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mercoledì 12 Maggio 2010, 16:24

Formazione a tenaglia

Giusto ieri mattina, Specchio dei Tempi apriva con la lettera di una ragazza venticinquenne che esprimeva “sdegno”. Barbara, questo il suo nome, finite cinque anni fa le scuole superiori ha scelto il suo mestiere, e ha seguito un corso di formazione pubblico (per lei gratuito, e interamente pagato dalla Regione Piemonte) per diventare “Tecnico Marketing e Promotore Enogastronomico”. Bene, parrà strano, ma a cinque anni dal conseguimento di cotal qualifica la povera Barbara (alla quale, sia chiaro, va tutta la mia solidarietà) ancora non ha trovato lavoro. E allora si indigna: come mai la Regione non “chiama mai a lavorare” alle fiere del salsiccione e della tinca gobba il personale qualificato come lei, che si vede rubare il lavoro da altri ragazzi, assolutamente non preparati e non competenti nel settore della tecnica del marketing per la promozione enogastronomica?

E’ evidente una serie di ingenuità tutte italiane: quella di credere che per lavorare conti il pezzo di carta, anzi che il pezzo di carta conferisca una precedenza inconfutabile nell’accesso al lavoro; quella di immaginare che il lavoro non si ottenga con lo sbattimento dal proprio lato, ma si riceva per chiamata dalla mamma-Stato (o dalla mamma-azienda), ragion per cui il modo di ottenere un’occupazione sia quello di lamentarsi con gli enti pubblici; e quella di pensare che sia il pezzo di carta e il relativo corso di formazione a creare i posti di lavoro, anziché le esigenze del mercato.

Detto questo, Barbara ha ragione a lamentarsi; perché non ha alcun senso che gli enti pubblici spendano ogni anno palate di miliardi per organizzare corsi di formazione per qualifiche assolutamente strambe. Le fiere si sono sempre fatte, e non credo che si sentisse un problema di sottoqualificazione delle signorine messe lì a vendere barbera o salami nostrani. Ma se è l’ente pubblico ad autorizzare speranze poco sensate nei ventenni di turno, a cui spesso non viene data altra alternativa che continuare a studiare perché il lavoro non si trova, la responsabilità è innanzi tutto dell’ente pubblico stesso.

La verità, peraltro, è nota a tutti: il settore della formazione pubblica, che in sè avrebbe ampio merito, negli ultimi anni è stato gonfiato a dismisura proprio per consentire un travaso ottimo e abbondante di fondi dalle casse pubbliche a quelle di cooperative, aziende e gruppi vari ma invariabilmente vicini alla politica; e così altri settori contigui e ricchi di appaltatori pubblici, come quelli sociali, quelli culturali, quelli di vigilanza. In città il caso più noto è quello di Mauro Laus, la cui carriera politica va di pari passo con quella della sua Rear, che insegue o vince o perde appalti proprio mentre lui passa dalla Margherita al PD e poi ai Moderati e poi di nuovo al PD, naturalmente e sempre per motivazioni strettamente politiche.

Non dev’essere nemmeno tanto piacevole gestire un’azienda così, sapendo che al primo cambio di vento rischi di dover mandare a casa la gente. D’altra parte c’è il vantaggio che questi settori ben si prestano all’uso di forme giuridiche defiscalizzate come la cooperativa o l’associazione senza fine di lucro; tanto lo scopo non è pagare dividendi, è sufficiente pagare bei stipendi e bonus a chi li dirige o anche solo far girare i soldi verso sub-fornitori. E in tutto questo è essenziale che i corsi siano gratuiti o addirittura prevedano qualche lira per chi li frequenta, in modo da essere certi che si presentino degli studenti a giustificare lo stanziamento pubblico.

Esistono però anche altri “modelli di business”: ad esempio, il corso può non essere pagato dalle casse pubbliche, ma dagli studenti, costretti mediante l’istituzione di albi professionali dal dubbio significato a mettere mano al portafoglio nella speranza di poter poi lavorare. In questo caso, il ruolo della politica non è quello di finanziare direttamente le aziende incassatarie, ma quello di creare regole pensate essenzialmente per imporre alle famiglie una “tassa sull’aspirazione a lavorare”, nel contempo mantenendo comunque il controllo sui beneficiari dell’affare e creando l’ennesima castina all’italiana che, oltre a diventare un organizzato bacino elettorale, distingue chi può lavorare da chi no (salvo amicizie che permettano di chiudere un occhio).

In questa categoria ricade l’ennesima chicca che mi hanno segnalato oggi: la Regione Piemonte ha pronto un nuovo imprescindibile corso di formazione. Non ho idea di chi sia la fortunata azienda appaltatrice che dovrà farsi in quattro per fornire adeguata istruzione; so solo che si chiama Formont (ossia “formazione per la montagna”) ed è un “consorzio di enti pubblici e privati” non meglio specificato (immagino serissimo, eh; mica è tutto da buttare). Sono tuttavia curioso di sapere chi saranno gli insegnanti, dato che il corso intende formare i ventenni torinesi per una attività di grande valore aggiunto che richiede senz’altro altissima specializzazione: quella di buttafuori.

Ora siete liberi di ipotizzare in cosa consisteranno le 51 ore di corso, divise tra 24 “giuridiche” (come pestare un passante e non finire in galera), 9 “tecniche” (le migliori posizioni spaccaossa) e 18 “psicologico-sociali” (il dramma interiore del buttafuori moderno), che permetteranno poi di iscriversi all’agognato “albo dei buttafuori”. Sono certissimo che l’istituzione di questo pezzo di carta a pagamento permetterà di ridurre quegli incresciosi episodi di accoltellamenti e risse tra buttafuori e clienti: un po’ come l’ordine dei giornalisti garantisce in Italia una grande libertà di stampa.

[tags]formazione, regione piemonte, laus, moderati, pd, fondi pubblici, buttafuori, lavoro[/tags]

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6 commenti a “Formazione a tenaglia”

  1. ArgiaSbolenfi:

    Trovo questo argomento una delle cose più deprimenti dell’Italia attuale. Ci vorrebbe un RESET che ripristinasse il buonsenso: una solida formazione di base, e poi a lavorare. Eventuali certificazioni e specializzazioni si prendono a carriera avviata. Stop.

  2. Bruno:

    Sono d’accordo, Argia. Le medie, poi il posto fisso, il matrimonio e la casa di proprietà. Un figlio o due e poi sì, formazione aggiuntiva. Mi domando come mai non ci abbia pensato nessuno prima.

  3. ArgiaSbolenfi:

    Bruno, o mi sono spiegato male o non capisco dove vuoi andare a parare. Semplicemente non dovrebbe esserci bisogno di mille corsi, master, stage se l’istruzione secondaria e quella superiore funzionassero decentemente. Con il rischio – per tornare all’argomento iniziale – che si sviluppino insidiosi ed illusori mercati di pseudo-formazione o che rilasciano titoli che “bisogna avere perchè ce l’hanno tutti” – a prescindere dalla reale utilità. E’ chiaro che sto estremizzando ma penso proprio che ci sia qualcosa che non va.

  4. maxxfi:

    Ma… se come riporta l’articolo tra le condizioni per poter accedere all’ambito albo c’e’ di “non essere o essere stati aderenti a movimenti, associazioni o gruppi organizzati”, tutti quelli che hanno, chesso’, un passato in bocciofila sono fuori?

  5. Robin Hood:

    Grillo d’altra parte ha fatto capire che anche nel 2010 in Italia è possibile mettere su un bel business nonostante la crisi…

  6. Ciskje:

    Ho fatto l’insegnante alla Formont, per un corso di… tecnico progettazione aree verdi. Notare che sono laureato in informatica.

    Se questi sono gli insegnanti ti lascio immaginare… :)

 
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