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lunedì 24 Marzo 2008, 09:08

Cairo (la città, non la persona)

Tutte le mie idee precedenti su questo posto sono state spazzate via prima ancora di atterrare, mentre lo scassone Alitaglia (ma fatela fallire, dai, è triste vederla soffrire così) si avvitava come un cavaturaccioli cercando di infilare la pista dell’aeroporto. Ho capito che c’era un vento della forca, visto che la manica a vento accanto alla pista non solo stava permanentemente orizzontale, ma aveva l’aria del naufrago che cerca con tutte le sue forze di restare aggrappato ad un pezzo di legno per non venire trascinato via dalla corrente. Eppure, Cairo si riassume con una sola parola: caldo. Voglio dire, è il 23 marzo, a Roma piove, e qui ci sono 37 gradi: quando il pilota l’ha annunciato ho pensato a uno scherzo.

Scrivo quando sono in Egitto da circa tre ore; per la precisione, sono sul terrazzo della mia stanza d’albergo, e sto resistendo alla voglia di farmi un bagno in piscina, non tanto perché ieri avevo ancora 38 di febbre, quanto perché sto indossando i miei pantaloni da bagno e devo purtroppo dire che ci entro dentro soltanto in modo nominale, e che se provassi veramente a usarli per dimenarmi nell’acqua esploderebbero come uno pneumatico troppo gonfio. Quindi mi son messo qui, per godermi il vento e il profumo d’acqua e di erba, naturalmente entrambe artificiali, visto che siamo in mezzo al deserto; e anzi mi chiedo come facciano gli inappuntabili camerieri di questo posto ad aggirarsi a bordo vasca in gilè, pantaloni e camicia a maniche lunghe.

Prima di rientrare al fresco dell’aria condizionata, però, ho già da raccontare il mio primo impatto con l’Egitto, maturato durante un’ora di guida tranquillamente allucinata per le tangenziali del Cairo. Già, perchè dall’aeroporto a qui devono esserci una cinquantina di chilometri, tutti attraverso le infinite propaggini di questa città che ha probabilmente tra i dieci e i venti milioni di abitanti. Le tangenziali sono larghe e autostradali, ma il paragone con le altre città del genere finisce qui; in questo posto, le tangenziali e le strade in genere sono teatro di un continuo videogioco che mi ha lasciato ammirato.

Solo qui, per dire, ho visto una superstrada a quattro corsie per senso di marcia in cui viaggiano in parallelo a ottanta all’ora sette auto, quattro sulle corsie e tre sulle righe tratteggiate tra le corsie, in un miracolo di gomito a gomito che non lascia mai più di cinque centimetri a fianco o davanti o dietro a ciascuna auto, costantemente bordeggiando e beccheggiando e superando e controsuperando e oscillando verso destra e verso sinistra. Le macchine non scorrono, si incastrano dinamicamente; proprio come in Out Run, arrivano i momenti complicati in cui hai un camion lento a sinistra, un furgone carico di ceste di vimini sulla destra che lentamente si sta spostando in mezzo, due macchine che si sorpassano subito più avanti, e tu calcoli che l’unica traiettoria possibile per non schiantarti è sorpassare a destra il camion, accelerando per passare davanti al rientro del furgone, ma poi scartando ancora a destra per usare la banchina sterrata e schizzare davanti a tutti; e poi, come se tutti telepaticamente si fossero parlati e senza la necessità nemmeno di un colpetto di clacson, questo è esattamente ciò che accade. In confronto, i zig-zag che faccio io su corso Peschiera quando sono di fretta sono delle innocenti evasioni; credo che guidare qui mi darebbe tutto un altro sprint.

Tutto questo avviene su strade pari a quelle televiste in Iraq: vero, ci sono i segnali e le corsie tracciate, ma sono più che altro di bellezza. Per esempio, qui ho scoperto l’esistenza della mezza corsia: la corsia di sinistra che però a un certo punto, causa restringimento della strada, si riduce a 80 o 50 centimetri, epperò continua ad essere tracciata con la sua brava riga bianca tratteggiata, e ovviamente viene occupata sbordando a portellate in quella a fianco. E poi, ogni tanto c’è l’ostacolo traditore: improvvisamente in mezzo alla strada compaiono un carretto a cavalli, un camion in panne, una voragine, persino un blocco di cemento (mille punti). Nel frattempo, siccome la superficie è irregolare e gli ammortizzatori sono cadaveri di Tiramolla, dopo cinque minuti di viaggio hai già il mal di mare.

Così ho attraversato per quasi un’ora un infinito mare di casupole dallo scheletro di cemento e dai mattoni rossi, tutte col tetto piatto (o più facilmente un altro piano non finito in cima), tutte impolverate dalla sabbia e dal vento, tutte inframmezzate da stretti vicoli e da qualche via sterrata, tutte abitate da un mare di umanità poverissima, con torme di bambini scalzi che giocano a calcio con qualcosa che visto bene non è certamente un pallone, e sembrava più un grosso melone o un globo di creta, non so. E’ una skyline infinita di lineette orizzontali ad altezze irregolari ma più o meno costanti, una specie di segnale discreto che mura l’orizzonte, stipando il terreno di case comunque alte e comunque densissime, perché qui la terra buona è solo a raggio d’innaffio dal fiume, e gli egizi moderni sono troppi.

La cosa però strana da intuire è che la terra qui sarebbe verde e ridente di suo, coperta d’erba che cresce nel limo rigoglioso del fiume; infatti il ponte sul Nilo è uno spettacolo magnifico, una lenta e infinita quantità d’acqua che scivola piano in mezzo a una selva verdissima di piante che sprizzano dure verso il cielo, e sembrano palme più piccole. E’ invece l’uomo che desertifica il limo, costruendoci sopra case su case, strade sterrate e spiazzi da mercato di carabattole e verdure, e premendoci sopra in maniera insopportabile. Ho subito associato questa città a Pechino, ma come suo totale opposto: tanto fredda, ordinata e fiorente quella, quanto caotica, calda e decadente questa. Forse così è come finirebbe Pechino se vi sostituissimo la cultura cinese con quella arabo-cristiana…

Qui, però, a un certo punto succede l’incredibile: qualcosa che non si spiega. Perchè dopo un’ora di auto, in mezzo all’ennesimo ingorgo, all’improvviso dietro la solita riga piatta e irregolare di casupole si stagliano due punte: le piramidi di Giza. E’ indescrivibile l’effetto che fanno: anche a venti chilometri di distanza, si capisce che non c’entrano niente con questo pianeta. Eppure non si riesce a staccare lo sguardo: in fondo, sono solo due triangolini appena visibili in fondo alla foschia, eppure non si riesce a staccare lo sguardo. Non so che cosa diavolo abbiano di speciale, sarà che sono gli unici due triangoli in un mare di lineette orizzontali, sarà che punte a triangolo di cento metri d’altezza non ce n’è molte al mondo, so solo che davvero, veramente non si riesce a staccare lo sguardo. L’autista del taxi deve esserci abituato, non fa nemmeno caso a me che come un idiota passo dieci minuti buoni con lo sguardo fisso su di un solo punto dell’orizzonte.

Alla fine la superstrada sale sopra ad alcune colline, per cui perdo di vista le piramidi ed entro in un altro mondo: questi devono essere i quartieri dei nuovi ricchi (ammesso che ce ne siano). Cioè, sono densi e sabbiosi come gli altri, ma si vede che sono per ricchi: per prima cosa perché lungo la strada compaiono le pubblicità, essenzialmente di università private oppure di negozi di moda. Poi perché appare un centro commerciale, con un trashissimo carrello di cartapesta alto circa dieci metri come insegna, con tanto di cartone del succo d’arancia formato gigante all’interno. E poi perché questi quartieri sono pretenziosi: immaginate, per dire, un palazzotto mediterraneo, tre piani, cinque o sei finestre per piano, ogni finestra con l’arco e una bifora dentro, però il tutto fatto di cemento prefabbricato, replicato all’infinito, in un quadrato di trenta palazzotti per lato, separati l’uno dall’altro al più da due metri di vuoto; e all’ingresso una specie di arco di trionfo greco-romano-egizio, ampiamente dorato, con scritto il nome del progetto immobiliare.

Sì, lo so, sono tamarri: per quanto la cultura araba possieda grandi sacche di raffinatezza, e per quanto gli arabi non siano certo paragonabili ai popoli che raggiungono le vette della tamarraggine (l’intero Sudamerica in testa), e per quanto noi italiani dovremmo stare zitti quando si parla di tarri (sul mio aereo c’era quella che pareva mezza classe quinta dell’ITIS Chanel Totti di Monterotondo), gli arabi ottengono comunque lo Shakirino d’Oro in alcuni settori ben definiti, come i gioielli, i vestiti e la pomposità architettonica. E però qui è tutto nuovo, tutto in costruzione: cavolo, più che Egitto sembra quasi la Turchia.

Ovviamente il mio albergo è proprio in mezzo a questi nuovi insediamenti, dietro l’angolo della sede della CAF (l’equivalente africano dell’UEFA): l’avrà scelto Cairo-la-persona? Comunque, all’elenco di tamarraggini ho dimenticato di aggiungere la musica: il mio albergo ha appena deciso di contribuire all’atmosfera piazzando quattro enormi casse a bordo vasca che ora sparano un remix techno-trance di What A Feeling. Ecco, ora segue la musica dello spot della TIM. Vabbe’, torno dentro e sbarro le imposte.

[tags]egitto, cairo, alitalia, piramidi, viaggi[/tags]

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lunedì 24 Marzo 2008, 08:50

Dacci oggi il nostro Papa quotidiano

Questo era un post su Magdi Allam e il Papa. Conteneva una battuta che ridicolizzava contemporaneamente Magdi Allam, il Papa, il convertirsi al cristianesimo sui giornali e l’omosessualita’ della chiesa. La battuta era tanto offensiva quanto divertente, pero’ poi ho capito che nell’Italia di oggi, se per caso qualcuno l’avesse linkata, mi sarebbe costata una denuncia per diffamazione. E quindi ho deciso di cancellarla.

[tags]papa, allam, giovani luttazzi[/tags]

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domenica 23 Marzo 2008, 09:01

Aerei

Se leggete questo post, è perché alla fine, nonostante la guarigione ancora decisamente incompleta (ieri mattina avevo ancora oltre 38), ho preso l’aereo che in una mattina qualsiasi (pur se pasquale) mi porterà in [posto qualsiasi del mondo].

In questo caso, il posto è Il Cairo, dove parteciperò a questa conferenza organizzata da questi ragazzi della Fondazione Suzanne Mubarak (la First Lady d’Egitto). Il tema del mio panel è “L’importante ruolo dei tutori dell’ordine nella repressione dei pericoli per i bambini in rete”, e se vi state chiedendo cosa c’entro io, per favore fornitemi la risposta; in realtà, l’idea è di presentare l’approccio alternativo dell’Internet Bill of Rights e, più in generale, il concetto che in rete spesso è molto più opportuno adottare un approccio di “soft enforcement” che di repressione e censura.

Il mio obiettivo è quindi quello di fare queste dichiarazioni senza offendere nessuno, e allo stesso tempo però di mettere in atto il mio diabolico piano: difatti, accanto a me nel panel ci sarà Howard Schmidt, l’ex consigliere per la sicurezza informatica di George W. Bush, una delle persone che hanno avuto per le mani idee come il famoso Total Information Awareness e tante altre. Bene, considerato che in questo momento io sono un ordigno batteriologico che ribolle di micidiali germi dell’influenza, avete idee su come io possa utilizzarmi a vantaggio dell’umanità?

P.S. Dear Department of Homeland Security: it’s a joke.

[tags]cairo, egitto, aerei, conferenze, bambiiiiini[/tags]

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sabato 22 Marzo 2008, 18:37

Allucinazioni

Sono stati due giorni piuttosto pesanti, tanto che a un certo punto il medico della mutua si è deciso a darmi gli antibiotici; sarà stata la combinazione di temperature alte e medicine, ma ho avuto parecchie allucinazioni.

Per esempio, stamattina l’assunzione contemporanea di antibiotico, Tachipirina e Plasil mi ha inchiodato nel letto per quattro ore, con una specie di sonno chimico ad occhi aperti in cui devo aver recuperato una settimana di notti insonni, facendo nel contempo anche qualche sogno veramente allucinato; come quello in cui, dopo aver rifiutato due volte di sposarmi tra grandi lacrime di chiunque, finivo per espellere nella pipì le scorie dell’antico aborto di un mio fratello gemello.

Ma l’allucinazione più strana l’ho avuta ieri: verso l’ora di pranzo, ho sognato di alzarmi e di accendere il televisore. Sullo schermo veniva fuori il primo canale, su cui c’era una trasmissione televisiva che sembrava Il pranzo è servito, e comunque doveva risalire alla mia infanzia, anzi ancora prima: tipo agli anni ’50, perché in questa trasmissione c’erano solo massaie che, in un giorno comunque lavorativo, passavano delle ore a cucinare piatti assurdi, peraltro tutti rigorosamente senza carne perchè “oggi è Venerdì Santo”.

Immersa in questa atmosfera agreste e clericale, c’era una conduttrice che doveva essere tipo Antonella Clerici, però cicciobomba in una maniera pazzesca, e ridotta a tirar fuori le tette per attirare l’attenzione – tra parentesi, ricordo comunque che le tette di Antonella Clerici sono ufficialmente riconosciute come entità indipendente, ed ebbero tempo fa anche una voce su Wikipedia:

screenshot_wikipedia_clerici.png

Bene, fin qui la scena era un po’ inquietante, con questa rappresentazione fintissima dell’Italia che fu – figuratevi che a un certo punto facevano una gara tra lo stoccafisso vicentino e quello calabrese e il televoto finiva accuratamente in parità, che caso – ma nulla di grave.

Tuttavia, l’allucinazione a un certo punto diventava più forte, perché nelle vesti di concorrente alla trasmissione compariva una persona che conosco, una amica – in mezzo al pubblico si vedeva pure il suo fidanzato – che sfidava culinariamente una specie di nerd della val Brembana, con tanto di camicia verde a quadrettoni stile Sette spose per sette fratelli di Bossi, il quale iniziava mostrando per due volte di fila la schiena alla telecamera.

Anche la mia amica era ovviamente tutta tesa, e così le chiedevano di raccontare un po’ della propria vita. All’inizio il racconto era vero, sembrava proprio come nella realtà, ma poi, come spesso accade nei sogni, c’era la svolta improvvisa: siccome raccontava che aveva comprato casa con il suo fidanzato e stavano per andare a vivere insieme, la Clerici improvvisamente sbarrava gli occhi, la interrompeva e strillava una cosa come “QUINDI VI SPOSATE VEEROOO???” e lei, con la telecamera alla tempia, pronunciava il fatidico sì.

Il resto del sogno, a parte i miei lieti messaggi di felicitazioni agli sposini novelli, è piuttosto confuso. Però sono contento che sia stata soltanto una allucinazione dovuta alla febbre alta! Pensate quanto sarebbe deprimente vivere sul serio in un paese dove la televisione di Stato non ammette la carne in trasmissione perché si è in una festività cattolica, e dove non è permesso dire in pubblico che si va a vivere insieme senza subito precisare che naturalmente lo si farà soltanto da sposati.

[tags]allucinazioni, rai, vescovi ovunque, civiltà del vaticano[/tags]

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giovedì 20 Marzo 2008, 14:57

Grandi momenti

Causa febbre, faccio ancora fatica a formulare pensieri coerenti (e quel po’ che riesco a formulare è andato per spiegare ai miei soci che no, non importa quanto sia allettante il business che si discuterà stasera in ufficio e quanto sia significativa la presenza al completo di tutta la compagine sociale, se uno ha 39,5 di febbre non esce di casa). Per questo motivo mi sono dedicato, nelle poche ore in cui sono stato cosciente, a rivedere filmati su Youtube; finché non ho deciso di concedermi un po’ di buona musica, ritrovando una esibizione leggendaria dei primi anni ’90, che ho il piacere di condividere anche con voi.

Eccovi quindi il leggendario conduttore e showman siciliano Alfredo Castro, nella sua esecuzione mozzafiato di Hey Jude. Chissà che McCartney non la offra alla moglie come regalo d’addio.

[tags]alfredo castro, antenna sicilia, hey jude, beatles, musica[/tags]

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mercoledì 19 Marzo 2008, 20:22

Telegiornali marchetta

Essendo bloccato in casa a far niente con quasi 40 di febbre, mi è capitato stasera di vedere dopo tanto tempo il TG3. Mi aspettavo ampio spazio alle notizie sul Tibet, e invece sono rimasto sconvolto: su 30 minuti, qualcosa come 25 sono stati dedicati a interviste ai politici. Non scherzo! Oltre ad un infinito pastone iniziale sulle elezioni, da cui ho scoperto imperdibili partiti di cui ignoravo l’esistenza come la Unione Democratica per i Consumatori, ogni argomento era un buon motivo per far parlare i politici. Alitalia? Guai a dirmi qualcosa sui problemi e sull’evoluzione della trattativa, ma ecco cosa ne pensano tutti gli schieramenti (ovviamente banalità). Economia? Ecco tre minuti di immagini di Napolitano che parla a un convegno. Ambiente? Tre secondi di paesaggi marini, seguiti da tre minuti di Rutelli che illustra le sue grandi idee per la tutela del paesaggio. E così via.

E’ in questo modo che ho scoperto una chicca leggendaria: lo sconto elettorale sulla benzina. In pratica, in un disperato tentativo di conquistare voti, il governo uscente ha approvato, con effetto da domani, una riduzione di due centesimi al litro delle accise sul carburante. Ma attenzione: ammesso che i prezzi calino veramente e che lo sconto non sia direttamente incamerato dai petrolieri, questa è una “misura temporanea” che scadrà, che caso, il 30 aprile. Come a dire: passate le elezioni, gabbato lo elettore…

[tags]politica, elezioni[/tags]

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mercoledì 19 Marzo 2008, 09:35

Mi è sembrato di sentire “cazzo”

Non bisognerebbe infierire sulle vecchie star sul viale del tramonto, ma questo video della Berté che con stile e femminilità scarica le valigie in casa al ritorno da Sanremo merita la visione. A meno naturalmente che vi diano fastidio le bestemmie.

[tags]berté, sanremo, maleducazione, artisti?[/tags]

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martedì 18 Marzo 2008, 21:58

Matematikea

Memo: Per montare un mobile Ikea largo 120 cm e alto 192, ma con il fondo che si infila dall’alto scivolando tra i fianchi dentro due binari, non è sufficiente una stanza lunga 192 cm, ma ne serve una lunga 384.

Ad ogni modo, se lo state montando nell’ingresso, è sufficiente orientare la struttura del mobile in modo che i fianchi, distesi per terra, puntino verso la porta d’ingresso; poi aprire la porta dell’appartamento e infilare il fianco dal pianerottolo delle scale.

Se invece siete persi nell’impossibile impresa di far combaciare contemporaneamente sei diverse viti con i buchi su tre diversi fianchi, e allo stesso tempo far entrare un fondo originariamente piegato a metà in larghezza (e quindi tendente a cadere) in una scanalatura profonda pochi millimetri e perfettamente dritta, potete fare come me: dopo un’ora di bestemmie, mandate al diavolo le istruzioni afone dell’Ikea e rovesciate la struttura su un fianco. Così sì che si può raddrizzare il fondo, a martellate e ginocchiate!

[tags]ikea, forse era meglio se li compravo montati[/tags]

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martedì 18 Marzo 2008, 14:27

Tibet, le molte facce della verità

Per approfondire la discussione sul Tibet, ho cercato di procurarmi altre informazioni dalla rete. I blog italiani confermano quanto ho scritto; non vi ho trovato null’altro che luoghi comuni e opinioni preconcette, fino ad un tizio – no, non lo linko – che pubblica dettagliatissime foto di cadaveri (ovviamente solo quelli tibetani), una cosa veramente disgustosa che dimostra che, pur di sostenere le proprie posizioni ideologiche e nel frattempo magari aumentare pure gli accessi al proprio blog, non ci si ferma di fronte a nessun tipo di basilare rispetto per la morte e la sofferenza umana.

In compenso, ho trovato un gran bel post di un turista francese a Lhasa, risalente a sabato; egli parla con i tibetani e simpatizza per la loro causa, ma racconta anche, con l’occhio imparziale dell’osservatore, cose che i nostri blog tutti “free tibet” si guardano bene dallo scrivere.

Per iniziare, comincia con il racconto dei cinesi linciati dai tibetani con le pietre e con le mattonelle del marciapiede, per poi raccontare che “ho assistito in un’ora a una decina di linciaggi e di risse, talvolta da parte di un gruppo di venti tibetani che inseguono e pestano a sangue un cinese”, e concludere che “viene il momento di attaccare i negozi cinesi: pochi minuti sono sufficienti per sfondare le loro serrande e bruciare il loro contenuto in mezzo alla strada”.

Poi i tibetani spiegano che stanno reagendo a tutto quel che sappiamo, che “non è nella nostra cultura di essere violenti, ma non c’è stata scelta, è a causa dei monaci”; che la loro cultura è trasmessa oralmente, e saccheggiando i monasteri i cinesi la distruggono; che i cinesi gli insegnano come diventare ricchi, ma “noi non vogliamo essere ricchi, vogliamo essere liberi”.

Racconta poi che Lhasa è una città moderna, “high tech”, in gran parte ricostruita dai cinesi negli ultimi dieci anni, ma che i tibetani si lamentano che i cinesi incassano tutti i proventi delle nuove attività e del turismo; che di colpo, migliaia di tibetani hanno dovuto imparare il cinese per trovare lavoro, e che i cinesi guardano male quelli che, venendo dall’India, sanno anche l’inglese; che “Già adesso, a Lhasa, la maggioranza degli abitanti sono cinesi. Ovunque non ci sono che cinesi. E con il controllo delle nascite, noi non possiamo avere che uno o due bambini al massimo, altrimenti tocca pagare il governo. Loro, arrivano ogni anno a decine di migliaia. Abbiamo la sensazione di esserne sepolti.”

Il turista chiede a cinque ragazze tibetane se hanno degli amici cinesi: nessuna ne ha. “I tibetani e i cinesi non si mescolano. I cinesi si riconoscono dalla faccia e dal loro modo di vestire.” Poi continua a raccontare: “Ieri, per la strada, i cinesi individuati in questo modo hanno passato un brutto quarto d’ora. Ci sono stati dei morti, ma è difficile dire quanti. I moti hanno fatto più di 100 morti secondo alcune fonti.”

I tibetani raccontano anche le torture subite dai dissidenti: “In un ristorante per la strada, se vedi un tibetano diresti che è stupido. Ma prima, quando era giovane, era molto brillante, molto colto, e molto dotato per la pittura. Un giorno si è fatto prendere dalla polizia perché sventolava una bandiera tibetana. E’ stato in prigione per 13 anni. Ha subito un lavaggio del cervello, è stato torturato con l’elettricità. Ne è uscito completamente abbrutito, e non si ricorda più niente.”

Il turista francese, prima di lasciare la città, trae queste conclusioni: “La volontà dei tibetani di essere liberi è dunque ancora così forte, forse ancora di più dopo l’accelerazione della colonizzazione cinese in questi ultimi anni. Nello stesso paese, nella stessa città, ci sono chiaramente due categorie di persone che convivono ma non si mescolano. La diffidenza e la collera soffocata dominano le relazioni sociali. Il governo cinese denuncia la morte di cinesi innocenti. Ed è vero: i cinesi linciati e quelli i cui negozi sono stati saccheggiati sono persone degne di considerazione. Ma assistendo a questo scatenamento popolare, ho capito che in questo genere di situazioni non ci sono più né onesti né malfattori. Si è tibetani contro cinesi. Questi cinesi vittime dei tibetani sono vittime anche della politica del loro stesso governo. I tibetani sperano proprio che i cinesi avranno d’ora in poi paura di venire a insediarsi in Tibet.”

Questa è la prima testimonianza di prima mano che leggo, e che non venga da un sito di propaganda di una o dell’altra parte o da qualche media occidentale con chissà quale agenda. Mi sembra che, pur confermando le atrocità che vengono commesse dal governo cinese, il racconto dimostri come la situazione sia molto più complessa, ben lontana dalla visione preconcetta e semplificata del monaco inerme davanti a un carro armato che ne danno quasi tutti i blog e i media italiani. Si tratta di uno scontro etnico tra due popoli, uno autoctono e uno emigrante, che lottano con violenza per lo stesso territorio, con i fucili, con le pietre, con le attività economiche, con l’evoluzione demografica.

Purtroppo, di questo genere di scontri è piena la storia. Di solito, nonostante gli sforzi, essi non si concludono fino a che uno dei due popoli non viene sterminato o cacciato completamente; perché purtroppo la via per la convivenza, quella che richiede la tolleranza, l’accettazione della differenza, la costruzione di una fiducia reciproca, è sempre la più difficile.

[tags]tibet, cina, politica, notizie, economia, blog[/tags]

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lunedì 17 Marzo 2008, 16:17

Riso in bianco

Oggi ho un gran mal di stomaco e sto poco bene, per cui ho pranzato con il classico riso in bianco, appena condito con un filo d’olio e accompagnato con un po’ di pane.

Mentre mangiavo, pensavo a come sia insensato che il riso in bianco, che per millenni ha costituito una parte fondamentale dell’alimentazione del mondo e che tuttora lo è in interi continenti, da noi sia considerato soltanto un alimento per malati, o al massimo un contorno; per il resto è un cibo da sfigati, visto che se proprio hai voglia di riso ci si aspetta che tu faccia perlomeno un risotto, e comunque i nostri pranzi e le nostre cene sono ben altra cosa, anche quando non sono particolarmente elaborate.

La stessa cosa inizia a valere anche per il pane; il mio era fatto da me, ed era del pane bianco normalissimo, anche se cotto partendo dal preparato invece che mescolando farina e lievito. Certo, ci ho aggiunto l’energia per cuocerlo, ma anche così il mio chilo di pane non solo costa la metà di quello del supermercato, ma è anche molto migliore.

Pensando che in fondo anche la mia pagnotta era stata realizzata con metodi appena meno industriali del solito, ho capito che la domanda giusta non è come faccia quel pane lì a conservarsi una settimana e ad avere quel gusto comunque buono, ma come faccia il pane del supermercato a non sapere di niente e a diventare gomma o roccia entro la sera stessa. Io forse non l’avrei mai scoperto, ma ora lo so: è difficile fare del pane cattivo. E allora, che cavolo ci mettono per fare il pane così male?

Sarà per questo o forse perché ci sentiamo troppo soli, che negli ultimi anni il concetto di pane è molto cambiato, e quasi nessuno esce da una panetteria o da un banco pane del supermercato senza almeno un pane alle olive, un grissino al sesamo, un pezzo di pizza o una tortina, naturalmente a prezzi per chilo tre o cinque volte superiori. Sarà per questo che anche oggi su La Stampa esce un articolo che parla di “settimana del disastro” perché, una settimana al mese, c’è gente che deve rinunciare al resto e comprare “solo” il pane, mentre “pizza e dolci calano di oltre il 50 per cento” (cioè, metà della gente li compra per quattro settimane su quattro, gli altri solo per tre su quattro). Per poi concludere che “già imperversa un nuovo allarme: il mercato delle uova di cioccolato e dei dolci pasquali viaggia su ritmi del 10-15 per cento inferiori rispetto al 2007”!

Se parliamo del problema contingente di chi vive di commercio al dettaglio posso anche capire, ma proprio non riesco a vedere un calo del dieci per cento nel consumo di uova di Pasqua come un “disastro” e un “allarme”. Vedo se mai un “disastro” e un “allarme” in una società che prende un calo del dieci per cento nel consumo di uova di Pasqua come un problema drammatico, al punto da abbandonarsi a scene isteriche o proteste di massa.

Ci aspettano tempi in cui potremmo dover rinunciare ad altro che le uova di Pasqua; per esempio all’auto personale, ai viaggi aerei superscontati, ai vestiti da buttare dopo mezza stagione, e probabilmente anche ai grissini al sesamo, visto il trend del prezzo dei cereali. Forse torneremo anche noi, come ha sempre fatto mezzo mondo, a mangiare stabilmente pane e riso in bianco, con la carne solo nelle feste grosse.

Grandi o piccoli, alcuni sacrifici andranno fatti; ed è l’evidente impreparazione della nostra società ad accettarli che mette in pericolo il futuro pacifico del pianeta, più ancora che i sacrifici stessi.

[tags]la stampa, società, economia, salari, povertà, recessione, crisi, cibo, pane, riso[/tags]

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