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giovedì 4 Settembre 2008, 10:56

Cacana

Il succo di cacana è una delle novità che abbiamo scoperto quaggiù in Mozambico. Ce lo ha dato la nostra amica che ci ospita, quando siamo partiti per un viaggio in giornata: invece dell’acqua, ci ha detto, portatevi questo. Dopo la prima ora e mezza di viaggio in auto nel sole più totale a trentacinque gradi, il nostro autista (nero) ci ha detto che voleva fermarsi a comprare dell’acqua; io allora gli ho porto il succo di cacana, cioè un liquido giallino simile al té chiuso in una bottiglia di plastica riciclata. Lui lo ha guardato in modo strano e ha risposto che no, quello era per noi. Così, mentre gli compravo l’acqua, ho provato a berlo.

Ecco, è difficile descrivere il gusto del succo di cacana; la mia definizione al primo impatto, che è già diventata popolare nella comunità europea di Maputo, è che è disgustoso in dieci modi diversi. In effetti è contemporaneamente amaro, puzzolente, oleoso, ributtante e tante altre cose ancora: sembra un po’ come se nel té verde giapponese avessero sciolto olio di ricino, candeggina, piscio di cane e un cucchiaio di batteri del colera fritti. Ciò nonostante, incredibilmente, funziona: toglie completamente la sete. Credo che sia perché è talmente disgustoso che lo stomaco si stringe e si intorcina e per un po’ rifiuta di ingerire alcunché, sia liquido che solido.

Ci hanno poi detto che ha numerose altre funzioni, tra cui quella di ottimo antimalarico e di diuretico per il corpo e per l’anima; inoltre, se usato in abbondanza, aumenta il ciclo nelle donne e può persino stimolare l’aborto. In effetti dà assuefazione: dopo un po’ di volte, continua a essere disgustoso in dieci modi diversi ma allo stesso tempo, dopo qualche ora che non lo bevi, ti viene desiderio di assumerne ancora. Magari ci sciolgono dentro anche delle sigarette.

[tags]viaggi, mozambico, maputo, cacana[/tags]

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mercoledì 3 Settembre 2008, 11:58

Le strade africane

Le strade africane sono molto diverse da quelle occidentali; e non certo perché sono sterrate invece che asfaltate (anzi, sempre di più sono asfaltate pure quelle africane).

In Occidente, la strada è uno strumento: serve a collegare un posto con un altro secondo il percorso più breve possibile. In Africa, la strada è uno scopo; è per molti il centro della vita. Si esce dalla propria casupola o capanna, e si va sulla strada a far mercato e a stare insieme; le donne e i ragazzi si piazzano sul bordo della strada con una stuoia e qualcosa da vendere. Anche se la vendita è il loro sostentamento primario, non è comunque il motivo principale per stare lì, visto che spesso venderanno sì e no due cose in un giorno. In realtà, stare lì è stare nel mondo: vedere le persone passare.

Le strade africane, quindi, sono sempre piene di gente. Ovviamente fuori dalle città e dai villaggi di gente ce n’è relativamente poca; gruppi di persone che aspettano il bus o che vendono prodotti della campagna. Ma non appena si avvicina un agglomerato, la strada si riempie; talvolta è un fiume di persone in cammino. Del resto, nessuno ha un’auto, quasi nessuno ha una bicicletta, e molti non possono permettersi nemmeno i bus: e così, si va a lavorare, a studiare, a comprare a piedi, camminando per due, cinque, dieci chilometri al giorno.

Anche le strade europee sono piene di gente; ma è tutta gente assente, che ha spento il cervello e sta semplicemente svolgendo una funzione di spostamento, spesso intruppata in movimenti collettivi. In Africa, invece, le strade sono piene di moltitudini attive; ognuno sta facendo una cosa diversa e interagisce con le altre persone che si trova accanto. Trovi la donna che cammina con un sacco in testa, i due uomini che contrattano un lavoro, il gruppetto che guarda la televisione dentro la finestra di una casupola-bar, i bambini che giocano correndo nel fango.

Le strade africane, insomma, emanano energia; anzi, emanano una energia spaventosa, perché sono piene di vita. Per noi, dopo un po’, diventano stancanti ed intimoriscono; non siamo abituati a tutta questa densità di energia. E però, in confronto, è come se le strade europee sembrassero di botto come quelle del paese degli zombi: piene di morti viventi.

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[tags]viaggi, mozambico, africa, strada[/tags]

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martedì 2 Settembre 2008, 11:17

L’ascensore

Siamo ospitati in un appartamento di italiani, al quattordicesimo piano del palazzo dei trentatre piani, il simbolo della città: un cubo di cemento in ottimo stato – che, per qui, vuol dire che è cadente ma non pericolante – su cui troneggia trionfante una grande pubblicità luminosa di Mcel.

Il palazzo è tra i migliori della città: è in pieno centro, vicino ai ristoranti e al supermercato, ed è decisamente signorile, come si capisce dalle tre o quattro guardie armate che stazionano in permanenza nell’atrio di ciascuna delle tre scale del palazzo, ma anche dalle persone che incontri all’interno: tutte nere, ricche e ben vestite, i giovani in tiro o abbigliati da sport, i bambini con la divisa scolastica e le cartelle coi personaggi dei cartoni animati.

Nella nostra scala, quella centrale, ci sono due appartamenti per piano, ognuno a sua volta dotato di un mini-appartamento per la serva, con cameretta, bagno e ingresso separato. L’appartamento principale ha una cucina, un salone, tre camere e tre bagni: direi sui 150 metri quadri. I bagni sono scrostati, ma c’è l’acqua calda, anche se alle volte ne viene soltanto un filo. Il maggior inconveniente è che, essendo vicini al mare, a questa altezza c’è sempre forte vento: e siccome i serramenti sono tutt’altro che efficienti, c’è costantemente un mezzo tornado che scorre per la casa.

Ovviamente, al quattordicesimo piano (ma anche al trentatreesimo) non si può certo arrivare a piedi: quindi in ogni scala c’è l’ascensore. Anzi, ce ne sarebbero due, ma nella nostra il secondo è fuori uso da secoli ed è sbarrato alla bell’e meglio, con le porte arrugginite; ne rimane uno solo, un bell’ascensore Otis con le pareti di metallo e lo specchio, molto simile a quello della mia precedente casa di Torino (a parte la sporcizia).

Il problema è che la similitudine si spinge un po’ troppo avanti: infatti, il funzionamento di questo ascensore è spesso interrotto. Almeno metà delle volte in cui arrivi a casa c’è nell’atrio un bel cartello che comunica che l’ascensore non funziona. In pratica, si rompe a sprazzi: mezz’ora è rotto, poi funziona per un paio d’ore, poi per un po’ è ancora rotto, poi riparte e così via.

Nessuno degli italiani che abitano qui da molti mesi è ancora riuscito esattamente a capire come faccia un ascensore a rompersi e venire riparato tutti i giorni diverse volte al giorno: voglio dire, se si rompe un pezzo lo si cambia o lo si aggiusta, e poi non si rompe più; non può mica rompersi un pezzo diverso ogni due ore. Oltretutto gli ascensori delle altre scale funzionano perfettamente; e anche il nostro, quando funziona, non dà problemi nè particolari segni di squilibrio, se si esclude un vago ondeggiamento e una grossa bolla di presumibile ruggine nel pavimento metallico, sotto il tappeto di plastica, che si piega ogni volta che la calpesti.

Le nostre certezze tecnico-organizzative occidentali sono andate però un po’ in crisi quando uno di noi ha incontrato i tecnici, che ormai stazionano in permanenza nel palazzo, e ha chiesto spiegazioni sull’incapacità di risolvere i guasti: uno di loro ha risposto mettendosi a piangere. Nulla di strano, perché pare che qui mettersi a piangere sia la risposta a qualsiasi situazione in cui si è commesso un errore. Qui però c’è qualcosa di più serio.

Nella casa, infatti, si sa perfettamente la causa del problema, e – a mezza bocca – alla fine la spiegazione arriva anche agli inquilini bianchi: l’ascensore della scala di mezzo si rompe continuamente perché all’ottavo piano ci sono i fantasmi, tra cui quello di un guardiano che un giorno, in un passato imprecisato, aprì le porte ad un piano pensando di liberare delle persone chiuse dentro, e invece non trovò la cabina e cadde nella tromba dell’ascensore, morendo. Per poter usare l’ascensore, quindi, pare necessario attendere il momento in cui i fantasmi sono tranquilli e danno il loro beneplacito.

Ma non temete: una delle grandi leggi dell’Africa è che a tutto si trova sempre una soluzione. In questo caso, si può entrare nella scala di fianco, prendere l’ascensore fino al nono piano – i piani dal primo all’ottavo non sono raggiungibili, si parte dal nono in poi; penso che per i piani bassi si entri da un’altra parte e siano dedicati a uffici o appartamenti più popolari – poi uscire sulle scale, scendere di un piano, e attraversare il lungo corridoio che all’ottavo piano mette in comunicazione tra loro le tre scale, e ospita gli uffici dell’amministrazione. A quel punto si può uscire sulla scala centrale, un antro buio e sporco, salire a piedi di sei piani, poi aprire con la chiave il cancello di ferro antifurto che separa le scale dal pianerottolo e dall’ascensore, e di lì entrare in casa. E’ anche più bello, perché lungo il percorso si fa amicizia, ci si aiuta a portare le borse, si sorride alle bambinette che trascinano su la cartella tornando da scuola, e così via.

Ah, siccome tempo fa nell’ascensore dell’altra scala si ruppe la lampadina del pulsante del nono piano e nessuno ha voglia di trovarne una per cambiarla, hanno spostato i fili e quando premete il nove lampeggia un attimo la luce del sedicesimo piano; non disperate, poi si ferma correttamente al nono.

[tags]viaggi, mozambico, maputo, ascensore, otis, fantasmi[/tags]

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lunedì 1 Settembre 2008, 12:05

Economia africana

La principale attività del Mozambico è il non far niente. A tutti gli occidentali che si stupiscono di ciò viene raccontata la storiella ormai famosa in tutta l’Africa e anche nei Caraibi: quella dell’uomo bianco che vede un pescatore nero sulla spiaggia, seduto a guardare il mare senza fare niente. Allora il bianco gli chiede: perché non stai lavorando? E il pescatore risponde: perché dovrei lavorare? Potresti comprarti una nuova rete, risponde il bianco. E il pescatore: e perché? Il bianco gli spiega che con una nuova rete prenderebbe più pesce. E il pescatore: e a cosa mi serve? Beh, dice il bianco, a forza di prendere più pesce e venderlo al mercato, a un certo punto diventeresti abbastanza ricco da poter smettere di lavorare. E il pescatore risponde trionfante che lui ha già smesso di lavorare senza bisogno di tutta questa fatica!

Non fraintendetemi: Maputo è una città e, come tutte le città, ha uffici, negozi, locali, attività pubbliche e private che funzionano ogni giorno grazie alle persone del posto che ci lavorano. E’ solo diverso il concetto di lavoro e, soprattutto, il suo valore percepito, in termini morali prima ancora che economici. L’autista dell’ufficio – che guadagna cento euro al mese, che comunque qui sono abbastanza per mantenere le sue due compagne e i suoi cinque figli – ci ha detto che è contento delle cose che ha realizzato – i figli, la casa, il televisore – ma che la sua vita è durissima perché quasi tutti i giorni deve andare a lavorare. Un altro ragazzo incontrato il giorno prima – neolaureato, ben vestito, ora impiegato di uno dei vari progetti di cooperazione – ci ha detto tranquillamente che ora era contento di lavorare, ma che non aveva voglia di fare 40 minuti di autobus al mattino e altrettanti la sera, per cui andava a lavorare solo quando l’autista del suo progetto (tutti i progetti hanno macchine con autista sempre a disposizione) poteva passarlo a prendere, se no semplicemente non si presentava in ufficio.

Anche l’approccio al lavoro è molto rilassato: si arriva, si chiacchiera un po’, si fa riunione, si mangia… sembra quasi un ministero italiano. Quasi nessuno dei locali è veramente capace – in metriche occidentali – a fare il lavoro che fa. Per esempio, l’altra sera siamo andati a un ristorante e ci siamo seduti; per prima cosa ci hanno detto (in modo molto rilassato, e senza la scortesia tipica di un esercente italiano) che dovevamo fare in fretta perché erano lì lì per chiudere (mancavano tre quarti d’ora). Poi è arrivata la cameriera a prendere le ordinazioni; qualsiasi cosa scegliessimo dal menu non c’era, però ce n’erano delle altre che sul menu non erano scritte. Alla fine la cameriera non era sicura, così è andata a chiedere in cucina se la cosa che volevamo (più o meno l’unica disponibile) c’era davvero. Poi l’abbiamo vista litigare col padrone, poi è sparita e non è più tornata, così dopo un quarto d’ora uno di noi è andato a chiedere. E’ venuto il padrone a dirci che in realtà la disponibilità delle cose era ancora diversa, e ha suggerito che se volevamo “faceva lui”. Abbiamo accettato, e allora dopo una decina di minuti sono arrivate le zuppe, ma ne mancava una, e mancavano anche due cucchiai. Le bibite sono arrivate dopo altri cinque minuti e un paio di altri solleciti; poi ha cominciato ad arrivare il cibo, anche se nessuno, padrone compreso, era completamente sicuro di cosa sarebbe arrivato e in quali quantità. Alla fine era tutto assolutamente ottimo; abbiamo mangiato in abbondanza e ne abbiamo ancora lasciato lì; abbiamo speso circa dieci euro a testa, una cifra normale per qui, ma poco per i nostri standard. Ovviamente, quando abbiamo dato i soldi per pagare il conto, abbiamo dovuto sollecitare due volte per avere il resto; ma non perché volessero tenerselo, semplicemente perché l’incombenza gli passava di mente nel tragitto tra il tavolo e il bancone.

In effetti, il bianco è molto apprezzato perché arriva qui con competenze che per il posto sono stratosferiche, e per mille o millecinquecento euro al mese è disposto a fare moltissimo lavoro. Ci hanno detto che i locali con competenze comparabili non si sognano nemmeno di farlo: per fare lo stesso lavoro vogliono decisamente di più, altrimenti “non ne vale la pena”.

Ora, questo sarebbe comprensibile se ci fosse un mercato che in qualche modo giustifica questi stipendi; ma non è così. Circa il 60% del PIL del Mozambico è costituito da aiuti umanitari; una quota ulteriore sono rimesse dagli emigrati. L’economia privata è inesistente; siamo a livelli persino peggiori della Calabria (di cui un’amica del posto mi spiegò che il 77% dell’economia è pubblico e parapubblico, e solo il 23% è privato). A parte le piccole attività, esiste qualche fabbrica sudafricana o comunque straniera; il resto è sovvenzione e parastato.

Ci hanno detto che a Maputo c’è il boom economico, e lo vediamo: per le strade circolano moltissime macchine tra cui parecchie nuove (quasi tutti fuoristrada Toyota, Hyundai o comunque giapponesi e coreani) e sono appena stati costruiti due complessi nuovi e scintillanti che sembrano un angolino di Los Angeles trapiantato in Africa: il primo è il Maputo Shopping Center e il secondo è la nuova sede del Ministero della Cooperazione (mentre gli altri ministeri sono ruderi o quasi). Io ingenuamente pensavo che fosse per via della globalizzazione: sta a vedere che qualche briciola della grande delocalizzazione occidentale è finita anche qui. Invece no: c’è il boom semplicemente perché alcuni dei paesi donatori hanno sensibilmente incrementato gli aiuti a fondo perduto.

Il flusso del denaro, qui, è così: dai governi occidentali al governo locale, che ne trattiene l’80-90 per cento in corruzione, oppure a dipendenti locali di istituti e NGO occidentali, sotto forma di lavori artificialmente ben pagati. Dai mozambicani, i soldi finiscono per la maggior parte a una delle due compagnie di cellulari: la Mcel e la Vodacom, che tappezzano di pubblicità il paese, ovunque, in qualunque angolo, dipingendo dei loro colori le case e i negozi. Oppure, in una delle due banche che in centro hanno uno sportello ogni due isolati: la Millennium (portoghese) e la Barclay’s (inglese). Di lì, tornano in buona misura in Occidente, visto che quasi tutto deve essere importato, dai lavandini ai biscotti: di prodotto nazionale, a parte ottima verdura, carne e pesce, e forse i mattoni e il cemento, non c’è niente di niente. Questo spiega come mai il prezzo di tutto sia quasi uguale a quello europeo, anche se i locali non potranno mai permettersi nulla di tutto ciò.

All’Hipermaputo, il maggior supermercato della città, che non ha nulla da invidiare al Carrefour – prezzi compresi – tranne la birra perché è posseduto da arabi e quindi non si vendono alcoolici, il cibo è di provenienza insospettabile: buona parte dei prodotti hanno le etichette innanzi tutto in thailandese. Sono i misteriosi ricircoli del commercio globale, persino qui. L’Italia nemmeno qui è veramente competitiva, ma almeno un po’ si difende: c’è pasta Divella e Spigadoro – in mezzo a un mucchio di imitazioni con improbabili nomi paraitalici – e soprattutto c’è lui, l’oggetto che più di ogni altro pianta la bandiera italiana in ogni angolo del pianeta: l’espositore Ferrero con i Kinder Bueno. Li ho comprati subito: gioverà alla nostra economia.

[tags]viaggi, mozambico, maputo, africa, economia[/tags]

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domenica 31 Agosto 2008, 09:17

Tomtom all’africana

Siete all’aeroporto di Maputo.

Imboccate corso Accordi di Lusaka. Proseguite diritto per quattro chilometri, attraversando piazza degli Eroi Mozambicani.

Alla rotonda che incrocia con corso Mao Tse Tung, girate alla seconda uscita in corso della Guerra Popolare.

Al quinto incrocio, girate a sinistra in corso Eduardo Mondlane.

Proseguite diritto senza girare, attraversando nell’ordine: corso Karl Marx, corso Olof Palme, corso Vladimir Lenin, corso Amilcare Cabral. Svoltate a sinistra in corso Salvador Allende.

Alla prima a destra, svoltate e poi imboccate la terza a sinistra. Siete ora in corso Kim Il Sung. Proseguite diritto fino all’incrocio con il secondo grande corso: ecco, lì a sinistra c’è l’ambasciata italiana.

Ora, invece, svoltate a destra e scendete sul mare dal lato destro. Proseguite sul corso Marginale, il lungomare: questo vi permetterà di arrivare fino al centro città.

Passate sotto lo svincolo di corso Friedrich Engels: siete ora in piazza Robert Mugabe. Benvenuti nel centro di Maputo!

[tags]viaggi, mozambico, maputo, comunismo, africa[/tags]

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sabato 30 Agosto 2008, 13:30

Tudo bem

Mi perdonerete se in questi giorni non scrivo molto: in realtà ci sarebbero parecchie cose da raccontare, ma il tempo è speso nelle frenetiche attività di questo luogo. Tutto qui richiede tre o quattro volte il tempo che prenderebbe a casa, per tanti motivi di cui il principale è proprio la dilatazione del tempo stesso: le cose scorrono lentamente e anche gli occidentali, una volta giunti qui, si adeguano naturalmente senza il minimo sforzo. Per questo motivo, non so esattamente in che cosa sia volato via il tempo da giovedì mattina quando siamo arrivati, ma è volato senza grande fatica.

Maputo non è molto diversa da una qualsiasi città del Sudamerica o del Nordafrica; non sembra nè degradata nè pericolosa, naturalmente riferendosi agli standard del mondo non sviluppato; comunque siamo quasi sempre accompagnati, anche se il portoghese è comprensibile. Di zanzare ne avrò viste tre o quattro in tre giorni, soltanto di sera e nei ristoranti, e apparentemente senza la minima intenzione di pungere qualcuno; del resto la reazione della comunità ospite – locali e bianchi insieme – alla vista delle nostre pastiglie di Malarone è stata unanimemente “ah ah che polli, anche voi come dei gonzi vi siete fatti gabbare dalle multinazionali farmaceutiche e gli avete regalato centodieci euro”.

In teoria dovevamo avere la connettività wi-fi in casa, ottenibile andando sul balcone del quattordicesimo piano e orientando il computer verso l’ufficio di un progetto di cooperazione di un amico – situato al sesto piano di un palazzo a un duecento-trecento metri di distanza in linea d’aria – che ha messo il router wifi accanto alla finestra. Purtroppo l’hardware Apple in questo fallisce miseramente, e l’unico portatile che riesce a prendere il segnale è un bisonte Windows-dotato; visto che non ho nemmeno un pacchetto di Pringles per costruire una cantenna, facciamo prima ad andare all’Internet cafè del centro commerciale costruito dagli arabi per i ricchi del posto e prendere un PC per mezz’ora con 25 metticaso, circa 70 centesimi di euro. (I metticaso sono la moneta locale; qui almeno non hanno scelto una moneta a caso, come hanno fatto i sudafricani, ma le hanno dato un nome preciso.)

Comunque, io scrivo e salvo sulla chiavetta (se mi ricordo) per cui cercherò di mandare tempestivamente qualche racconto nei prossimi giorni. Nel frattempo, vi saluto con la vista del centro cittadino dal balcone di casa.

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[tags]viaggi, mozambico, maputo[/tags]

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venerdì 29 Agosto 2008, 11:20

Integrazione (2)

(segue da qui)

Capisci che hai delle ottime speranze di integrarti passabilmente nella cultura locale – almeno da visitatore – quando, essendo entrato in Mozambico da tre ore e mezza – il minimo tempo che ci vuole per uscire dall’aeroporto, trovare le persone che sono venute a prenderti e percorrere in auto i cinque chilometri che separano l’aeroporto dal centro di Maputo, se si seguono gli usi e costumi del posto – arrivi nel condominio di trentatre piani dove risiede la tua ospite, il più elegante e famoso di tutta la città, entri nell’atrio con le valigie, e per accedere al lussuoso ascensore Otis devi aggirare la carcassa di una mucca, distesa lì sul pavimento, sanguinante e squartata, su un telo da campeggio davanti al banco del portiere; e il tuo commento è: “Si vede che è una casa elegante: se fosse stata una casa meno bella, sul telo ci sarebbe stato solo un quarto della mucca!”

[tags]africa, mozambico, viaggi[/tags]

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martedì 26 Agosto 2008, 15:00

No ma prego, eh!

È sempre bello essere sul piede di partenza per un lungo volo aereo verso l’Africa, e beccarsi nel giro di pochi giorni il disastro di Madrid, quello di Bishkek, l’ATR Air Dolomiti che ho preso un sacco di volte che si incendia al decollo da Franz-Josef-Strauss, e un jumbo Ryanair che perde pressione e fa di corsa un atterraggio d’emergenza a Limoges

Comunque è quel che si chiama un grappolo statistico: se non fosse appena successo un evento grave, quelli meno gravi probabilmente non sarebbero apparsi sui giornali. Invece, questa settimana fa notizia persino una bottiglia di salsa ai funghi scambiata per acido da terroristi…

[tags]aerei, statistica[/tags]

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lunedì 25 Agosto 2008, 14:13

Assicurazioni di viaggio

Dopo due mesi di preparazioni vaccinatorie, dopodomani parto per il Mozambico (l’avevo scritto, vero?) e tra le ultime cose da fare c’è il procurarsi una assicurazione di viaggio. Io ho girato mezzo mondo senza mai farne una, però l’Africa è l’Africa, i pericoli sanitari sono più della media e in fondo si vive più tranquilli essendo assicurati e avendo coperto l’eventuale trattamento più rimpatrio.

Naturalmente, nonostante gli ottimi rapporti con il mio assicuratore, non mi è nemmeno passato per il cervello di chiedere ad una assicurazione italiana: comunque, chi invece l’ha fatto – perché siamo piemontesi e vorrai mica non assicurarti con l’assicurazione di famiglia – ha avuto un prezzo di circa 230 euro, per 16 giorni di viaggio, con 30.000 euro di massimale sul rimpatrio. Io ho provato online con Europ Assistance e il preventivo è risultato di circa 100 euro, cioè meno della metà.

La accendiamo? No, perché grazie a un mio collega spesso discretamente sfigato – quello di questo episodio, a cui quest’estate la macchina è stata semidistrutta mentre era parcheggiata sotto casa perché ci è crollato sopra il camino del palazzo – ho scoperto World Nomads, un sito australiano che vende assicurazioni di viaggio online in tre click. Coprono anche gli sport estremi, hanno un massimale di 250.000 euro, includono cure, rimpatrio per ragioni mediche con doppio viaggio di accompagnatori, rimpatrio per incidente a un congiunto, cure dentistiche d’emergenza, persino il furto o perdita del bagaglio e degli oggetti elettronici anche se con massimali ridotti (800 euro, 400 per oggetto, a prezzo svalutato in base all’uso); il tutto dovunque tu sia fuori dall’Italia, dal momento in cui varchi il confine al momento in cui lo riattraversi al ritorno. Anche se il sito è australiano, la garanzia è offerta da una assicurazione danese e quindi ci sono tutte le protezioni legali intra-Europa. Il costo è di circa 40 euro, che includono due euro di donazione a Oxfam per costruire una scuola elementare in Cambogia; in realtà sarebbero stati 28 se avessi rinunciato a due giorni, visto che va a settimane. Si fa tutto online con attivazione immediata, comprese le segnalazioni, ma ovviamente per emergenza si può anche telefonare o mandare una mail a un call center a Copenaghen, attivo 24 ore su 24.

Spero di non dover mai fare la prova e capire se a queste differenze di prezzo corrisponda una differenza di prestazioni, anche se, sulla carta, l’assicurazione più economica è anche quella che copre di più. Certo che, ancora una volta, emergono le grandi verità della rete globale: uno, qualsiasi sia il servizio di cui hai bisogno l’Italia non è competitiva, e due, chi si sbatte a cercare e confrontare le possibilità in rete finisce per guadagnarci sensibilmente.

[tags]viaggi, assicurazione, mozambico[/tags]

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domenica 24 Agosto 2008, 17:39

Bilancio olimpico

Le Olimpiadi sono finite, e dopo i commenti ai telecronisti, agli sport minori e su Cina e Tibet volevo chiudere con qualche commento sugli italiani (di cui già segnalammo l’olimpicità); e scegliere le mie immagini olimpiche.

Ce ne sono tante che meritano un ricordo, cominciando dalla bella e sfortunata (ma comunque argentea) gara di Davide Rebellin nella prova di ciclismo il primo giorno, nello scenario mozzafiato delle montagne attorno alla Grande Muraglia. E poi, l’oro sofferto fino allo spareggio finale di Chiara Cainero; il bronzo in grande rimonta nel K2-1000; l’argento miracoloso nel taekwondo; la commovente medaglia di Josefa Idem alla settima olimpiade – un non-oro solo per quattro millesimi – davanti ai suoi bimbi già cresciuti, con tanto di intervista in cui lei a metà interrompe la frase di botto per girarsi e dire ai figli di stare bravi e che è arrivata zweiten. Ma due sono le immagini italiane che più mi sono rimaste impresse.

La prima non è una medaglia: è la semifinale dei 1500 metri uomini in cui correva il nostro Christian Obrist, subito definito “senza speranza” perché passavano in cinque e c’erano almeno dieci atleti più forti di lui. Lui si è messo dietro agli africani, è rimasto per quasi tutta la gara aggrappato coi denti in fondo al gruppo e quasi staccato, poi nell’ultima curva ha visto la luce e se li è rimangiati tutti, uno dietro l’altro, arrivando quarto e qualificato in volata. Alla fine nemmeno lui sapeva cosa aveva fatto e come l’aveva fatto, è rimasto cinque minuti a piangere in pista cercando di capirlo: uno di quei miracoli dello sport in cui nella tua testa scatta qualcosa che ti permette all’improvviso di superare i tuoi limiti, e di lasciar muovere il corpo da solo in modo impossibile, come il calabrone che non potrebbe volare ma non lo sa e lo fa lo stesso. In finale è arrivato ultimo, ma non importava più.

Il simbolo sportivo italiano di queste olimpiadi, però, sono indubbiamente loro: Francesco Damiani e i suoi ragazzi. Il pugilato, in Italia, era sport dimenticato, e in più guardato regolarmente con la puzza sotto il naso, come un residuo di tempi andati in cui nella vita era ancora richiesto di menarsi per strada ogni tanto, e in cui la violenza, anche controllata, attraeva gli spettatori invece di respingerli. E invece, dopo una settimana e mezzo di atleti fighettissimi ed atlete imbellettate, che si presentavano sui campi come fosse una sfilata, già pronti a rilasciare l’intervista della medaglia prima ancora di vincerla (spesso poi fallendo miseramente), e interessati più a discettare di tasse e di politica che alla loro prova, vedere questi ragazzoni ruspanti, un po’ tamarri e un po’ terroni, ha fatto bene al cuore.

Intanto, s’è riscoperto questo sport, che sport è sul serio: perché non c’è mica solo da menarsi (anzi, le risse e gli abbrancamenti si son visti molto di più nel taekwondo o nel judo) ma c’è velocità, tattica, tecnica, intelligenza, resistenza, spettacolo, e tanto, tantissimo cuore. E’ stato incredibile vedere i nostri pugili contro bestioni grossi il doppio di loro (e va detto che i nostri non sono piccoli, anzi) girargli attorno come zanzare fino a tirargli un cazzottone dritto sul mento. E’ stato ancora più bello sentire Damiani fargli da secondo papà, e in quei venti secondi tra un round e l’altro incoraggiarli se erano giù, cazziarli se erano mosci, applaudirli se erano stati bravi, sempre urlando senza respiro come fosse il mitico Roberto Da Crema. Un oro, un argento e un bronzo, su sei atleti presenti, è un risultato da incorniciare: e dato che la boxe è anche lo sport che toglie i ragazzi dalle strade di Cinisello Balsamo (come Cammarelle) o dell’immenso degrado campano (come Russo e Picardi), è anche un segno di riscatto sociale; alla fine, rende di più l’Italia ignorante ma vera, che quella evoluta e montata.

Comunque, sono davvero tanti gli italiani che hanno deluso. La scherma e il canottaggio hanno reso decisamente meno del solito; la ginnastica ha subito un tracollo totale; l’atletica è ormai inesistente; degli sport di squadra meglio non parlare, uno peggio dell’altro e zero medaglie, nonostante in svariati casi partissimo da favoriti per l’oro: centinaia di biglietti aerei che ci potevamo risparmiare. Alla fine è andata peggio di Atene, ma nel medagliere siamo comunque noni e davanti a Francia e Spagna: tanto male non è, ma non tutti possono cantar vittoria.

Nonostante questo, qualcuno ha sentito parlare di sconfitte, delusioni, ammissioni di colpa o di semplice superiorità altrui? Io no. Se c’è una cosa triste in questa Olimpiade sono i tanti, troppi atleti italiani che hanno deluso e poi, invece di fare autocritica, hanno cercato di scaricare le responsabilità sulle giurie, sul clima, sulla sfortuna, sulla cabala e su qualsiasi cosa purché non su loro stessi, in questo purtroppo appoggiati dai commentatori Rai, per i quali ammmettere che un italiano ha perso meritatamente o che qualche nostra federazione sportiva sia in mano a raccomandati incompetenti (anzi, più di qualche) pare impossibile, e così giù di titoli e frasi come “argento che vale un oro” o addirittura “quarto posto che vale un oro” e in qualche caso “eccezionale quattordicesimo posto” (?!?).

Può essere che in qualche caso gli atleti di casa siano stati un po’ favoriti dalle giurie e dall’organizzazione rispetto ai nostri, ma questo fa parte del gioco e succede in qualsiasi Olimpiade: basta confrontare il numero di medaglie vinte dalla Grecia quattro anni fa ad Atene con quelle vinte qui o a Sydney 2000. Del resto, quando noi ospitammo i mondiali di atletica a Roma nel 1987, truccammo clamorosamente i risultati del salto in lungo per far vincere la medaglia al nostro Evangelisti

Però, da qui a dire che gli italiani erano fortissimi ma hanno perso perché c’è un complotto internazionale contro l’Italia ce ne corre. Vorrei infatti chiudere con quello che ha detto sbottando Simone Collio (centometrista) nell’intervista a caldo dopo la semifinale della nostra staffetta 4×100, squalificata facendo entrare in finale la Cina. I commentatori Rai (l’ineffabile Bragagna) per cinque minuti hanno montato il caso attaccando la Cina e le giurie. Alla fine, Collio è esploso e gli ha fatto notare che la squalifica ci stava perché noi avevamo fatto un cambio irregolare, e che la brutta prestazione, se mai, era dovuta all’incompetenza dei dirigenti dell’atletica italiana, che ogni anno cambiano allenatori e quartetti delle staffette in base alle amicizie e alle pressioni politiche, impedendo agli atleti di affiatarsi e di costruire una staffetta credibile.

Non so cosa succederà a Collio; essendo in Italia, credo che cacceranno lui invece che i capi dell’atletica.

P.S. Ci sarebbe anche da parlare dei non italiani; solo oggi, c’è stato un Usa-Spagna stellare come finale di basket, una partita incredibile con la Spagna ancora in gara a un minuto dalla fine, a forza di bombe e schiaccioni in faccia a Bryant e soci. E poi, entrambe le cerimonie, con alcuni momenti bellissimi: il conto alla rovescia in quella iniziale, e la torre con i fiori umani e i nastri volanti in quella finale. Intanto, i londinesi mi hanno già fatto godere, perché nel loro segmento della cerimonia di chiusura hanno pensato bene di esibire il paesano Jimmy Page, con tanto di chitarra dal vivo, in Whole Lotta Love. Pechino e Londra unite dai Led Zeppelin: yo, fratelli di rock.

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