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mercoledì 12 Maggio 2010, 16:24

Formazione a tenaglia

Giusto ieri mattina, Specchio dei Tempi apriva con la lettera di una ragazza venticinquenne che esprimeva “sdegno”. Barbara, questo il suo nome, finite cinque anni fa le scuole superiori ha scelto il suo mestiere, e ha seguito un corso di formazione pubblico (per lei gratuito, e interamente pagato dalla Regione Piemonte) per diventare “Tecnico Marketing e Promotore Enogastronomico”. Bene, parrà strano, ma a cinque anni dal conseguimento di cotal qualifica la povera Barbara (alla quale, sia chiaro, va tutta la mia solidarietà) ancora non ha trovato lavoro. E allora si indigna: come mai la Regione non “chiama mai a lavorare” alle fiere del salsiccione e della tinca gobba il personale qualificato come lei, che si vede rubare il lavoro da altri ragazzi, assolutamente non preparati e non competenti nel settore della tecnica del marketing per la promozione enogastronomica?

E’ evidente una serie di ingenuità tutte italiane: quella di credere che per lavorare conti il pezzo di carta, anzi che il pezzo di carta conferisca una precedenza inconfutabile nell’accesso al lavoro; quella di immaginare che il lavoro non si ottenga con lo sbattimento dal proprio lato, ma si riceva per chiamata dalla mamma-Stato (o dalla mamma-azienda), ragion per cui il modo di ottenere un’occupazione sia quello di lamentarsi con gli enti pubblici; e quella di pensare che sia il pezzo di carta e il relativo corso di formazione a creare i posti di lavoro, anziché le esigenze del mercato.

Detto questo, Barbara ha ragione a lamentarsi; perché non ha alcun senso che gli enti pubblici spendano ogni anno palate di miliardi per organizzare corsi di formazione per qualifiche assolutamente strambe. Le fiere si sono sempre fatte, e non credo che si sentisse un problema di sottoqualificazione delle signorine messe lì a vendere barbera o salami nostrani. Ma se è l’ente pubblico ad autorizzare speranze poco sensate nei ventenni di turno, a cui spesso non viene data altra alternativa che continuare a studiare perché il lavoro non si trova, la responsabilità è innanzi tutto dell’ente pubblico stesso.

La verità, peraltro, è nota a tutti: il settore della formazione pubblica, che in sè avrebbe ampio merito, negli ultimi anni è stato gonfiato a dismisura proprio per consentire un travaso ottimo e abbondante di fondi dalle casse pubbliche a quelle di cooperative, aziende e gruppi vari ma invariabilmente vicini alla politica; e così altri settori contigui e ricchi di appaltatori pubblici, come quelli sociali, quelli culturali, quelli di vigilanza. In città il caso più noto è quello di Mauro Laus, la cui carriera politica va di pari passo con quella della sua Rear, che insegue o vince o perde appalti proprio mentre lui passa dalla Margherita al PD e poi ai Moderati e poi di nuovo al PD, naturalmente e sempre per motivazioni strettamente politiche.

Non dev’essere nemmeno tanto piacevole gestire un’azienda così, sapendo che al primo cambio di vento rischi di dover mandare a casa la gente. D’altra parte c’è il vantaggio che questi settori ben si prestano all’uso di forme giuridiche defiscalizzate come la cooperativa o l’associazione senza fine di lucro; tanto lo scopo non è pagare dividendi, è sufficiente pagare bei stipendi e bonus a chi li dirige o anche solo far girare i soldi verso sub-fornitori. E in tutto questo è essenziale che i corsi siano gratuiti o addirittura prevedano qualche lira per chi li frequenta, in modo da essere certi che si presentino degli studenti a giustificare lo stanziamento pubblico.

Esistono però anche altri “modelli di business”: ad esempio, il corso può non essere pagato dalle casse pubbliche, ma dagli studenti, costretti mediante l’istituzione di albi professionali dal dubbio significato a mettere mano al portafoglio nella speranza di poter poi lavorare. In questo caso, il ruolo della politica non è quello di finanziare direttamente le aziende incassatarie, ma quello di creare regole pensate essenzialmente per imporre alle famiglie una “tassa sull’aspirazione a lavorare”, nel contempo mantenendo comunque il controllo sui beneficiari dell’affare e creando l’ennesima castina all’italiana che, oltre a diventare un organizzato bacino elettorale, distingue chi può lavorare da chi no (salvo amicizie che permettano di chiudere un occhio).

In questa categoria ricade l’ennesima chicca che mi hanno segnalato oggi: la Regione Piemonte ha pronto un nuovo imprescindibile corso di formazione. Non ho idea di chi sia la fortunata azienda appaltatrice che dovrà farsi in quattro per fornire adeguata istruzione; so solo che si chiama Formont (ossia “formazione per la montagna”) ed è un “consorzio di enti pubblici e privati” non meglio specificato (immagino serissimo, eh; mica è tutto da buttare). Sono tuttavia curioso di sapere chi saranno gli insegnanti, dato che il corso intende formare i ventenni torinesi per una attività di grande valore aggiunto che richiede senz’altro altissima specializzazione: quella di buttafuori.

Ora siete liberi di ipotizzare in cosa consisteranno le 51 ore di corso, divise tra 24 “giuridiche” (come pestare un passante e non finire in galera), 9 “tecniche” (le migliori posizioni spaccaossa) e 18 “psicologico-sociali” (il dramma interiore del buttafuori moderno), che permetteranno poi di iscriversi all’agognato “albo dei buttafuori”. Sono certissimo che l’istituzione di questo pezzo di carta a pagamento permetterà di ridurre quegli incresciosi episodi di accoltellamenti e risse tra buttafuori e clienti: un po’ come l’ordine dei giornalisti garantisce in Italia una grande libertà di stampa.

[tags]formazione, regione piemonte, laus, moderati, pd, fondi pubblici, buttafuori, lavoro[/tags]

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martedì 11 Maggio 2010, 11:31

Ripagare le banche con la loro moneta

Il bello dei dogmi è che, dato che non possono essere messi in discussione, permettono di prevedere con certezza cosa succederà. I dogmi di questi giorni, per la precisione, sono due: il fatto che anche gli Stati, come già le banche, non debbano fallire, e il fatto che l’Europa debba essere unita da una sola moneta. E sono talmente forti che alla fine la Merkel ha accettato di perdere le elezioni in casa propria pur di non doverli rinnegare.

E’ chiaro che noi stiamo stappando champagne: la strada imboccata dall’Europa vuol dire che possiamo continuare a fare debiti in allegria, tanto li pagheranno i tedeschi, gli olandesi, gli austriaci e così via; anzi ora abbiamo tirato dentro pure il Fondo Monetario Internazionale, per cui li pagheranno anche gli americani, i giapponesi e persino i brasiliani, gli indiani e i cinesi. In questo senso, la nostra entrata nell’euro è un capolavoro di pacco all’italiana.

D’altra parte, gli economisti escono da questo fine settimana con le ossa ancora più rotte: per motivi politici, la Banca Centrale Europea ora si metterà a comprare i titoli di Stato del Sud Europa per stabilizzarne il mercato. E con cosa pagherà questi acquisti? Si è parlato di una “tassa europea” di qualche genere, anche se limitata alle transazioni finanziarie; e questa è la via che spiacerebbe di meno ai finanzieri, anche perché sarebbe un ulteriore passo avanti verso l’“unione europea dei banchieri”, accentrando per la prima volta nella Storia il potere di imporre tasse nelle mani dell’Unione e dunque sottraendo ancora un po’ di sovranità agli Stati nazionali. La verità però è un’altra; che, alla fine, se la crisi peggiorerà (e prima o poi i debiti verranno al pettine), l’unica cosa che potrà fare la BCE è stampare euro, facendo crollare il pilastro della politica monetaria europea da quando esiste la valuta unica – quello che gli Stati non possono finanziare la propria allegra spesa pubblica con la stampa di nuova moneta.

Dal punto di vista politico sono due le visioni che si scontrano; da una parte, gli economisti e i liberisti sostengono che la crisi non è causata da loro, ma dai livelli insostenibili di spesa pubblica abbracciati dai politici del Sud Europa a fronte di una crescita insufficiente; dalle baby pensioni calcolate col sistema retributivo, dalla bassa produttività dei lavoratori, dalla eccessiva spesa in cassa integrazione e in incentivi per sostenere aziende decotte e fallimentari, in generale dalla “bella vita” che greci, spagnoli e italiani farebbero. In questa visione l’unica via d’uscita possibile è data da tagli e sacrifici per le persone, e manovre di “copertura” come quella di sabato sono solo l’ennesimo atto irresponsabile da parte di politici populisti.

Dall’altra, c’è la visione anticapitalista per cui la crisi è solo l’ennesimo sussulto di manovre speculative globali, in cui una manciata di banchieri americani prendono di mira questa o quella nazione per arricchirsi sul suo affossamento e poi arricchirsi di nuovo con i soldi pubblici immessi nel sistema per evitarlo; e per cui la colpa della situazione mondiale ricade proprio sugli economisti, sui finanzieri e su tutti coloro che hanno disegnato e gestito l’economia globale per trent’anni, e che non sono in grado di affrontare il cambiamento di scenario dovuto all’esaurimento dello spazio di crescita.

Qual è la verità? Probabilmente sono vere entrambe; è vero che, in Grecia come in Italia, il debito cresce in maniera irresponsabile e molto denaro viene sprecato in privilegi, sprechi e ruberie, espressamente voluti dal sistema politico per motivi di interesse personale o di consenso politico; ed è vero che le ricette “lacrime e sangue” proposte dalla finanza internazionale solitamente vogliono scaricare sulla classe media i sacrifici, a fronte dell’arricchimento e della speculazione di pochi, cercando poi di ritornare al “business as usual” – e chi ha fatto i soldi se li tiene.

Per questo la discussione su chi abbia ragione mi interessa poco; certo l’idea di ripagare Francia e Germania rendendo carta straccia la moneta che hanno fortemente voluto è interessante; sul fatto che ciò possa preludere a un luminoso futuro (o che possa portare ad altro che alla forzata esplosione dell’Unione Europea) sono però molto scettico. La verità è che la nostra economia è un camion fermo col motore fuorigiri, a cui pare avvicinarsi uno tsunami; come ripartire in tempo per evitarlo, e soprattutto in che direzione muoversi, pare non saperlo nessuno.

[tags]economia, banche, europa, euro, bce, grecia, italia, debito pubblico, finanza[/tags]

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sabato 8 Maggio 2010, 11:08

A voi comunicare

Piazza Bottini è l’equivalente milanese del nostro passante ferroviario: una zona che era già devastata dai cantieri dieci anni fa quando ci passai per la prima volta, che lo è sempre stata ogni volta che ci passavo e che lo è tuttora. Quella che doveva essere una piazza a semicerchio con le sue brave aiuole e i capolinea dei pullman è quasi sempre un buco terroso con passaggi provvisori, pozzanghere, pietrame abbandonato, grate e recinzioni semidivelte; è per le condizioni medie della piazza che la prospiciente stazione (peraltro tenuta a un livello di decoro non dissimile) è giustamente soprannominata Milano Lambraids.

Questa volta però in piazza Bottini Milano ha superato se stessa. L’altro giorno sono sceso dalla S9 per prendere il bus per tornare a casa – e avevo ben due scelte: il 54 e la 93. Il problema, da sempre, è questo: dove fermeranno oggi il 54 e la 93? Ogni volta, a causa del cantiere, fermano in un posto diverso; e dato che la piazza è un semicerchio su cui si affacciano cinque vie ad angoli regolari, c’è l’addizionale quiz del “da che via arriverà e in che via si infilerà stavolta il bus?”. Data la cronica mancanza di indicazioni, la cosa migliore è girare per la piazza cercando di avvistare le paline delle fermate, finché non ne trovi una e puoi leggere se lì ferma il tuo bus.

Stavolta, però, la palina accanto all’edicola mi è apparsa così:

IMAGE_106s.jpg

Apprezzate bene: la palina c’è, ma è all’interno di una zona di cantiere di cinque metri per cinque recintata da una rete arancione, dunque non ci si può avvicinare a meno di due metri (se non verso il retro, dove non c’è scritto niente). Sulla palina è indicato il percorso della 93, ma poi, appeso in basso, c’è un cartello scritto in corpo 8, che evidentemente discute le varie deviazioni: provate voi a leggere un cartello scritto in corpo 8 affacciandovi da una rete a due metri di distanza. Il problema è stato risolto da qualcuno che, con un pennarello, ha scritto con calligrafia stentata sul bordo arancione della palina “93 FERMA IN VIA VIOTTI (50 MT)” e subito sotto “93 SOPPRESSA” – peccato che siano due indicazioni potenzialmente contrastanti (soppressa la fermata o la linea?).

Basta però camminare per altri cinque metri sul marciapiede per trovare questo:

IMAGE_108s.jpg

Ok, qui c’è una fermata. Ma di cosa? Il cartello corpo 8 ora è leggibile, ma non contiene alcuna informazione utile; spiega dettagliatamente che la linea che prima passava di lì ora passa di là, usando nomi di minuscole vie del quartiere che sono perfettamente ignote non solo a un torinese come me, ma, a giudicare dagli sguardi, anche ai milanesi non della zona. Ma non dice da alcuna parte quali siano le linee che fermano lì.

Alla fine ci siamo organizzati; abbiamo visto la 93 apparire e ci siamo buttati in mezzo alla strada finché non ha fermato. Peccato che, dopo un paio di svolte, la 93 sia effettivamente arrivata in via Viotti, dove c’era uno slargo con una palina che recitava “93 CAP.” e una ventina di persone in attesa; la 93 ha bellamente saltato il capolinea per andare ad arrestarsi accanto a una normale fermata cinquanta metri più avanti, dove c’era il solito cartello corpo 8, lanciando una scena da comica in cui le venti persone si sono messe a correre implorando l’autista di aspettare. Evviva le chiarissime indicazioni all’utenza dell’ATM milanese…

P.S. Alla fine Milano mi ha comunque regalato un altro grande episodio. A una fermata, il bus apre la porta centrale e due persone si trovano l’una davanti all’altra: da un lato un anziano che scende dal bus, e dall’altro un ragazzo scapigliato che vi sale. Vedendo libero lo spazio davanti a sè, il ragazzo fa subito per salire; a quel punto l’anziano, con lo scatto di un bradipo stagionato, si butta lateralmente addosso a lui (che nel frattempo, vista la velocità dell’azione, è già interamente sul bus) e gli dice “uè, si lascia scendere prima di salire”. Il ragazzo si scusa: errore madornale, perché, come davanti al lupo sottomesso che mostra la gola, l’anziano parte con una filippica in milanese stretto (tenendo fermo tutto il bus per dieci secondi). Infine scende, il bus chiude le porte e riparte, e mentre scorriamo via vediamo l’anziano fermo sul marciapiede con gli occhi inquisitori puntati sul ragazzo sul bus. Inquietante.

[tags]milano, lambrate, piazza bottini, bus, atm, indicazioni[/tags]

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venerdì 7 Maggio 2010, 09:19

Sulla scienza e sulla libertà di Internet

Ieri sono andato all’annuale assemblea di Società Internet, il chapter italiano della Internet Society, di cui sono socio da dieci anni e di cui sono stato consigliere fino all’anno scorso. Quest’anno, tra Movimento e altre cose, sono stato meno coinvolto che in passato, tanto è vero che a margine dell’assemblea alcuni vecchi saggi hanno cercato di coinvolgermi più a fondo nelle attività associative “così la smetti di pensare di cambiare il mondo con la politica”.

Peraltro, anche quest’anno qualcosa per ISOC l’ho fatto: ho scritto un lungo articolo scientifico che introduce una visione globale del dibattito sulla neutralità della rete, cercando di mettere insieme aspetti che normalmente sono studiati separatamente – quello tecnico dagli ingegneri, quello economico dagli economisti, quello sociale quasi da nessuno – e di tracciare un filo concettuale che leghi tutti questi problemi all’architettura fondamentale della rete. L’articolo è stato pubblicato sul quinto Quaderno dell’Internet Italiano, uscito da poche settimane, che potete leggere online o di cui potete richiedere la copia cartacea a Società Internet; contiene vari articoli interessanti, alcuni più strettamente tecnici e altri, come il mio, più concettuali e sociali.

Dopo l’assemblea si è tenuto un convegno, anch’esso organizzato da Società Internet, sul tema della responsabilità dei gestori dei servizi Internet, a valle della sentenza Google-Vividown e di altri casi che secondo me sono veramente allarmanti (si è parlato di Bakeca e di Zopa). Come sempre in questi casi, buona parte del convegno è stato dedicato a interventi scandalizzati sul fatto che un giudice possa permettersi di chiedere a chi gestisce un sito di contenuti inviati dagli utenti di rispondere dei contenuti stessi, con tutti i soliti paragoni: è come condannare chi gestisce l’autostrada perché ci viaggia sopra un rapinatore, è come condannare il proprietario del muro di un palazzo per una scritta fatta di notte da qualcun altro.

Io sono d’accordo sull’importanza della neutralità della rete – vedi l’articolo che ho scritto – e sul fatto che chi distribuisce i contenuti non debba essere immediatamente e ipso facto responsabile di ciò che viene immesso dagli utenti sulla sua piattaforma; è dieci anni che mi do da fare per questa causa. Sono però molto preoccupato della litania scandalizzata di cui sopra; perché spesso esagera, e comprende un inaccettabile scarico di responsabilità.

E’ comprensibile che chi possiede e gestisce Google voglia ottenere i benefici del suo investimento in Youtube (le entrate economiche da pubblicità) senza doversi assumere il rischio e l’onere derivante da responsabilità sui contenuti che li generano, così come è comprensibile che chi gestisce Wikipedia voglia gestirla come il proprio giocattolino e prendersene gli onori senza doversi poi beccare le cause per i contenuti potenzialmente diffamatori che essa potrebbe ospitare. Ma è anche giusto?

E non è vero che, per difendere la possibilità di un dissidente cinese di mandare in giro un video senza censure, si debba per forza accettare che Youtube trasmetta per settimane pestaggi di disabili, maltrattamenti di animali, corse automobilistiche illegali, cadaveri martoriati e chi più ne ha più ne metta. Va benissimo che questi gestori non siano responsabili se non dopo segnalazioni formali e provate, va benissimo che vengano stabilite regole chiare per giungere a decidere cosa va eliminato, limitando i rischi di censura politica ed evitando di lasciare le scelte alla sola decisione del provider di turno (che, nel dubbio, censurerebbe qualsiasi cosa vagamente scomoda per non prendersi alcun rischio), ma non si può accettare che Internet diventi l’amplificatore di qualsiasi immondizia diseducativa e illegale perché non abbiamo voglia di vigilare e di fare qualche distinzione.

Youtube e Wikipedia, come Facebook e come tanti altri, sono chiaramente servizi fondamentali e di pubblico interesse, esercitati in una posizione di predominio quasi monopolistico sul rispettivo “mercato” (della trasmissione di video on demand l’uno, delle enciclopedie elettroniche l’altro). Da questo non derivano solo i benefici in termini di guadagno (che sia fatturato o donazioni) e di visibilità, ma anche le conseguenti responsabilità; e prima ancora delle responsabilità giuridiche vengono quelle etiche, morali, deontologiche, sociali, politiche. Mi piacerebbe che prima o poi questi intermediari se le prendessero, all’interno di un framework condiviso con il legislatore e la comunità della rete; e fa specie che su questo tema siano spesso più collaborative e responsabili le multinazionali private rispetto ai progetti che vengono dalla rete.

[tags]internet, società internet, isoc, neutralità della rete, libertà della rete, censura, google, vividown, bakeca, zopa, youtube, wikipedia, responsabilità, isp, internet governance[/tags]

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giovedì 6 Maggio 2010, 21:12

Morire da simboli

Spesso la Storia, grande o piccola che sia, viene raccontata per persone, riducendo fenomeni sociali e politici a un volto solo che ne diventi il simbolo. Che siano Jan Palach o Ernesto Che Guevara, Enrico Toti o Pietro Micca, si tratta molto spesso dei volti di morti; probabilmente è, oltre che una forma di onore ai caduti per una causa, un retaggio della pratica del sacrificio umano, che sin dalla notte dei tempi abbiamo adottato per placare gli dei in tempi di crisi.

A questo punto starete forse pensando che i morti simbolo di ieri siano i tre di Atene; è vero, probabilmente lo saranno anch’essi. E’ facile (anche se non scontato) che di fronte al sangue la protesta si plachi, e che quella che sembrava una rivoluzione sul nascere – la prima di molte tentate rivoluzioni anticapitaliste che potrebbero punteggiare la crisi disastrosa che probabilmente ci attende – naufraghi ora nella repressione da sdegno. E’ interessante leggere attentamente i resoconti e scoprire che i morti non sono dovuti al nucleo dei manifestanti, anarchici e studenti compresi, ma all’apparizione del solito gruppo di “black bloc”; ed essendo ormai appurato che a Genova e a Seattle li mandava la polizia per conto di chissà chi, se ciò fosse vero anche ad Atene forse quei morti potrebbero diventare, più che il simbolo della violenza contro il sistema, il simbolo della violenza con cui il sistema difende se stesso. Ma non è il caso di scriverlo troppo forte, che il rischio è di finire nel complottismo paranoico – o di sbagliarsi e basta.

Invece, la morte simbolica di ieri per me è un’altra; quella dell’operaio sessantaduenne Aristide Luigi Padovan, sfracellatosi cadendo da dieci metri sull’asfalto mentre smontava le strutture usate il giorno prima da Morfeo Napolitano per dare il via, sullo scoglio di Quarto, ai festeggiamenti per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Pensateci bene: potete immaginare morte più simbolica di questa? L’Italia in pompa magna festeggia se stessa, e subito ci scappa il morto sul lavoro.

Sono piuttosto convinto che Italia 2011 sarà davvero la summa dell’italianesimo: dopo il morto sul lavoro sono già in arrivo le mazzette, la retorica fanfarona, l’edilizia di cartone, le polemiche da bar e i fiumi di parole. E’ del resto evidente, senza ipocrisie, che l’unità d’Italia non esiste, non è mai esistita e comunque non l’ha mai voluta nessuno, se non nell’ottica di fregare il vicino; il dibattito pubblico ormai verte sulla questione se abbiano fregato più soldi i piemontesi dalle casse di Napoli all’atto dell’unificazione, o i napoletani dalle casse del Nord nei 150 anni successivi. Rassegniamoci: siamo un paese di individualisti e il fatto che ormai gli stati nazionali non contino più niente, stretti tra la globalità dei fenomeni e la devoluzione dei poteri imposta dalla complessità moderna, potrebbe essere una buona scusa per sciogliere finalmente nell’acido la burocrazia inutile che ammorba l’Italia, trasformandola una buona volta in uno Stato federale.

E se proprio sarà necessario trovare un ulteriore simbolo per l’annuale mano sul cuore quando gioca la Nazionale, non ci sarà bisogno di altri morti: lo sportivissimo calcio nel culo di Totti a non ci sono negri italiani Balotelli va benissimo.

[tags]italia, unità d’italia, storia, simboli, atene, napolitano, totti, balotelli[/tags]

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mercoledì 5 Maggio 2010, 19:05

Uno vale uno, speriamo

Chi legge abitualmente il blog di Grillo avrà notato che negli ultimi tempi Beppe ha parlato spesso del Movimento 5 Stelle per ribadire alcuni concetti fondamentali; in particolare, ha annunciato che da fine giugno sarà pronta la piattaforma online con cui tutti coloro che si sono iscritti al movimento potranno votare su tutto ciò che riguarda le sue attività.

Prima Beppe ha ribadito in un post scriptum quanto scritto nel non-Statuto, cioè che tutta l’attività deve avvenire “senza la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi”, ribadendo che le associazioni grilline che un po’ in tutta Italia si sono costituite negli anni, e le loro cariche sociali, non vanno intese come aventi alcun ruolo organizzativo o potere specifico nel Movimento: infatti “è quindi disconosciuta ogni carica locale di rappresentanza (ad esempio Presidente) del MoVimento 5 Stelle”.

Poi, nel post di venerdì scorso, è stato molto chiaro anche per ciò che riguarda le future liste civiche: “Il movimento è anche on line, è il MoVimento nazionale, lanceremo il portale  a fine giugno e si potranno poi discutere tutte le idee sul fare liste, civiche, regionali, comunali. Lo faremo insieme. Il principio di uno vale uno sarà finalmente applicato.”

Queste cose sono state ampiamente dette in campagna elettorale e costituiscono, secondo me, uno dei messaggi più forti del Movimento e una delle maggiori ragioni del consenso ricevuto, a cui dunque è obbligatorio tener fede. Tuttavia, rispetto allo stato attuale della nostra organizzazione, esse mettono sul tavolo alcune questioni.

La prima è quella relativa al controllo sugli eletti. A livello di lista regionale, il modello che tutti insieme avevamo concepito e promosso era quello in cui le persone elette nelle istituzioni sono intercambiabili e costituiscono dei semplici portavoce del gruppo che lavora con loro e che viene a sua volta legittimato dal basso. La struttura intermedia viene creata sia perché è necessaria una figura giuridica che faccia da “datore di lavoro” del dipendente dei cittadini, sia perché non è pensabile che tutti gli elettori passino il tempo a dar direttive al loro rappresentante su ogni minima questione.

D’altra parte, è vero che una struttura di questo genere può facilmente diventare un direttivo di partito, ed è proprio questo che Grillo vuole evitare. Il risultato è di responsabilizzare totalmente le persone che sono state elette: non esiste un movimento formalizzato, ma esistono solo Grillo, le persone elette, e la rete. Il controllo dei cittadini sugli eletti non è più di tipo giuridico e organizzativo (cosa peraltro difficilmente compatibile con la Costituzione) ma di tipo mediatico: se l’eletto sbaglia, formalmente nessuno potrà farci nulla, ma si beccherà mille commenti incazzati su un forum e magari qualcuno lo aspetterà sotto casa. Si tratta di una forma di controllo efficace? Vedremo; certamente però diventa cruciale la scelta dei singoli candidati, e non è più vero che quel che conta è solo il gruppo o che si punta a “spersonalizzare” la politica – se mai l’opposto.

Una questione ancora più evidente si apre per ciò che riguarda l’organizzazione dei futuri appuntamenti elettorali, che a questo punto non sono più tanto tappe di lavoro di un unico gruppo, ma progetti indipendenti ogni volta costituiti per “far eleggere la persona X nell’istituzione Y” e legittimati da Grillo di volta in volta.

A Torino, in vista delle elezioni comunali dell’anno prossimo, esiste e lavora da anni l’associazione Torino a 5 Stelle, che si è data una serie di regole piuttosto strutturate (che tra l’altro ricevettero i complimenti di mezza Italia all’incontro nazionale di Firenze). In questo momento, l’associazione – come forma, non come gruppo di persone – è di fatto delegittimata. Dall’altra parte, alcune persone che in passato erano uscite sbattendo la porta da tale associazione, dopo aver partecipato al progetto delle elezioni regionali, disconoscono l’associazione e propongono invece di creare un coordinamento di comitati o di gruppi di quartiere, che si strutturi in modo meno formale ma che comunque organizzi in proprio la lista.

Alla luce del non-Statuto e delle posizioni di Grillo, entrambe queste strade mi sembrano impercorribili. Grillo è stato chiaro: fino a fine giugno si aspetta, e dopo, sulla piattaforma di discussione, tutti i partecipanti insieme (a Torino stimiamo che gli iscritti al movimento nazionale siano 1500-2000, del resto i voti sono stati 17.000) potranno dire la loro in maniera orizzontale su come procedere. E io sono totalmente d’accordo con Grillo: che sia una associazione gestita da un gruppo di dieci attivisti storici, o che sia un comitato formato da dieci rappresentanti di questo o quel gruppetto, dopo quel che è stato promesso in questa campagna elettorale – uno vale uno – nessuno ha più il diritto di decidere per conto dei nostri elettori.

Come è evidente anche dalle discussioni sul blog regionale e altrove, in chi da anni dedica il proprio tempo volontariamente al Movimento c’è una certa paura di questa svolta. Si parte da una certa presunzione di superiorità, per cui chi “ha preso freddo ai banchetti a raccogliere firme” deve avere più voce in capitolo dell’elettore qualsiasi; e si insiste sul rischio (che effettivamente esiste) che allargando troppo le scelte si finisca in mezzo a “gare a portare più amici”, magari consegnando il Movimento a qualche ex politico con i pacchetti di voti già pronti, o a persone che nessuno conosce e nessuno sa se siano oneste e degne di fiducia, ma che siano particolarmente brave ad infiammare un forum; e che si finisca per implodere in quanto (già visto in passato) i 100 partecipanti online la pensano in maniera opposta ai 10 attivi, al che i 10 attivi si stufano e nessuno fa più niente.

I rischi ci sono; tutto questo è un grande esperimento. D’altra parte anche il sistema tradizionale è pieno di rischi, e a ben vedere non esiste un solo caso di movimento politico di rottura, dai Verdi alla Lega, che non sia presto diventato preda delle logiche dei capetti, delle tessere e delle cordate. L’idea di Grillo è nuova (per quanto simile a esperienze online già vive da anni); è un esperimento che sogno da dieci anni, e in cui credo; perché non provarla, come peraltro abbiamo promesso? Credo che scopriremo che la nostra base è anche più sveglia di noi e che saprà fare delle buone scelte.

Comunque, come al solito, ho scelto di fare un post (sperando che stavolta nessuno dei miei colleghi di attivismo si offenda) per chiedere un parere a tutti coloro che mi leggono.

[tags]movimento 5 stelle, beppe grillo, politica, organizzazione, torino a 5 stelle, elezioni comunali[/tags]

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martedì 4 Maggio 2010, 19:03

Non poteva che piovere

So che molti non capiscono e si chiedono perché, da tre giorni, Torino sia in balia di piogge torrenziali, di un diluvio infinito che non ha dato quasi mai tregua.

E’ perché non guardate il calendario: oggi è il quattro maggio, ovvero il 61° anniversario della tragedia di Superga. Il ricordo è iniziato domenica sul campo dei grandi, lo Stadio Filadelfia, tuttora ridotto a qualche moncherino e a una giungla che come sempre i tifosi, volontariamente, in settimane di lavoro hanno riportato alla decenza e alla fruibilità della città, per occuparlo con un torneo tra tifosi, una grigliata tra amici, un dibattito sull’ennesimo progetto-sogno e un concerto finale. E si è concluso oggi pomeriggio, con la tradizionale messa e celebrazione alla Basilica di Superga.

Sarebbe stato bello riprendere il tutto, ma in fondo l’essenziale è poca cosa; l’essenziale del quattro maggio è l’immancabile pioggia che quasi ogni anno si presenta puntuale, e quella l’ho ripresa senza problemi.

Va bene, quest’anno la pioggia ha un po’ esagerato (l’anno scorso si era limitato a un breve e intenso momento, invece il 2007 era stato in piena regola), ma senza pioggia non è un quattro maggio che si rispetti. In una Torino che come ragion d’essere del prossimo anno si vuol dare la celebrazione di una guerra di 150 anni fa, tre giorni di pioggia per ricordare il Grande Torino mi paiono il minimo.

[tags]toro, grande torino, superga, stadio filadelfia[/tags]

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domenica 2 Maggio 2010, 23:18

Aggiornamenti

Non sono sparito, ma sono giornate piuttosto intense dal punto di vista professionale: oggi ho lavorato a una consegna e domani attraverserò mezza Italia per andare da un possibile cliente.

Segnalo però due cose: la prima è che domani alle 10 si tiene la prima riunione del nuovo Consiglio Regionale, che sarà trasmessa in streaming sul sito ufficiale. E la seconda è che anche a Santena le cinque stelle si sono scontrate contro il solito muro di misteriosa “privacy” che i sindaci di mezza Italia (e di ogni colore) oppongono a chi vuol semplicemente far vedere quello che fanno. Dopo le elezioni comunque i gruppi di “fiato sul collo” si sono moltiplicati… e conto che rimangano attivi a lungo.

[tags]consiglio regionale, piemonte, santena, fiato sul collo, movimento 5 stelle[/tags]

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venerdì 30 Aprile 2010, 19:46

Mezz’ora di normale ingorgo

Oggi, proprio all’ora di uscire dagli uffici, nel cielo su Torino si è scatenato un temporale. E il risultato dei temporali è noto: appena finiscono scatta l’ingorgo, in parte per le strade allagate, in parte perché tutti sono rimasti al chiuso fin che non ha smesso e poi si sono riversati sulle strade nello stesso momento.

Però, venti minuti da piazza Sabotino a piazza Rivoli – pur conoscendo tutte le stradine e infilandomi in tutti i passaggi segreti – non ce li avevo mai messi. Era completamente intasato corso Racconigi, a causa dello smontaggio del mercato, con tutte le vie circostanti; ma l’intasamento era tale da bloccare da un lato corso Vittorio e dall’altro corso Peschiera, dove la coda nel viale centrale iniziava quasi in piazza Sabotino. E poi, il normale grumo di piazza Rivoli nell’ora di punta, moltiplicato dalla geniale idea di fare lavori in mezzo a corso Lecce in piena primavera (non potevano farli ad agosto?), aveva riempito di auto corso Vittorio fino quasi in via Cesana.

Il problema di fondo è dato dalla schizofrenica incapacità di cooperazione tra pubblico e privato, che tirano ognuno in direzione perfettamente opposta. Da una parte c’è una amministrazione pubblica che – in modo esasperato grazie all’assessora rifondarol-chic, Maria Grazia Sestero – considera il traffico privato come un male a prescindere, ma non si preoccupa di fornire alcuna vera alternativa; la sola strategia del Comune per limitare l’uso dell’auto è asfissiare la città in un unico gigantesco ingorgo.

Si è cominciato anni fa trasformando l’asse di corso Svizzera-Racconigi in uno stretto budello a servizio del mercato; poi l’asse di corso Ferrucci-Tassoni è stato azzoppato dall’abbattimento della sopraelevata di corso Mortara, con tanto di cartelli gialli che da lustri invitano a “percorso alternativo in corso Lecce-Potenza-Grosseto”; poi si è prima stretto e poi chiuso corso Principe Oddone per i lavori del passante ferroviario. Avendo eliminato con successo tutti gli assi di scorrimento nord-sud tranne uno, tutto il traffico si è riversato in corso Lecce-Potenza, dove persino la signora Sestero è stata costretta ad approvare l’onda verde dei semafori, che normalmente a Torino è esplicitamente vietata perché secondo loro incentiva all’uso dell’auto. E però, già che c’erano, ci hanno messo in mezzo degli altri lavori; e poi c’è sempre il piano folle di abbattere entro un paio d’anni anche la sopraelevata tra corso Potenza e corso Grosseto, così tanto per aumentare ancora un po’ traffico e inquinamento.

Dall’altra parte c’è il privato: una cittadinanza che in gran parte non riesce a rinunciare all’auto nemmeno per andare dal panettiere. Che sia il mercato, che sia la scuola, che sia un ufficio pubblico, qualsiasi polo di attrazione ormai è punteggiato di macchine in doppia fila o direttamente in mezzo alla strada, senza nemmeno più provare a cercare un parcheggio. E nonostante la crisi, in giro è pieno di macchine nuove; toglietemi tutto, ma non il mio SUV. D’altra parte, come può il pubblico arginare questa tendenza se basta accendere la televisione o prendere un giornale per trovare pubblicità di auto, recensioni di auto, racconti di gare automobilistiche, insomma un assalto di feticismo automobilistico a cui nessuno potrebbe resistere?

E’ chiaro che così non si risolve niente; per ridurre il traffico c’è un metodo solo, quello di convincere i torinesi che le alternative al mezzo privato costano meno e funzionano meglio. Con i divieti e gli ingorghi scientifici si va poco lontano, sia perché esistono comunque dei casi in cui l’auto è oggettivamente insostituibile, sia perché i divieti fomentano la “resistenza a quei comunisti che vogliono toglierci la macchina”. La battaglia va combattuta da un lato organizzando meglio la città e le altre forme di trasporto, e dall’altra cambiando la cultura delle persone con il dialogo e con meccanismi di incentivo economico: già solo trasferendo su chi usa l’auto i relativi costi sociali ed ambientali le dinamiche cambierebbero radicalmente, senza per questo impedirne l’uso quando serve davvero.

Dopodiché, io sarei comunque favorevole a fare di Torino la prima città “SUV-free”, dando un congruo numero di anni di preavviso in modo che chi deve cambiare auto ne sia conscio…

[tags]traffico, urbanistica, torino, sestero[/tags]

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giovedì 29 Aprile 2010, 18:31

Bersani, parole chiare

Anni fa, uno dei numeri di satira più divertenti era quello di scrivere finti comunicati politici parodiando quelli veri. Ma i tempi cambiano, e siamo di fronte a una triste verità: non c’è nemmeno più bisogno di scriverne di finti, perché quelli veri sono già delle piccole gemme per conto loro.

Per esempio, in questi giorni il PD presenta una roba pomposamente chiamata Progetto Italia 2011, che dovrebbe servire secondo loro a far presente ai cittadini che non solo il PD esiste ancora, ma ne ha anche in serbo di fortissime per il futuro del nostro Paese. Io sono andato a leggermi le dichiarazioni di Bersani, dal sito ufficiale del partito, e ora ve le voglio riportare esattamente come sono: finalmente parole chiare, convincenti, trascinanti.

Si comincia subito con una dichiarazione pesante, densa di contenuto:

“Un lavoro complessivo che non potrà, per forza di cose, essere breve in quanto non può ridursi in un colpo soloâ€

Che concetto profondo: Monsieur de Lapalisse non avrebbe saputo dirlo meglio. E poi, più in basso:

“L’assenza di decisioni e l’inefficacia delle azioni intraprese hanno poi determinato un allentamento della coesione civile e dell’idea del sentimento di unità. E tutto si regge su una gran chicchiera!â€

Chiaro no? Più chiaro di così… tutti noi poniamo “l’idea del sentimento di unità” al centro delle nostre preoccupazioni quotidiane. Quanto alla “gran chicchiera”, è stata convocata un’assemblea plenaria del Partito per determinare se Bersani non intendesse piuttosto dire “chiacchiera” (bisogna decidere democraticamente, consultando tutte le anime del partito, fedeli all’idea del sentimento di unità).

Ma si prosegue:

“Il 2011 – ha continuato Bersani – rappresenta un appuntamento chiave per la sintesi delle idee dell’unione d’Italia e per il posizionamento della nazione in Europa e nel mondo nell’ottica delle sfide sull’assetto sociale.”

Finalmente si capisce cos’era “l’idea del sentimento di unità”: indicava “la sintesi delle idee dell’unione d’Italia”. Qualche dubbio viene su come il 2011 (una intera annata) possa rappresentare “un appuntamento” (ovviamente “chiave”, aggettivo che l’ufficio marketing del PD ha scelto sfogliando le pubblicità sull’ultimo numero di GQ), soprattutto con lo scopo di definire “il posizionamento della nazione in Europa e nel mondo”. Per aiutare Bersani, gli ho preparato questa immagine, da cui il posizionamento mi sembra chiaro:

posizionamento_italia.png

Immancabili ovviamente le “sfide sull’assetto sociale”, tipo vedere chi ha l’auto blu più veloce o scoprire se durante il mese finisce prima la pensione di un anziano o lo stipendio di un operaio.

“Il Progetto Italia 2011 vuole rappresentare un primo modello per coniugare politica e programmi, un’esercitazione da mettere in rete al fine di ottenere la massima partecipazione civile.”

E meno male che sono al “primo modello”, a una “esercitazione”: avanti così con convinzione, per il 2040 forse saranno pronti a presentare un programma di governo. Nel frattempo apprezzo la lodevole ammissione sul fatto che finora non hanno mai pensato di “coniugare politica e programmi”, ossia non si sono mai preoccupati di realizzare ciò che avevano promesso prima delle elezioni.

Finalmente però si giunge al cuore del messaggio: il PD, una volta tanto, identifica quattro temi forti per la propria azione.

“Per Bersani quattro saranno i temi principali che dovranno accompagnare il progetto:

* l’innovazione, plurale e concreta. Innovazione che si determina con una scelta finale senza alcun eccesso di mediazione;
* la rassicurazione, ovvero sulla consapevolezza che creare lavoro significa ridare prospettive ed orizzonti ai giovani;
* il rispetto della Costituzione, nel cui cuore dinamico, innovazione e rassicurazione trovano la giusta collocazione;
* federalismo come chiave della nuova unità della nazione.”

Vi prego, leggete bene queste frasi. Leggetele due o tre volte con attenzione, parola per parola, e poi chiedetevi: ma che cazzo vogliono dire? Non solo sembrano scritte da un pubblicitario (a me “cuore dinamico” fa venire in mente il ripieno dei sofficini) a cui hanno detto “inventa delle frasi in cui compaiano almeno una volta le parole Costituzione, dinamico, nazione, federalismo, giovani, lavoro e innovazione”, ma sono astutamente studiate per non prendere assolutamente posizione. Su niente.

Che cosa vuol dire che l’innovazione deve essere “plurale”? E che diavolo è una “scelta finale senza alcun eccesso di mediazione”? Vorrà dire che la mediazione va bene se non è eccessiva, ma quand’è che la mediazione è eccessiva? E “la consapevolezza che creare lavoro significa ridare prospettive ed orizzonti ai giovani” ce l’abbiamo già tutti da circa vent’anni, il punto su cui ci attenderemmo qualche risposta dal PD è come crearlo! E sarà anche vero che “innovazione e rassicurazione trovano la giusta collocazione”, ma qual è secondo loro la “giusta collocazione”: che cosa bisogna cambiare, che cosa bisogna tenere? L’ultima frase poi è splendida: un “ma anche” di veltroniana memoria, per cui “vogliamo il federalismo, ma anche l’unità della nazione”. Ah già, e non dimenticate la parola “chiave”, che fa tanto decisionismo.

“Ma per far tutto questo – ha concluso Bersani – sarà necessario il coraggio di riprendersi i concetti di libertà e uguaglianza. Valori tipici della nostra tradizione e della nostra culturaâ€.

E qui, sull’immagine di un Bersani che impasta le tagliatelle secondo la ricetta della nonna – dopo essersi lasciato sfuggire che l’attuale PD non ha la minima idea né di cosa sia la libertà, né di cosa sia l’uguaglianza – è meglio stendere un velo pietoso.

Ma se qualcuno di voi riesce a capire meglio di me le proposte del PD per il futuro dell’Italia, sono qui per ascoltare!

[tags]bersani, partito democratico, politica, progetti[/tags]

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