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giovedì 12 Novembre 2009, 20:10

Novecento (2)

Circa vent’anni fa, più o meno mentre cadeva il Muro, apriva il Continente di corso Monte Cucco. Sembrava lamerica: enorme, prendeva tutto un isolato, col parcheggio sotterraneo e le corsie piene di ogni ben di Dio. Era il sogno consumista che avevamo covato per tutti gli anni ’80 e che diveniva realtà: e noi ragazzini, per le prime feste del liceo, usavamo andare a saccheggiare gli scaffali (soprattutto al settore birre).

Presto ne aprirono altri non molto distante, a cominciare da Le Gru: ma il Continente di corso Monte Cucco restò sempre il riferimento per uno dei quartieri più borghesi e benestanti di Torino – forse il più benestante tra quelli non così ricchi da non gradire un ipermercato sotto casa, tipo la Crocetta. Anzi, diventava pure una abitudine: anche abitando a Rivoli ci capitavo spesso, sulla strada da/per il Poli, con la mia prima Uno scassata o con la storica Punto azzurra. E ci capitavamo in molti: se per caso si commetteva l’errore di andarci il sabato pomeriggio, era inevitabile passare un buon quarto d’ora in coda nel garage sotterraneo, in mezzo ai gas, perché la coda del semaforo riscendeva a serpentone fin laggiù.

Fu un colpo al cuore quando, a inizio millennio, cambiarono l’insegna in Carrefour: ricordo una riunione di Naming Authority a Roma in cui io e .mau., ancora torinese, ci dovemmo consolare a vicenda. E poi vennero i discount, e poi un centro commerciale ogni tre isolati, e poi la crisi, e insieme il naturale invecchiamento di quel mostro di cemento, in cui cominciarono a gocciolare i soffitti e sbriciolarsi i gradini. Piano piano divenne un ipermercato sempre più triste; gli scaffali un tempo elegantemente disposti cominciarono ad affollarsi di roba da due soldi buttata alla rinfusa, cercando di reggere alla concorrenza dei prezzi.

Per risparmiare tagliarono il personale, e le code alle casse si allungarono a dismisura; è l’unico posto dove più di una volta sia andato via lasciando lì la mia spesa, per via della coda impossibile alla cassa. Alla fine i pochi rimasti si ribellarono, e qualche mese fa ci fu uno sciopero selvaggio, che diede il colpo di grazia.

Ci sono stato oggi e mi sono spaventato; intanto, metà dell’ingresso è transennato alla buona perché oggetto di lavori – evidentemente urgenti, per farli in piena stagione – e per entrare dal parcheggio è necessario inerpicarsi su per una scaletta di servizio indicata da un cartello scritto a pennarello. In più, il parcheggio è semideserto e anche l’interno è mezzo vuoto. Sono evidenti gli sforzi per disporre le cose in modo piacevole almeno nei settori a servizio, eppure qua e là compaiono interi pallet di questo o quel prodotto, messi alla buona a mo’ di discount. Anche sugli scaffali gli assortimenti sono sottili, ci sono zone vuote, c’è troppo poca merce per la dimensione. Non ci sono più le code alle casse, perché ora a poco personale corrispondono pochi clienti. L’esperienza, per chi ha conosciuto l’ipermercato come era una volta, è talmente triste che siamo scappati via più in fretta possibile, sperando che sia soltanto una situazione temporanea per via dei lavori.

Tutto invecchia – l’ipermercato ma non solo. Gli splendidi e prosperi quarantenni della classe media che ne riempivano le casse all’inaugurazione sono ora diventati sessantenni chiusi e spaventati dal futuro, invecchiati e aggrappati a quel po’ che sono riusciti a mettere da parte; i loro figli ragazzini sono ora trentenni disoccupati senza prospettive, che guardano l’etichetta per risparmiare cinque centesimi o che non la guardano per non sentirsi poveri. Tirare una riga diritta tra le due cose sarebbe una semplificazione eccessiva; eppure non è sbagliato notare che, vent’anni dopo che è caduto il Muro, siamo diventati noi la Bulgaria.

[tags]crisi, muro, economia, italia, torino, carrefour, continente, ipermercati, livello di vita, bulgaria[/tags]

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mercoledì 11 Novembre 2009, 12:10

Follie da stadio

Effettivamente, Toro-Lecce non è stata soltanto una partita folle per il risultato, un pareggio subito al novantanovesimo di quelli che solo il Toro può riuscire a far materializzare. Ancora più folle è stata la scena sugli spalti alla mezz’ora del primo tempo.

Infatti, dopo una prima mezz’ora di tifo gagliardo, la Maratona si è ammutolita: Paolo S. è caduto di sotto. Paolo S. è un signore che io, pur frequentando la curva opposta, conosco di vista da qualche trasferta e qualche riunione di tifo. E’ quello a destra in questa foto qui, trovata nel gruppo a lui dedicato su Facebook:

paolos.jpg

E’ uno di quelli che al calcio dedicano la vita, nel ruolo insostituibile di lanciacori della curva Maratona: la persona che, invece di godersi la partita, si mette in piedi sulla balconata, si gira verso gli altri e urlando a squarciagola dà gli attacchi per i cori. Senza queste persone, il tifo non potrebbe esistere: come farebbero migliaia di tifosi a intonare lo stesso canto tutti insieme? E senza il tifo non ci sarebbe nemmeno lo spettacolo del calcio; anche perché, nel calcio tattico muscolare e sceneggiato di oggi, se non sei in Champions League in campo c’è poco da vedere.

Per essere visibili ed udibili nel caos di una curva, queste persone devono mettersi in piedi, a cavalcioni della ringhiera: non c’è alternativa. La posizione ovviamente è precaria e pericolosa, basta vedere la foto… Da sempre si lega alla ringhiera un palo o l’asta rigida di una bandiera, spesso ricoperta di nastro da pacchi, in modo che la persona in piedi abbia qualcosa a cui tenersi mentre si agita per dare indicazioni: si vede anche nella foto, tra le due persone.

Purtroppo da qualche tempo – solo a Torino, dicono – la cosa non si può più fare: anche questo palo è stato considerato una potenziale arma contundente (non si sa per cosa, dato che il settore ospiti si trova dal lato opposto, a circa cento metri di distanza: a meno che il campione mondiale di giavellotto non sia un tifoso del Toro…). Dunque, niente palo e lanciacori in piedi a urlare e gesticolare reggendosi solo stringendo la ringhiera tra le gambe: e così, domenica Paolo è caduto di sotto.

Ancora più folle è stato quel che è accaduto dopo: mentre si soccorreva il caduto e lo si portava in ospedale (per miracolo non si è fatto niente di serio), la Digos ha ritenuto di arrestare e portar via uno dei pericolosi ultrà che stavano lì attorno… una vigilessa quarantenne del comune di Moncalieri. Non si capisce cosa sia successo: la polizia dice che la signora, che ha prestato soccorso al caduto, dopo aver accompagnato il ferito nell’antistadio ha resistito a non si sa cosa, con ciò costringendo gli agenti ad arrestarla e a diffidarla dal venire allo stadio, il che le vieterà di avere la tessera del tifoso per tutta la vita – dunque mai più partite di calcio – e magari le farà anche perdere il lavoro. Secondo la polizia, la signora era ubriaca e, perquisita, aveva in tasca un manganello da difesa personale, non si sa se portato apposta allo stadio o tenuto sempre in tasca come precauzione, dato che sia le aggressioni ai vigili che il disturbo delle donne per strada non sono certo eventi rari. Anche fosse, non pare che avesse cercato di usarlo.

Io non ho visto la scena dunque non posso esprimere giudizi, ma su Facebook girano commenti basiti: chi c’era ha detto di non aver visto alcuna ragione per arrestare questa persona, e anzi si cercano testimoni a sua difesa. Certo, o a Moncalieri le selezioni dei vigili sono molto poco serie o si fa davvero fatica a capire cosa mai possa aver fatto di tanto grave una persona con un ruolo di pubblico ufficiale, al punto da rischiare di rovinarsi la vita, soccorrendo un tizio ferito, tra tifosi tutti della stessa squadra.

Vero che allo stadio ci si sfoga e anche le persone migliori agiscono in modo inconsulto, ma al punto in cui siamo la paura di andare allo stadio te la mette non il rischio (ormai inesistente) di incidenti, ma la paura di incontrare un tutore dell’ordine un po’ esaltato.

P.S. Altrettanto folle è stata la scena di Renzo Rabellino, leader della Lega Padana Verdi Verdi Grillo Parlante No Euro Forza Toro Pensionati Democrazia Cristiana, che, davanti alla curva, raccoglieva firme “per il Filadelfia” (in realtà i presenti sospettano che le voglia usare per le elezioni regionali) fino a che un paio di ultras non sono andati a “dare il giro” al banchetto (sin dagli anni ’70, quando la cosa implicava potenziali pistolettate, tra i tifosi del Toro vige un rigido “no politica in curva”). Ha poi proseguito protetto da una ventina di poliziotti pagati da noi, con i comitati pro Stadio Filadelfia che picchettavano il banchetto spiegando alla gente perché non firmare.

Del resto, nel weekend precedente era stato avvistato davanti allo stadio per la partita della Juve, raccogliendo firme “per la restituzione degli scudetti rubati”. Io ci ho pure messo un po’ a capire che intendeva quelli rubati alla Juve dall’Inter: di primo acchito avevo pensato a quelli rubati dalla Juve al resto del mondo :-P

[tags]calcio, torino, toro, stadio, curva maratona, juve, paolo s., tifo, ultras, daspo, digos, arresto, rabellino, firme, elezioni, scudetti rubati[/tags]

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martedì 10 Novembre 2009, 11:28

Novecento (1)

Naturalmente vorrei anch’io, in questi giorni, scrivere qualche pensiero per il ventennale della caduta del Muro, sollecitato dall’attenzione generalizzata di questi giorni. Sono però malato, per cui vi dovrete accontentare di qualche appunto sparso ogni tanto.

La caduta del muro è in realtà la fine della seconda guerra mondiale: la seconda parte del Novecento è davvero una appendice quarantennale di guerra gelida progressivamente disciolta, vinta non con le armi ma parte per fame e parte per darwinismo: nulla batte il mercato come sistema per promuovere l’innovazione, dunque a lungo andare i sistemi ad economia centralizzata sono rimasti sempre più indietro, tecnologicamente e socialmente, fino a crollare.

Qualcosa della seconda guerra mondiale, è vero, tuttora resta, partendo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ma vedrete che più prima che poi cambierà pure quello, anche se sarà l’ultimo mattone. Il resto sono frattaglie, talvolta con effetti che, non fossero seri, tendono all’esilarante: per esempio a tutt’oggi il Liechtenstein si rifiuta di riconoscere la Slovacchia come stato sovrano e viceversa, per via delle proprietà liechtensteinesi in Cecoslovacchia confiscate dal regime comunista subito dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Se gli anni ’70 (su cui magari torneremo nei prossimi giorni) sono stati il periodo della lotta impegnata, gli anni ’80 sono stati quelli del “rush finale” verso il traguardo ormai vicino. Le ideologie, apparentemente più forti che mai, già stavano morendo in mezzo alle “metropoli da bere” e al gigantismo plasticato. Ed è per questo che per capire il clima che portò alla caduta del muro ho ripescato una chicca che apparentemente c’entra poco.

Era il 1985 e per capire che anno fosse vi dico solo due date: marzo 1985, We Are The World; luglio 1985, Live Aid. Dopo due cose così, era chiaro come la musica fosse la nuova propaganda dell’Occidente, e gli artisti friggevano per essere generosi. E dunque, a fine anno, uscì questo:

Artists United Against Apartheid era il progetto di Little Steven – storico chitarrista di Bruce Springsteen – contro il casinò-villaggio vacanze sudafricano di Sun City, una roba che oggi considereremmo mostruosa per l’impatto ambientale, ma che vent’anni fa era mostruosa perché riservata ai vizi dei ricchi bianchi, tra i quali figurava in modo prominente l’ascoltare concerti di Cher.

Godetevi questo video, con Bruce vestito da Fonzie che cammina per la strada, Lou Reed in mezzo a due camionisti che passavano di lì per caso, Bono col pizzetto e una pettinatura improbabile (ma che voce!), Ringo Starr che suona la batteria col figlio ragazzino, i primi rapper di una tristezza indicibile… A tratti sembra una imbarazzante demo di un sistema di videomontaggio, di quelle dove ogni effetto disponibile deve essere sfruttato almeno tre volte per dimostrare la straordinaria potenza della macchina (all’epoca l’impatto doveva essere mozzafiato). Ma tutto faceva brodo, in una ondata di buonismo sincero, in cui il credere di poter cambiare il mondo finì, una volta tanto, per cambiarlo davvero.

Ecco, questo era il clima che portò il muro a cadere. Gli amanti del comunismo si lamentano spesso che quel clima fosse falso, che sotto sotto ci fossero i soldi e gli interessi industriali. E’ vero, ma relativo; perché non c’è alcun dubbio che, con tutti gli enormi limiti dell’attuale situazione politica globale, rispetto a vent’anni fa il nostro sia oggi davvero “un altro pianeta”, dove le guerre sono affari locali anziché planetari, e dove tutti gli uomini di buona volontà possono conoscere e apprezzare tutti gli altri. Dunque, come in tutte le cose umane, ci tocca tollerare il fatto che esse incorporino necessariamente delle belle contraddizioni.

I Queen, per esempio, nel 1985 andarono a Wembley per il Live Aid e, contro la fame nel mondo, diedero quella che è generalmente considerata la più grande performance live di tutti i tempi. Un anno prima, erano andati a suonare a Sun City.

[tags]muro, berlino, novecento, storia, comunismo, musica, concerti benefici, sun city, apartheid, sud africa, little steven, bruce springsteen, lou reed, bono, queen, live aid[/tags]

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domenica 8 Novembre 2009, 21:45

Se non vado io

Insomma, oggi avevo la febbre e dunque sono stato impossibilitato a compiere il mio giro alla fiera del tartufo di Montechiaro d’Asti; e siccome non potevo andare io, non sono andate neanche le altre persone che dovevano venire con me. Alla fine, tutti si son chiesti che senso avesse fare la festa se non c’ero io: per questo ha cercato di dare pacco pure la madrina Belen Rodriguez, nonostante la folla assiepata sotto la pioggia per ammirare le sue grazie e la sua abilità nel maneggiamento del tartufo. All’ora prevista per la cerimonia, ha chiamato da chissà dove millantando un incidente in autostrada – “tutto bloccato, un casino” – nonostante sui siti appositi non ve ne fosse traccia; è poi arrivata con due ore di ritardo.

Di fronte a tutte le autorità inferocite, era soltanto il minimo che scattasse la tipica azione che compiono i carabinieri quando vogliono fartela pagare: il controllo minuzioso dei documenti dell’auto. Infatti, si è scoperto che il Fabrizio Corona era sì alla guida della Lamborghini d’ordinanza, ma soltanto con la fotocopia di un foglio rosa, dopo che mesi fa gli avevano ritirato la patente. E così, giù multe e sequestri. In seguito, il sindaco ha comunicato ai giornali, con preghiera di massima diffusione, che non pagherà l’ingaggio alla coppia di VIP.

Già che ci sono, colgo l’occasione per un suggerimento: anche visto che si tratta di soldi pubblici, la prossima volta potrebbe essere il caso di evitare di buttarli per la scosciatona di turno e investirli in qualcosa di più utile per la comunità. A inaugurare la festa può venire, che so, un professore universitario o un volontario della Croce Rossa: sono sicuro che, oltre a non volere una lira, sapranno portare un contributo migliore di quello dei signori Corona.
[tags]tartufo, montechiaro, belen, corona, ma che genere di gente invitano i comuni italiani[/tags]

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sabato 7 Novembre 2009, 17:08

Sforzi

Oggi niente post: dopo aver passato la notte a tossire e la mattinata a trasportare e scaricare le macerie del muretto interno della mia cantina, mi sono ritrovato con la febbre a 38,5.

Sarà la quinta o sesta volta che mi viene la febbre negli ultimi 18 mesi – l’ultima meno di tre mesi fa – e generalmente la cosa si trascina per giorni, con picchi di temperatura tra il 40 e il 41. Vedremo stavolta; certo che sto cominciando a farmi delle domande sulla mia resistenza fisica. Forse dovrei essere un po’ più selettivo negli impegni che mi prendo; vengo da un giovedì sera con prima riunione politica in pizzeria più seconda post-cena, poi venerdì riunione politica in pizzeria a Chivasso via bus + auto + treno + metro, poi stamattina skype call (per fortuna cancellata); poi, oggi pomeriggio avevamo una riunione con i collegnesi alle 16, seguita dall’incontro con Sonia Alfano alle 17, seguita dalla terza pizza di fila e poi manifestazione No Tav a Bussoleno in serata, per poi chiudere domani con riunione regionale tutto il giorno a Vercelli (a cui comunque non sarei andato prima del primo pomeriggio, per ritagliarmi almeno una domenica mattina privata).

I risultati di tutto questo sbattimento – a cui va aggiunto tutto il resto: lavoro, nuovi progetti, viaggi per conferenze, partite del Toro e vita privata – sono ancora tutti da verificare; ho scoperto che in politica, persino al di fuori delle mafie dei grandi partiti, la maggior parte dello sforzo va a gestire piccole beghe di grandi persone o grandi beghe di piccole persone, e comunque capacità e impegno non necessariamente pagano, anzi alle volte hai la sensazione che disturbino o che alcuni (non tutti per fortuna) siano intenzionati per prima cosa a neutralizzare loro e te. In fondo, a partire da me, siamo tutti italiani e come tali ragioniamo; sarebbe stato ingenuo aspettarsi che le cose potessero essere diverse.

[tags]sforzi, influenza, febbre, scelte di vita, politica, 5 stelle, sonia alfano[/tags]

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venerdì 6 Novembre 2009, 15:20

Uniti nelle differenze, naturalmente ideologiche

Seguo per ovvi motivi l’evoluzione dei preparativi per le elezioni regionali 2010 in Piemonte, e devo dire che raramente ci si è divertiti come in questi giorni.

Già, perché in entrambi gli schieramenti sono in corso le grandi manovre per essere il candidato alla presidenza; e se nel centrodestra almeno sono pudichi e se le fanno a porte chiuse – pare certo Cota in quanto il Piemonte toccherebbe alla Lega, se non che il candidato dal migliore risultato sarebbe Ghigo – nel centrosinistra come al solito si tirano cannonate in piazza.

Infatti, il centrosinistra è preso in mezzo dalla competizione tra Bresso e Chiamparino. La prima è il governatore uscente, i sondaggi la danno come più popolare dei partiti che la sostengono, e la regola generale è che chi ha vinto la scorsa volta e non è in crisi di popolarità va ricandidato. D’altra parte, però, Chiamparino è ancora più popolare di lei, e soprattutto – essendo in scadenza e non riconfermabile tra un anno – ha l’esigenza di piazzarsi su una nuova poltrona per i prossimi anni, dato che è rimasto fuori dai giochi per la segreteria del PD (ma non l’ha mica presa male: ha solo fatto sapere a tutto il mondo che lui alle primarie avrebbe votato scheda bianca), e che a livello nazionale per il centrosinistra butta malissimo.

Da mesi ormai dunque si assiste a una triste pantomima, in cui ad ogni riunione ufficiale il PD riconferma la fiducia nella Bresso, ma poi appena lei si gira partono le manovre dei sostenitori di Chiamparino. Tali manovre si sono infine concentrate sull’UDC, che sta cercando di piazzare i suoi voti al migliore offerente e che, come già l’anno scorso per la Provincia, potrebbe rivelarsi decisivo. Dunque da tempo, a ogni occasione, l’UDC dice che “non accettiamo diktat sui nomi dei candidati” e di fatto, sottobanco, aggiunge “noi facciamo l’accordo con voi ma solo se il candidato è Chiampa”. Per gli stessi motivi, i nanopartiti di sinistra sostengono invece la Bresso, temendo di essere marginalizzati o addirittura cacciati dalla coalizione se sostituiti con un partito più consistente come l’UDC.

Ufficialmente queste posizioni sono dovute al fatto che la Bresso è di origini radicali e anticlericali, mentre Chiamparino è ecumenico; ma non si sa se la posizione dell’UDC sia anche promossa sottobanco dal Chiampa stesso, che ha bisogno di piazzarsi ma non può certo fare la figura di quello che fa le scarpe alla Bresso. Dunque il sindaco ha dovuto dare il suo assenso alla decisione ufficiale del suo partito, ossia “il candidato del PD è Bresso”, per poi magari sperare di rientrare nei giochi con la scusa di “Ma se io sono l’unico che può fare l’accordo che ci farà vincere, a malincuore mi metto a disposizione del partito. Non son mica io che lo voglio, sono gli altri che ce lo impongono!”.

La Bresso, che non è fessa, ha cercato di giocare d’anticipo incassando l’investitura dal partito e poi mettendola subito in piazza, ovvero partendo con una campagna di cartelloni con la sua faccia e la scritta “presidente candidata” per rendere mediaticamente impossibile il cambio del candidato.

L’UDC (cioè Chiamparino) ha reagito scompostamente dicendo qualcosa che assomiglia molto a “vaffanculo; ha risposto il PDCI (cioè Bresso) dicendo qualcosa che assomiglia molto a “chi cazzo credete di essere, vaffanculo voi”. Evidentemente però l’offensiva del Chiampa, passando per le segreterie romane, è significativa, perché oggi la Bresso esce addirittura con l’idea di candidarsi comunque con una sua lista, in polemica col partito, se non venisse ricandidata: l’opzione bomba atomica o anche “muoia Mercedes con tutti i Filistei”. Infatti ciò, in una elezione a turno singolo come le regionali, avrebbe l’esito di far certamente perdere il centrosinistra, ma a fronte delle profonde ragioni ideologiche del dissidio tra Bresso e Chiamparino ne può valere la pena… anche se onestamente tali ragioni sul momento mi sfuggono. Ma non è certo questione di poltrone!

P.S. Naturalmente l’esito di questa serie di legnate per la poltrona determinerà altre scelte a cascata, tra cui quella del prossimo sindaco di Torino, probabilmente offerto a Vietti in cambio del sostegno al Chiampa in Regione. Siete avvisati!

[tags]politica, elezioni regionali, piemonte, bresso, chiamparino, pd, centrosinistra[/tags]

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giovedì 5 Novembre 2009, 11:16

Non

Sarà capitato anche a voi, se come me siete trentenni o giù di lì, di andare a cena con gli amici di una vita. Noi siamo andati alla Trattoria Moderna di Banchette, che è in realtà un posto nuovo ed elegante dove la cucina è elaborata ma anche ottima. Abbiamo mangiato e abbiamo bevuto tutto ciò di cui ci veniva voglia – primo, secondo, formaggio e dolce, una magnum di ottimo Barolo a soli 35 euro e pure la bottiglia di passito per il finale – e abbiamo chiacchierato di ogni cosa: viaggi di qui e di là, amici e conoscenti di mezzo mondo, macchine fotografiche digitali, settimane di surf in Egitto, storie di Richi wasabi, vecchi episodi universitari, difficoltà del digitale terrestre. L’importante però non è quello di cui abbiamo parlato, ma quello di cui non abbiamo parlato.

O magari ci si arrivava col discorso, e se ne parlava anche, per pochi, rabbiosi minuti, ma per poi girare da un’altra parte e ritornare verso il surf e le macchine fotografiche; come girando per una bella città (ma finta) per poi trovarsi immancabilmente davanti al bassofondo, e svoltare subito da un’altra parte per allontanarsene, e però ritrovarcisi ancora nonostante tutti gli sforzi.

Dunque ecco di cosa non abbiamo parlato: non abbiamo parlato di quanto faccia schifo l’Italia, né di quanto ci vergogniamo ogni volta che mettiamo piede all’estero e ci troviamo in un paese civile. Non abbiamo parlato del fatto che, nonostante fossimo tutti tra i migliori laureati della più selettiva facoltà di Torino, ci troviamo qui a non sapere bene cosa fare delle nostre vite professionali, mentre gli ultimi deficienti figli di papà finiscono di distruggere la nostra economia per tremila euro al mese o vanno direttamente in televisione a fare i buffoni. Non abbiamo parlato di quanto ci sarebbe convenuto imbucarci al caldo di una scrivania qualunque, invece di cercare di costruire aziende e posti di lavoro, per essere poi inseguiti dalle pretese e dai disservizi del nostro Stato. Non abbiamo parlato delle nostre storie personali complicate da tutto, del nervosismo che ti fa litigare per un niente e dell’impossibilità di progettarsi un futuro stabile e credibile.

E soprattutto, non abbiamo parlato del nostro convivere con la sensazione di un prossimo giorno del giudizio, indefinito ma incombente, che prima o poi verrà come un’alluvione e come un’alluvione ci porterà via; e si porterà via tutto, la civiltà e l’inciviltà, il surf e le macchine fotografiche digitali, Berlusconi e le sue puttane, Marrazzo e i suoi trans, il crocefisso imposto nelle scuole tra gli applausi del maggior partito teoricamente laico di questo Paese, l’ignoranza che avanza e la razionalità che arretra, la parte di noi che è moderna e disgustata e anche quella che è italiana e lascia regolamente l’auto e la vita parcheggiate in doppia fila.

Si dice che non si fanno più aziende, non si fanno più invenzioni, non si fanno più famiglie e non si fanno più figli perché c’è la crisi economica, ma questo è inesatto: da che mondo e mondo, anche nelle condizioni di estrema povertà, le invenzioni ed i figli sono venuti fuori. Il motivo per cui non si fa più niente è che non si crede più che possa esistere un futuro, o che, se verrà, sarà migliore o almeno non troppo peggio del presente.

Io sono un pazzo e soffio contro i mulini a vento, sputo incontro alla tempesta e preparo l’arpione per una balena che forse non ci sarà mai, nel cammino solitario che conduce a cambiare il mondo, o più probabilmente alla follia. Scommetto sul futuro e non mi guardo mai le spalle, sperando che quando lo farò ci troveremo in tanti, a non esserci arresi nella battaglia della vita.

[tags]italia, trentenni, crisi, precariato, lavoro, impresa, generazione boh, famiglia, società, futuro[/tags]

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mercoledì 4 Novembre 2009, 13:11

Licenziati per interposta azienda

Si sta finalmente diffondendo sui media la scandalosa vicenda dei lavoratori dei call center del gruppo Omega, ossia di aziende dai brillanti e moderni nomi di Agile e Phonemedia.

I call center sono una forma moderna di schiavitù, non tanto nel lavoro in sé – che come ogni lavoro può piacere o non piacere – ma nelle forme contrattuali. Sono il tipico luogo dove i giovani italiani vengono imbarcati in modo rigorosamente precario, sottopagati e spremuti il più possibile e poi, quando in teoria dovrebbero essere pronti per una assunzione come previsto anche dalla legge, cacciati per sostituirli con nuovi giovani, in una catena di montaggio dello sfruttamento.

Si tratta di un lavoro massificato per definizione: tot lavoratori fanno tot telefonate, tot telefonate fanno tot incassi per l’azienda. Finito lì. Ci vuole spesso molta professionalità per essere in grado di aiutare qualcuno a distanza via telefono, ma non è questo il punto; ciò che interessa è soltanto il ritmo e il numero delle telefonate svolte, e al massimo – per quelli che “fanno outbound”, cioè rompono le scatole alla gente a casa cercando di vendere qualcosa – la capacità piazzistica di vendere qualcosa a qualunque costo.

La crescita italiana nell’ICT degli scorsi anni non è mai stata basata sulla ricerca o sull’innovazione, ma sui call center (che in Italia sono considerati un servizio ICT, perché per funzionare “usano il compiuter”): per definizione dunque è di basso livello, non crea progresso duraturo ed è funzionale solo all’arricchimento degli sfruttatori. Però, persino in un paese di chiacchiere come il nostro, non si può telefonare all’infinito: dunque arriva la crisi e di conseguenza ci sono meno telefonate, dunque servono meno lavoratori. E cosa si fa?

Beh, le aziende che prima hanno lucrato – a partire da Eutelia, e per chi ha la memoria corta ricordo che qui si parla giustamente male di Eutelia da un lustro abbondante; Eutelia che peraltro aveva acquistato lavoratori da Getronics, che li aveva acquistati da Olivetti, in una catena di commercio umano senza fine – ora scaricano al più presto l’intera baracca, secondo il modello della “bad company”; perché in Italia licenziare è impossibile persino quando sarebbe giusto, ma sbolognare migliaia di lavoratori a una scatola vuota in modo che possa poi fallire e lasciarli in mezzo alla strada è una soluzione assolutamente permessa. Dunque, Omega – azienda di proprietà di fiduciarie di fiduciarie di chissà chi e con chissà quali fondi, con un sito web di una pagina sola – compra Agile promettendo investimenti e rilanci, e poi dopo un mese sparisce e smette di pagare gli stipendi.

E poi, oltre a fotterti, ti prendono anche per il culo: già, perché una azienda dal nome Omega che altro scopo può avere?

[tags]agile, phonemedia, omega, call center, licenziamenti, crisi, precariato, schiavitù[/tags]

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martedì 3 Novembre 2009, 18:18

Disastro a Caselle

Mentre scrivevo ieri da Milano il post sul mio viaggio low cost, ancora non avevo idea di quel che stava succedendo all’aeroporto di Caselle. So però che quando sono sceso dal bus a Bergamo ho trovato i miei bagagli già sul nastro che giravano, e ho pensato: diavolo, mi fosse mai successo una volta in decine e decine di sbarchi a Caselle.

Per chi se l’è perso, da ieri mattina l’aeroporto di Torino è bloccato dallo sciopero a oltranza degli operatori dell’handling – in parole povere, quelli che caricano e scaricano le valigie dagli aerei. A Caselle questo lavoro è svolto da due società, che in regime di (molto teorica) concorrenza si dividono gli appalti delle varie compagnie aeree; una è Aviapartner, belga e leader di mercato; l’altra è Sagat Handling, ossia l’aeroporto stesso, che come certamente saprete (almeno se leggete questo blog) è di proprietà a maggioranza degli enti locali con una consistente minoranza di Benetton, che di fatto ne detta le politiche di gestione.

Lo sciopero deriva dalla decisione di Aviapartner di licenziare 24 lavoratori, a fronte del continuo calo del traffico aereo e del fatto prossimo venturo, non ufficiale ma evidente, che, dopo la recente entrata di Air France in Alitalia, alla prima occasione l’appalto dei francesi verrà riunificato con quello degli italiani e passato dunque da Aviapartner a Sagat Handling. La decisione è stata annunciata ad agosto con decorrenza 2 novembre; da allora nessuno ha trovato una soluzione per ricollocare i lavoratori – anzi, a dire il vero, nessuno ci ha nemmeno provato; hanno tutti messo la testa sotto la sabbia – e così, all’ultimo giorno, è partito lo sciopero selvaggio, che ha coinvolto anche i colleghi dell’altra società (prima tutti, poi una parte); sciopero che continua tuttora.

Lo sciopero è davvero selvaggio: senza nessun preavviso (anche se tutti conoscevano benissimo la situazione) e senza nessun riguardo per i viaggiatori; sono bloccati anche i voli di continuità territoriale per la Sardegna, in teoria garantiti per legge in ogni caso. Gli unici che sono stati fatti partire senza problemi, solo con un paio d’ore di ritardo, sono i miliardari calciatori della Juve, in un vero episodio di lotta di classe a rovescio: gli scioperanti evidentemente non hanno retto al fascino di Del Piero e compagni e sono stati straziati dall’idea che essi dovessero dirigere le proprie Porsche alla volta di Malpensa – una prospettiva disumana che li ha convinti a interrompere lo sciopero solo per loro – ma non si sono fatti problemi a lasciare a terra a tempo indeterminato famiglie con bimbi piccoli, anziani, disabili, malati, persone con gravi esigenze familiari e così via, oltre naturalmente a migliaia e migliaia di lavoratori e turisti di ogni tipo.

Le compagnie aeree si sono arrangiate; qualcuno ha cercato invano di convincerle che, come da eleganti brochure, la Regione Piemonte dispone di un “sistema aeroportuale integrato” che permette di redirigere i voli sul modernissimo aeroporto di Cuneo-Levaldigi, dato che chiunque l’abbia mai visto sa che basterebbe un medio volo per Roma con un centinaio di passeggeri a bordo a mettere in crisi le risorse dello scalo per un paio d’ore. Dunque, tutti a Malpensa: una prospettiva che ormai per i torinesi in cerca d’aereo è diventata la normalità.

Sarebbe facile prendersela con questi lavoratori, ma anche ingeneroso – vorrei vedere voi, con la prospettiva di finire in mezzo a una strada. Tuttavia, anche se sono uno strenuo difensore della libertà di manifestare – in Italia sempre più minacciata – non posso che dire che un modo di fare del genere è inqualificabile, e certo non contribuisce né a migliorare la situazione – dopo due giorni del genere, quanta gente la prossima volta volerà da Malpensa o prenderà l’alta velocità per Roma? – né a costruire simpatia per la causa degli scioperanti; simpatia già indebolita da confronti come quello capitato a me, inconsapevolmente, prendendo il mio bagaglio a Bergamo.

Tuttavia, è tutto il sistema che ha fallito. Il nostro aeroporto è alla frutta, dopo anni di gestione incompetente, sonnolenta, viziata da logiche che non c’entrano nulla con lo sviluppo dell’infrastruttura e del territorio. Siamo in teoria la quarta città d’Italia, ma il nostro aeroporto a settembre è stato solo il quindicesimo per traffico; scali come Bologna, Pisa e Catania fanno quasi il doppio del traffico di Caselle. Chi non gira non è abituato, pensa che sia normale dover andare in un’altra regione per prendere un aereo se non si va a Roma o nelle maggiori capitali europee; e invece ormai le low cost sono ovunque e fanno crescere il traffico internazionale da e per le varie città, sia per turismo che per affari, promuovendo pesantemente l’economia del territorio e risparmiando a chi ci abita ore di trasferimento su e giù per le autostrade italiane.

Ovunque, tranne che a Torino. Solo quest’anno Ryanair ha aperto nuove basi in Italia a Bari, Brindisi, Pescara, Trapani… basi che significano personale di stanza sul posto e una copertura significativa di rotte verso il mondo. A Caselle gli irlandesi ci stanno provando da anni, ma sono i nostri luminosi dirigenti e politici cittadini a non volerli, limitandosi ogni tanto a qualche conferenza stampa e poi millantando la necessità di un “bando di gara” per una base low cost, che però giace in perpetua preparazione da anni. In compenso, in poche settimane sono riusciti a far avere sei milioni di euro di fondi regionali ad Alitalia (guarda caso, di Benetton e simili) per aprire 4-rotte-4 di quelle che si pagano da sole, e neanche tutti i giorni.

E’ chiaro che se le scelte e le capacità sono queste, se lo stile di gestione è all’italiana – nessun investimento per crescere, “fin che la barca va”, l’importante è il posto sicuro e lo stipendio di giada, soddisfiamo innanzi tutto gli amici e gli amici degli amici, eccetera -, il risultato è un progressivo calo di passeggeri, che vuol dire posti di lavoro in meno e opportunità in meno per tutta la città; e così, alla fine, quando proprio non se ne può più fare a meno, i nodi vengono al pettine; e scatta la lotta al coltello per le poche risorse rimaste.

In attesa che almeno il prefetto si svegli e faccia qualcosa, anche solo un po’ di precettazione, c’è da mettersi le mani nei capelli: e la cosa peggiore è l’assenza di prospettive di cambiamento.

[tags]torino, aeroporto, caselle, licenziamenti, aviapartner, sciopero, trasporti, aerei, crisi, sagat[/tags]

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lunedì 2 Novembre 2009, 23:54

Low cost

È vero che siamo riusciti a risparmiare circa cinquanta euro a testa scegliendo di tornare con il volo Girona-Bergamo di Ryanair invece che con un Barcellona-Malpensa di Easyjet o di Lufthansa Italia.

Ma non sono sicuro che il risparmio valga lo sbattimento di viaggiare per ore in vecchi e frusti pullman per passare da aeroporti secondari, scassati e male organizzati…

Oltretutto Ryanair ora ti obbliga a fare il check-in via web (per poi stare lo stesso in coda per consegnare il bagaglio) e ha ridotto il peso consentito a quindici chili per bagaglio imbarcato (ovviamente a pagamento) con una sovrattassa di venti euro per ogni chilo in più: a Girona era una litania di italiani con borse infinite che pietivano lo sconto…

[tags]ryanair, trasporti, low cost, girona, bergamo[/tags]

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