale) Porta Susa mediante “Percorso interno alla stazione”.

Anche solo arrivare alla stazione è difficile: sono aperti soltanto tre ingressi. Uno è identificato come “Ingresso C corso Inghilterra” e consiste in una scalinata (niente scala mobile) sul marciapiede di corso Inghilterra circa all’angolo di via Susa; il secondo, sempre sul marciapiede di corso Inghilterra, si chiama “Ingresso D corso Inghilterra” è circa all’altezza di via Duchessa Jolanda, verso via Grassi, e ha anche la scala mobile (solo in salita) e l’ascensore. Esiste infine un terzo ingresso, che rappresenta l’unica forma di comunicazione con il centro di Torino e con Porta Susa di superficie: si trova nel corridoio dell’ingresso D, dal lato opposto, dove una scaletta di una dozzina di gradini (segno che la stazione è davvero poco in profondità) sbuca direttamente all’estremità sud del marciapiede del binario 3 di Porta Susa, ben oltre la fine della pensilina. Grazie a questo trucco, le due stazioni sono intercomunicanti; ma l’unico modo che avete per sbucare in piazza XVIII Dicembre è riscendere nel sottopasso di Porta Susa vecchia e uscire di lì.

Comunque, sono riuscito a farmi un’idea della struttura della nuova stazione quando sarà completata. I marciapiedi (veramente lunghissimi) hanno l’estremità nord all’altezza del vecchio cavalcavia di Porta Susa, e l’estremità sud all’incrocio di corso Vittorio. Trasversalmente, a intervalli regolari, ci saranno quattro passaggi con le uscite: il D e il C sono già attivi, anche se il C è aperto solo dal lato di corso Inghilterra; il B e l’A sono ancora chiusi, e sul binario si vedono chiaramente pareti di cartongesso che bloccano gli accessi. Il B sarà all’altezza di via Cavalli, e sul marciapiede di corso Inghilterra, davanti all’ex Telecom, si vede lo sbocco già quasi completo; l’A sarà quasi all’angolo di corso Vittorio.

In verticale, la stazione è su due soli piani: quello dei binari, e quello del corridoio di accesso, il cui soffitto è a livello del terreno, e che ha un’altezza da parcheggio sotterraneo. Il tutto è veramente squallido: infatti, pensate che il corridoio C e il corridoio D non comunicano nemmeno – per andare da uno all’altro bisogna passare dai marciapiedi dei binari – e si tratta comunque di semplici passaggi, vuoti di tutto e claustrofobici (sono decisamente più bassi degli ingressi della metro). Dentro, non c’è assolutamente niente: non dico un bar o un’edicola, ma nemmeno cartelli, pubblicità, macchinette automatiche, cestini della spazzatura… in tutta la stazione non c’è nemmeno una toilette. Ci sono solo dei pannelli per gli orari, la maggior parte dei quali sono vuoti; e qualche sparsa obliteratrice (ai binari però, dove il cartello ne indicava la presenza, erano ancora da mettere). Se seguite le frecce per le biglietterie o per la stazione della metro vi ritrovate all’uscita sul binario 3, per andare alla vecchia stazione!

A livello binari, almeno, hanno cercato di ingentilire il tutto con grandi pannelli che riproducono foto delle bellezze di Torino, anche se diventeranno velocemente grigi e polverosi; l’insieme però mette davvero tristezza. Certo, è tutto provvisorio; al momento, di fatto, non ci sono nemmeno i treni e i passeggeri; soprattutto, il grosso della stazione – con gli spazi commerciali, le biglietterie, e il promesso tetto di vetro – si troverà tra gli ingressi A e B, cioè tra via Cavalli e corso Vittorio, ed è tutto ancora da costruire.

Le parti da costruire, però, sono ancora davvero troppe: mancano i primi quattro binari, e manca tutto il fabbricato viaggiatori vero e proprio. Manca il collegamento con la metro, e temo che l’apertura della fermata M1 Porta Susa sia tutt’altro che vicina: infatti, essa si trova dall’altro lato del passante, e per arrivarci bisognerebbe scavare il passaggio dove ora ci sono i binari tuttora attivi in superficie. Ho come il sospetto che prima debbano finire il passante a nord, permettendo di usare i binari sotterranei per tutte le direzioni; poi dovranno dismettere Porta Susa vecchia; poi potranno cominciare a scavare gli altri quattro binari della nuova stazione e l’area che si troverà sopra di essi, incluso l’accesso alla metropolitana e le uscite lato corso Bolzano. Insomma, campa cavallo.

In compenso, all’estremità nord della stazione il tunnel sembra già fatto, e si nota la forte pendenza con cui esso comincia a scendere, visto che sopra di esso ci deve stare la discesa del sottopasso stradale con cui corso Inghilterra eviterà piazza Statuto. Tuttavia, gli scavi sotto la Dora stanno finendo in questi giorni e non so quanto ci voglia ancora per aprire i binari 5 e 6 verso nord, anche solo in maniera provvisoria. Ricordo che la sistemazione definitiva prevede la costruzione di altre due stazioni sotterranee, Dora e Rebaudengo, prima che i binari riemergano all’altezza di corso Grosseto: se per aprire Porta Susa Sotterranea verso nord dobbiamo aspettare pure questo… campano intere generazioni di cavalli.

In breve, mi è chiaro che l’apertura di questi due binari ha due significati: il primo è una sperimentazione sulla pelle dei chieresi, scelti come cavie (il regionale delle 13:26, pur essendo l’unico treno in un’ora, è riuscito a partire con dieci minuti di ritardo); il secondo è poter dire, sotto Natale ed entro la fine dell’anno, che qualcosa si è mosso. Certo che se voi foste un pendolare di Chieri che arriva in stazione con la metropolitana, vi toccherebbe un percorso a ostacoli degno di miglior causa: scendete dalla metro, salite in superficie, aprite l’ombrello, arrivate a Porta Susa vecchia, chiudete l’ombrello, prendete il sottopassaggio, risalite dagli strettissimi gradini del binario 3, vi incamminate verso sud, riaprite l’ombrello, arrivate al nuovo ingresso, chiudete l’ombrello, fate il terzo sottopasso del percorso e scendete al binario… e tra l’altro, anche qui le scale mobili sono solo in salita e peraltro ancora quasi tutte ferme. In più, per poter attestare un po’ di treni nella nuova stazione, hanno ri-prolungato delle tracce orarie del Chieri-Rivarolo che in questi anni di lavori erano state interrotte tra Lingotto e Porta Susa, con risultati talvolta comici: come il treno che arriva da Chieri alla sotterranea alle 16:51 quando la sua prosecuzione per Rivarolo parte dalla superficie alle 16:50.

Chiudendo, vi lascio con un po’ di foto e con il filmino, ripreso da circa metà stazione e un po’ sfocato, del regionale che entra in stazione a passo di lumaca: il contrasto tra il trenino GTT e la lunghezza del tunnel, persino se appiattita dall’obiettivo, è stridente.

pss.jpg

[tags]torino, porta susa, sotterranea, passante ferroviario, ferrovie, treni, stazione, trenitalia, gtt[/tags]

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domenica 14 Dicembre 2008, 16:17

Regali di Natale

È passata abbastanza sotto silenzio, la decisione coordinata di Comune e Regione di destinare un milione di euro di contributi pubblici a fondo perduto per rifare facciate e decori di parecchi palazzi privati in San Salvario.

Ovviamente, La Stampa l’ha presentata come una grande idea, ma è invece il solito copione: i nostri amministratori scelgono arbitrariamente dei privati a cui regalare dei soldi. Qui, poi, la cosa è ancora più odiosa, perché ad essere premiati con il regalo sono proprio quei privati che sono venuti meno al proprio dovere, a cui centinaia di migliaia di torinesi adempiono regolarmente con i propri soldi, di mantenere il decoro esterno della casa di loro proprietà. Insomma, è l’ennesimo premio a chi si è comportato peggio, abitudine culturale a cui la nostra ex sinistra (adesso non si sa bene che sia) non sembra proprio voler rinunciare.

Ma c’è di peggio: infatti, molte delle case di San Salvario sono di proprietà di individui senza scrupoli, che li affittano a caro prezzo, spesso in nero, ad immigrati anche irregolari, magari pigiati in sei in una stanza. Nell’articolo non si specifica quali siano esattamente le case in questione, ma si parla genericamente di un meccanismo per evitare il problema: “Ai proprietari andrà il massimo dell’aiuto economico, a chi specula sfruttando il degrado e l’emarginazione affittando tuguri alle fasce più deboli non arriverà un soldo”, dice l’assessore Ilda Curti. Peccato che questa frase non abbia alcun senso, visto che “chi specula sfruttando il degrado” è anch’esso un proprietario, altrimenti non potrebbe farlo; e quindi, non si capisce cosa succederà.

Resta il dubbio fondamentale: in genere, chi lascia andare un palazzo al totale degrado non è chi ci abita, ma chi affitta gli alloggi solo per soldi e cercando di massimizzare il profitto; è naturale quindi attendersi che i palazzi più degradati siano proprio quelli di chi specula affittando agli immigrati.

C’è però un dubbio ancora più serio: da anni, a Torino, si dice che la famosa De-Ga – l’azienda edile di cui abbiamo parlato in passato per aver ricevuto appalti pubblici privilegiati – abbia fatto i soldi acquistando vent’anni fa moltissimi alloggi nella zona del quadrilatero romano, proprio prima che l’allora sindaco Castellani – parente di uno dei soci della De-Ga – investisse abbondanti soldi pubblici nella riqualificazione della zona, facendo schizzare il valore degli alloggi stessi.

Bene, come toglierci allora il dubbio che qualche società di amici degli amici dell’attuale cupola cittadina abbia fatto incetta di alloggi a San Salvario in questi anni, in attesa dell’inevitabile gentrificazione dell’area, sostenuta con i soldi di tutti?

In generale, ha senso, davanti a un mercato immobiliare che per moltissime persone determina il valore di una parte preponderante del proprio patrimonio, che gli amministratori pubblici investano del denaro (non loro, ma nostro) a favore di certe aree e non invece di altre, al punto da sostituirsi a spese che sono per definizione di competenza dei proprietari?

[tags]torino, san salvario, riqualificazione, de-ga, contributi, politica[/tags]

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sabato 13 Dicembre 2008, 11:06

Lascia stare i boh

Visto che oggi è sabato e non ci legge nessuno, possiamo dedicare un post a uno degli argomenti più tabù che ci siano in Italia: la pedofilia nella Chiesa Cattolica.

L’occasione viene dall’articolo di cronaca de La Stampa che riporta a grandi lettere “SCAGIONATI”, a proposito di quattro preti accusati di molestie e pedofilia da parte di un loro ex allievo (da ragazzino) e poi ex prostituto a ore. L’articolo è un capolavoro di “informazione” all’italiana, di mezze verità e di giri di parole.

L’accusatore è Salvatore Costa, un ventiquattrenne che, buttato fuori di casa a quattordici anni, fu accolto dai preti; poi mise su famiglia, cominciò a guadagnare prostituendosi con uomini e per arrotondare ricattò questi preti. Quando fu arrestato per estorsione, rispose con le accuse di essere stato violentato da due preti sin da ragazzo, giustificando così anche la propria asocialità.

I primi tre paragrafi sono dedicati a buttare fango sull’accusatore (che peraltro, oggettivamente, deve essere un tipo poco raccomandabile): se ne scrivono di tutti i colori, cioé che si contraddice, che è un ricattatore professionista, che sembra uscire dai Miserabili di Victor Hugo, che è un irresponsabile e un questuante regolare. Probabilmente è tutto vero, ma in mezzo a questo viene nascosta la seguente, splendida frase, abilmente interrotta da un punto a capo:

Circostanze che hanno reso incerto che allora Costa fosse, in ogni caso, ancora minorenne. La procura non ha ritenuto di chiederne il processo anche per calunnia. E pure questo è un fatto significativo.

Vuol dire che Costa non è stato ritenuto sufficientemente credibile perché l’inchiesta nei confronti dei sacerdoti procedesse.”

In pratica, si dice, cercando di non farlo notare, che una delle ragioni per l’archiviazione è che non si è certi del fatto che gli eventuali rapporti siano avvenuti quando l’accusatore era ancora minorenne e costituiscano quindi un reato, visto che, in sé, la prostituzione omosessuale tra maggiorenni consenzienti è assolutamente legale. Insomma, scagionati, archiviati, ma non è detto che sia perché i rapporti sessuali in questione non siano mai avvenuti: l’articolo non ce lo dice.

In più, si dice anche un’altra cosa: che Costa non è stato denunciato per calunnia, e questo “è un fatto significativo”. Perché? Beh, perché se le sue accuse fossero state palesemente false, allora egli sarebbe incorso nel reato di calunnia, che avviene quando qualcuno davanti ai giudici “incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato” (art. 368 del codice penale). Se non c’è stato nemmeno il dubbio della calunnia, vuol dire che certamente Costa non ha inventato niente, che le cose che ha raccontato di aver vissuto sono vere; se mai, non costituiscono reato.

E invece, cosa scrive l’articolo? L’esatto opposto: “vuol dire che Costa non è stato ritenuto sufficientemente credibile”! Io ci ho pensato un po’, e poi ho capito: quel “vuol dire”, grazie al punto a capo, non è riferito alla frase precedente, ma a tutto il paragrafo, che racconta dell’archiviazione: quindi “l’archiviazione vuol dire”, mentre cosa voglia dire la mancata denuncia per calunnia non ce lo spiegano. Eppure, messo così, è fatto ad arte in modo da confondere le idee a proposito della mancata denuncia.

Se continuate a leggere, infatti, cominciate a scoprire alcune cosette che l’articolista non può non dirvi. Si parte dal primo prete, che ha ammesso “qualche abbraccio e carezza”, e subito si precisa che la cosa è confermata dall’accusatore e che non si è mai andati oltre; seguono poi due parametri per dimostrare che, comunque, la Chiesa ha già punito abbastanza quegli abbracci.

Del secondo, l’ex economo del Valsalice, ci dicono per prima cosa che è stato già trasferito a Roma, sempre per mettere bene in chiaro che il Vaticano non tollera queste devianze (da cosa, poi?). Solo dopo, stabilita la scomunica, ci spiegano che il sacerdote ha dichiarato apertamente di essere gay e di frequentare regolarmente prostituti a pagamento, ovviamente adulti. Ci dicono chiaramente che non è reato (strano, visto come i giornali trattano normalmente i gay, facendo sembrare reato anche solo girare senza maglietta su un carro allegorico) e che il fatto che abbia dato soldi e trovato lavoro a Costa “non vuol dire nulla” e non prova che ci sia mai andato a letto. A me, peraltro, questo prete che ammette le cose sta già simpatico, effettivamente non commette reati e perlomeno ha il coraggio di vivere la propria sessualità: in un ambiente pieno di sessuofobi non deve essere facile.

L’ultimo prete è quello che avrebbe violentato Costa da ragazzo; la procura ha indagato “con scrupolo” e ha provato che le date non tornano, e il prete non era a Moncalieri quando diceva Costa. Ovviamente non ci viene detto se sia che la violenza non è mai avvenuta, oppure che Costa ha indicato il prete sbagliato e non si sa chi sia quello vero.

Comunque, tutto a posto? No, perché proprio a questo punto, quando la maggior parte dei lettori ha già smesso di leggere da un pezzo, arrivano le ultime due righe, riferite a questo prete: “Nel suo computer erano passate immagini pedopornografiche. Un’accusa in più, anch’essa da archiviare: «Non è pacifico che la sola visione integri il reato».”

Scusa? Chiaro che qualcosa bisognava dire: tutti i giornali avevano messo in risalto, all’epoca, il reperimento di immagini pedofile sul PC di questo prete. E quindi, che ci dice La Stampa? Che era solo “un’accusa in più” (in mezzo a tutti i vaneggiamenti ricattatori di questo ragazzo, che però non sono calunniosi) e che era da archiviare perché… sì, il prete aveva l’hard disk pieno di immagini pedopornografiche, e le guardava regolarmente, immagino seduto sul divano fumandosi un sigaro, così per passatempo. Ma “non è pacifico” che il fatto di possedere e guardare immagini pedopornografiche sia un reato.

Alla buon’ora: personalmente, sono perfettamente d’accordo che guardare una immagine, di qualsiasi genere essa sia, non dovrebbe essere reato. Ma siamo nel Paese dove la Polizia Postale, mediante un semplice fax, può ordinare a tutti i provider di censurare un sito che non dico mostri queste immagini, ma addirittura parli della pedopornografia in termini non esclusivamente censori; nel Paese dove il semplice fatto che una bambina di pochi anni contragga una malattia sessuale simile a quella del padre è sufficiente per spezzare la famiglia, mandare madre e bimba in comunità e mettere lui sotto processo, anche se poi dopo anni si scopre che era soltanto colpa di un asciugamano condiviso. E poi mi venite a dire che potrei riempirmi il computer di pedofilia e pure guardarla regolarmente senza commettere alcun reato? Me lo segno, e la prossima volta lo dico a Vulpiani

Il problema della pedofilia è ovviamente gravissimo, ma attorno ad esso c’è una chiara isteria, fomentata da persone che “amano” i bambini (in genere senza averne) così come altri “amano” i cani, la Madonna, Ronaldinho, Tiziano Ferro o qualsiasi altra persona o categoria possa diventare un oggetto d’amore lontano, idealizzabile e privo di volontà indipendente, tale da soddisfare il nostro senso di incompletezza. Tuttavia, quando si passa a parlare di preti – e di preti pedofili, nonostante i media ne parlino il meno possibile, ne saltano fuori continuamente – magicamente tutto questo non è più un problema; anzi, bisogna essere comprensivi e garantisti ad oltranza.

Per fortuna, la Chiesa Cattolica è ben più di questo (tra l’altro colgo l’occasione per segnalare il blog di don Piero Gallo, che meriterebbe maggior seguito), ma si caccia nei guai da sola, con questo persistere nell’ignorare il naturale istinto sessuale dei propri membri; e se i preti non possono sfogarlo, come tutti gli altri, con una compagna o con un compagno adulto, finiranno necessariamente per sfogarlo con chi gli capita a tiro, partendo dai bambini dell’oratorio.

Personalmente, ai preti presunti santi che secondo la favoletta vivono cinquant’anni in castità grazie alla superiore forza della fede nel Signore, preferisco i preti boh come il secondo di cui sopra, che sopportando la vergogna e la discriminazione sul proprio posto di lavoro hanno il coraggio di vivere la propria sessualità. A questo punto, però, è davvero ora di chiedersi quando la Chiesa smetterà di produrre pedofili, omosessuali repressi e omofobi deviati; perché poi le conseguenze ricadono su tutta la società.

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martedì 2 Dicembre 2008, 14:29

Torino nera

Per carità, qui siamo amanti della scienza; ma questa notizia ha dell’incredibile. Apparentemente è un triste episodio di cronaca: in via Po, all’angolo con piazza Vittorio, un disabile improvvisamente perde il controllo della propria auto, che sbanda e finisce sul marciapiede, sotto i portici, travolgendo i tavolini del dehors di un bar e quasi uccidendo una ventenne. Il guidatore non si capacita e non sa spiegare come sia successo.

La cosa inquietante è che il luogo e il bar sono esattamente gli stessi dove poco più di un anno fa un folle depresso, credendo di scorgere seduto a prendere un caffé l’odiato capoufficio, aveva diretto l’auto sul marciapiede, sotto i portici, travolgendo gli stessi tavolini e quasi causando una strage.

Naturalmente, voi che non usate le biopalle penserete a una semplice coincidenza; noi torinesi, invece, sappiamo che qui il diavolo è di casa, e alle coincidenze non crediamo. Se volete, lanciatevi pure in uno studio scientifico su come il particolare colore dei tavolini di questo bar, accoppiato alle forme geometriche dei portici, spinga irrazionalmente i guidatori d’auto a dirigervisi contro a tutta velocità; nel frattempo, noi cominciamo ad attrezzarci perché, in caso di ulteriori fenomeni, l’intero edificio venga prontamente trasportato a Lourdes.

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giovedì 27 Novembre 2008, 13:13

Lasciati a terra

Stamattina sono a casa con la febbre a guardare il collegamento live della CNN da Bombay, con l’inviata speciale che parla e poi ogni tanto scoppia qualcosa nell’albergo dietro le sue spalle, lei scappa a gambe levate, poi torna davanti alla camera fissa e ricomincia a parlare. In effetti, sono contento di avere infine deciso di non andare all’Internet Governance Forum che inizia la settimana prossima a Hyderabad!

Proprio per via dei miei frequenti viaggi, comunque, volevo dedicare un post all’aeroporto di Caselle. Chi non vola spesso forse non si rende conto dei problemi; vede soltanto gli ampi spazi appena rifatti per le Olimpiadi e i vantaggi di un piccolo aeroporto, come la velocità nel recuperare i bagagli e la possibilità di fare il check-in all’ultimo minuto (35 minuti prima del decollo, per la precisione).

Il problema, comunque, è proprio quello: Caselle è piccolo e poco servito in rapporto alle potenzialità di Torino, e questo è dovuto alla politica suicida degli amministratori e dei politici torinesi. Forse non sapete infatti che Sagat, la società che gestisce l’aeroporto, non è interamente pubblica, ma è posseduta al 46% da soci privati, di cui il principale è Edizione Holding ovvero Benetton (socio anche della nuova CAI, delle autostrade e di tante altre cose). Cosa interessa ai soci privati? Fare soldi, ovviamente. E cosa interessa ai soci pubblici?

In teoria dovrebbe interessare il fatto che l’aeroporto svolga un servizio utile ai cittadini, abbia costi accettabili e permetta alle aziende torinesi di spostarsi a costi accettabili e ai turisti internazionali di arrivare a Torino. In realtà, ai soci pubblici interessa soltanto piazzare qualche amico – ad esempio il vicepresidente Sagat Marco Scarabosio ha ottenuto la poltrona dopo essere stato trombato alle ultime regionali nella lista Bresso – e fare soldi, visto che hanno già indebitato le amministrazioni pubbliche oltre ogni decenza e hanno bisogno di denaro da spendere.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: i passeggeri sono addirittura in calo, e Caselle, aeroporto della quarta area urbana d’Italia, è il dodicesimo per traffico (dati di ottobre 2008): persino Pisa e Bologna fanno molto più traffico, mentre il numero di passeggeri di Caselle è sugli stessi livelli di realtà molto più piccole come Verona, Cagliari e Bari.

D’altra parte, da Torino non ci sono i voli: capitali economiche o politiche come Zurigo, Berlino, Amsterdam, Lisbona, Bucarest, Vienna, Dublino hanno voli su Pisa, Bergamo o Venezia, ma nulla da Torino. Ormai esiste un volo per New York persino da Pescara, ma non da Caselle. Quando i voli ci sono, come per Parigi o Madrid, sono gestiti in monopolio da compagnie full price, con il risultato che conviene comunque andare a Malpensa o a Bergamo per spendere la metà.

A Torino, infatti, mancano le low cost: ma non perché loro non siano interessate. Semplicemente, per avere le low cost il gestore aeroportuale deve abbassare i prezzi praticati per ogni atterraggio e decollo, e co-finanziare l’apertura delle rotte: e questo, nel breve termine, abbasserebbe gli utili. Meglio quindi non fare nulla, tenere i prezzi alti, far sì che parcheggiare nel multipiano costi 22 euro al giorno (tre euro dieci minuti nella sosta breve) e che i voli da Torino costino cari, tanto li paga la Fiat.

Ed è proprio questo uno dei problemi: una delle ragioni per cui le varie Motorola se ne vanno da Torino è anche il costo molto più elevato di qualsiasi spostamento debbano fare i suoi dipendenti!

Inoltre, ormai i turisti si muovono essenzialmente con le low cost: quindi i nostri amministratori che spacciano continuamente il turismo come salvezza economica del Piemonte, come pensano che questi turisti possano arrivare? Ryanair e Easyjet arrivano a Bergamo, a Treviso, a Pisa, e quindi i turisti andranno in Lombardia, in Veneto, in Toscana; perché dovrebbero venire in Piemonte?

C’è persino chi sospetta che in tutto questo ci siano delle manovre politiche nazionali: siccome la parola d’ordine di questi mesi è “salvare Malpensa”, ai vari Bresso e Chiamparino è stato spiegato che è bene che i loro cittadini si sciroppino due ore d’autostrada nella nebbia per rimpolpare un po’ il traffico dell’aeroporto della brughiera varesina, snobbato dagli stessi milanesi che non vogliono mollare Linate. D’altra parte, per arrivare da Torino all’aeroporto senza spendere 35 euro di taxi ci va quasi un’ora, dato lo stato ridicolo dei collegamenti pubblici: piazzare un bus GTT diretto via tangenziale da Porta Susa ogni 20 minuti sarebbe fattibilissimo, ma impatterebbe sulle entrate dei tassisti, del multipiano e della Sadem (che adesso gestisce la linea a intervalli lunghissimi chiedendo 5,50 euro a botta e passando dentro ai paesi). Meglio attendere altri anni per scavare l’ennesimo tunnel per il treno Torino-Ceres, anche se probabilmente, quando il treno arriverà, l’aeroporto avrà già chiuso per consunzione.

L’unica cosa positiva dell’aeroporto era appunto il servizio efficiente: bene, ormai non c’è più nemmeno quello. Domenica, all’ora di pranzo, sono arrivato per partire per Parigi; il check-in era chiuso. C’era solo la macchinetta automatica Air France, con un addetto a fianco.

Vado alla macchinetta, inserisco la mia tessera frequent flyer (ancora dei tempi KLM, quando Torino era collegata con Amsterdam) e la macchinetta la rifiuta. L’addetto mi spiega che è troppo vecchia: allora gli chiedo come averne una nuova, che possa funzionare per il check-in automatico, e mi risponde “non si può”. L’unico modo per fare il check-in è inserire non il nome, non la destinazione e nemmeno il codice IATA di sei lettere che identifica la prenotazione (quelle robe tipo “IAH3Z4” che vi danno le low cost). No, l’unica cosa possibile era un numero di biglietto di 13 cifre 13 che io non avevo, visto che il biglietto era stato comprato in Francia dagli organizzatori della conferenza.

A quel punto ho spiegato all’addetto che il meccanismo mi sembrava un po’ strano, dato che da anni ormai vado a fare check-in ovunque semplicemente presentando un documento di identità, ossia con il semplice nome e cognome; la risposta è stata, con tono scazzato, “proprio per stavolta il numero glielo diamo noi, ma la prossima volta la lasciamo a terra”. Io ho pensato che piuttosto smetterò di volare Air France… se non fosse che da Torino a Parigi vola solo Air France (i voli Air One che c’erano fino a questa primavera sono magicamente spariti e ricomparsi con gli stessi identici orari a Malpensa…).

Bene, conclusa la procedura, vado nell’ampio “food court” per mangiare: puoi scegliere tra ben due opzioni, Autogrill-panini e Autogrill-Spizzico. L’aeroporto è deserto, fa davvero una impressione triste; le uniche altre persone presenti sono i tassisti in eterna attesa di clienti inesistenti. Opto per la pizza, e la signora mi dice che non la tengono nemmeno più pronta, ma me la farà sul momento “in cinque minuti”. Naturalmente i minuti diventano dodici… un capolavoro: cibo precotto come al fast food, con i tempi di un ristorante.

Perdo quasi l’imbarco, e quando arrivo al gate l’addetto (lo stesso del check-in automatico) commenta simpaticamente: “Bene, questo era l’ultimo con bagaglio, adesso gli altri possiamo lasciarli qui!”. (Imbarcare il bagaglio è una buona assicurazione, ci mettono di più a tirarlo fuori per lasciarvi a terra che ad aspettarvi dieci minuti in più.) Insomma, non solo l’aeroporto ha pochi voli, ma adesso vi trattano pure male: e poi si stupiscono se il traffico cala.

[tags]aeroporti, viaggi, torino, caselle, malpensa, aerei[/tags]

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mercoledì 19 Novembre 2008, 14:41

L’etica è un rifiuto

È da un po’ di tempo che mi chiedo quale debba essere il ruolo di un giornale rispetto ai propri lettori. Oddio, lasciamo perdere la situazione italiana, quella in cui le notizie vengono generalmente manipolate a sostegno di determinate linee politiche; parliamo in astratto. E’ giusto che il giornale dia libero spazio a tutte le opinioni, oppure dovrebbe porsi il problema di educare le persone almeno sulle basi condivise della convivenza civile?

La domanda mi viene osservando come Specchio dei Tempi da settimane dia spazio a lettere che si lamentano dell’introduzione della raccolta differenziata porta a porta nel quartiere Parella. Io ci abito e vi posso dire che dopo questo evento il mondo non è terminato: ora dobbiamo portare l’immondizia nel cortile invece che nel cassonetto in strada, ma non è questo gran cambiamento. E’ però un cambiamento per chi non ha mai differenziato niente, perché una volta si poteva far finta di nulla e buttare tutto insieme, mentre ora durante la raccolta l’Amiat controlla il contenuto dei cassonetti; e nel mio palazzo sono già comparsi avvisi su avvisi per quei due-tre renitenti che insistono nel buttare tutto insieme.

Si capiscono così le lamentele, che sono state le più varie: c’è chi ha il cane e non vuol far la fatica di riportarsi la merda dell’animale fino al cortile di casa, invece che nel primo cassonetto; c’è chi si lamenta che è brutto avere i cassonetti sul marciapiede per ore il giorno della raccolta (ma prima i cassonetti c’erano tutto il tempo, boh); c’è chi si lamenta che così la gente abbandona l’immondizia per strada pur di non differenziare (effettivamente qualcosa ho visto, ma abbastanza poco: più che altro un televisore, che poi è anni che i televisori vanno differenziati e ci si chiede questa gente dove abbia vissuto fino adesso).

La lamentela che va per la maggiore, tuttavia, è la seguente: prima buttavamo tutto a caso e ora abbiamo dovuto organizzarci e fare il lavoro di dividere le cose. Perché allora la tassa rifiuti aumenta invece di diminuire?

E’ proprio a fronte di questo che mi chiedo quale sia il ruolo di un giornale, e se sia giusto che il massimo giornale cittadino dia voce a questo genere di pensiero senza almeno contrapporre una spiegazione. Infatti, è giusto pretendere che le tariffe non vengano gonfiate, ed è vero che c’è un business dietro i rifiuti; in particolare il business dell’inceneritore, ormai di gran moda in Italia, cioè la creazione di una industria di amici degli amici, o di una paramunicipalizzata con dirigenti piazzati per logiche politiche, che riceverà dei bei soldi pubblici per trasformare i nostri rifiuti in diossina e cancro.

L’inceneritore, peraltro, non è certo correlato alla differenziata; anzi, pensate che siccome funziona come un altoforno, cioè deve essere sempre attivo e in temperatura, spesso si finisce per rimettere insieme tutti i rifiuti differenziati e bruciare pure quelli riciclabili pur di tenere vivo l’impianto, o in alternativa si compra e si brucia petrolio quando i rifiuti sono insufficienti…

Tuttavia, qualcuno dovrebbe spiegare ai torinesi che è del tutto logico che la differenziata costi di più, visto che è più complicata che buttare tutto insieme in un buco; una pratica peraltro che ha dei costi nascosti che per decenni le nostre TARSU non hanno mai pagato, visto che si tratta di costi ambientali bellamente scaricati sulle generazioni future, come la signora che mette la polvere sotto il tappeto aspettando che arrivi poi qualcun altro a pulire.

Il senso della differenziata non è risparmiare, ma ridurre il consumo di risorse naturali per non restare senza energia e per non morire tutti per i cambiamenti del clima e la devastazione dei cicli della natura. A fronte di questo, è ampiamente probabile che in futuro dovremo fare sforzi sempre maggiori per smaltire i nostri rifiuti, e pagare sempre di più per il loro smaltimento.

Capisco che non sia un discorso popolare; forse, anzi, è meglio creare animosità contro differenziata e riciclaggio, di modo che l’alternativa “bruciamo tutto e sbattiamocene” prenda piede, e nessuno protesti verso gli inceneritori; e che passi la filosofia davvero assurda – ma spinta dai politici per i motivi di cui sopra – che gli inceneritori sono buoni e anzi dovrebbero godere di ulteriori contributi pubblici, per ingrassare la saccoccia delle paramunicipalizzate (monopolio pubblico, gestione privata) di cui sopra. Come si possa pensare che bruciare un oggetto (generando comunque delle ceneri che vanno in discarica, per poi usare altre risorse per creare un nuovo oggetto uguale in seguito) sia altrettanto ecologico che riciclare, davvero sfugge. Ma forse è proprio per questo che La Stampa non ne parla, non educa, e si limita a sparare a zero sulla differenziata.

[tags]la stampa, torino, giornalismo, etica, rifiuti, inceneritori, raccolta differenziata, discariche[/tags]

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venerdì 31 Ottobre 2008, 17:56

Scampoli di pianeta

A Torino, ieri pomeriggio, c’era un vento gelido che portava via il mondo; man mano che si avvicinava il tramonto, sembrava veramente che la città stesse per svanire in una lattigine indistinta. In bicicletta era difficile tirare diritto, anche perché si era continuamente avvolti da nuvole di polvere di foglie secche frantumate: gli alberi sono ancora carichi di giallo, ma non lo saranno per molto. Il sole era una palla pallida sopra i mattoni rossi dei poveri vecchi, appena nascosti da svergognate affissioni di politici bolliti e di Winx seminude.

Se tutto questo già è straniante, aspettate di vedere l’interno: perché in quel mondo nascosto di mattoni rossi, sospeso tra l’ospedale e il dimenticatoio, sta una realtà improbabile quanto poetica, fatta di anziani, di disabili e persino di anziani disabili. Capita così di trovare dietro un angolo, in una stanza che fu di degenza, una vera balera; un eccezionale ballo a palchetto alle tre di un pomeriggio feriale. L’età minima per varcare la porta è sui settantacinque, eppure, da fuori, si può rubare uno sguardo: ballano bene, e sembrano ancora innamorati.

Francoforte, oggi, è verde scura: le foreste attorno all’aeroporto sono rossicce e bagnate, e ti verrebbe da cercare presto un caminetto. Invece ci scaricano a metà dell’infinito corridoio A, e mi tocca lottare sui tapis roulant e poi intasarmi nell’ascensore; il tunnel lisergente dai colori artificialmente cangianti, per cui questo aeroporto è famoso, oggi è ancora peggio del solito. Rimaniamo intampati dietro a una famigliola con bambini: il genere di passeggero che l’industria definisce VFR, che ufficialmente significa “visiting friends and relatives”, ma che nel gergo taluni interpretano come “very frightened and rambling”. Vallo a spiegare al bambinetto irrequieto e al genitore che non capisce dove andare, che stanno bloccando una fila di almeno una decina di businessmen spazientiti che sanno quel percorso a memoria!

La lounge è pure peggio: non è più il Senator di una volta, ormai c’è più spazio nella metro di Londra che nelle sale Lufthansa di prima classe. Però, oltre a spararmi in vena un intero bretzel, mi godo i telegiornali tedeschi: tra il konjunkturpaket e la chiusura di Tempelhof, spunta un servizio su come fare Halloween da professionisti, con tanto di interviste a vari “profi-monster”. Non c’è niente da fare, i tedeschi sono così: tutto deve essere scientifico, tecnologico e soprattutto professionale. Qui ancora si ricorda quando la nota casa tedesca di pneumatici Continental scelse come slogan pan-europeo “Supremazia tecnologica tedesca”: a un tedesco sembrava la cosa migliore che si potesse dire di un pneumatico, ma al resto d’Europa faceva venire in mente il rumore di militari e carri armati in marcia all’unisono verso la Polonia, così le vendite non andarono benissimo.

Cairo… cosa si può dire del Cairo: veramente uno dei pochissimi posti dove non avrei voluto venire. Nulla voglio togliere alla meraviglia delle piramidi, al centro storico bellissimo e unico al mondo, e anche alla gentile ospitalità di questo popolo. Eppure vivere qui, anche per pochi giorni, è davvero stressante: il concetto di organizzazione non esiste nemmeno. All’aeroporto le persone che devono aspettarti per aiutarti a passare la frontiera e arrivare all’albergo non ci sono, hanno cartelli sbagliati, faticano a leggere i caratteri occidentali, e appena possibile litigano tra loro per contendersi il piacere di chiederti la mancia. Per passare la frontiera, una volta acquistato il visto al costo di 15 dollari americani (niente carte, niente valuta locale e per pagare in euro devi pregare e poi pagare 15 euro), il tizio prende in mano 15 o 20 passaporti del gruppo e va da una guardia che, dopo un po’ di discussione, fa passare tutti senza nemmeno aprire i documenti, contando semplicemente che numero di persone uguale numero di passaporti. Dopodiché la navetta gratuita promessa dall’organizzazione non c’è, o meglio c’è ma è parcheggiata in fondo allo spiazzo, in mezzo a un cantiere abbandonato, e gli autisti non ci sono, e comunque se ci fossero sarebbero stati corrotti da quelli delle limousine in modo da forzarti a prendere quelle.

Quindi attraversi la strada rischiando la vita e ti infili alla bell’e meglio in una macchina, con cui ti portano alla sede del convegno: un albergone a 20 chilometri dal centro, nel bel mezzo di un centro commerciale. E’ come se avessero preso l’Auchan di corso Giulio Cesare e ci avessero messo accanto un albergo, però con attorno palazzi di cemento cadente, niente verde e tutto dieci volte più squallido. E quando finalmente riesci a fare il check-in, dopo dieci minuti che sei in camera, nonostante tu abbia affisso fuori il segnale di non disturbare, entra un addetto senza bussare e ti porta dalla lavanderia un vestito e delle camicie non tue – e non parla mezza parola d’inglese per farglielo capire. Ah, e la rete dell’albergo funziona per dieci minuti, poi si pianta troncando i pacchetti di brutto, ma se stacchi e riattacchi il cavo (niente wi-fi) riprende a funzionare per altri dieci minuti.

Non so, spero di non sembrare snob; il problema, come dicevo, è che già essere in giro è pesante, se di fatto sei prigioniero in un posto del genere diventa poco piacevole. Ma forse è solo la stanchezza del viaggio.

[tags]torino, francoforte, cairo, viaggi, lufthansa, continental, tempelhof, autunno, vecchi[/tags]

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