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martedì 10 Novembre 2009, 11:28

Novecento (1)

Naturalmente vorrei anch’io, in questi giorni, scrivere qualche pensiero per il ventennale della caduta del Muro, sollecitato dall’attenzione generalizzata di questi giorni. Sono però malato, per cui vi dovrete accontentare di qualche appunto sparso ogni tanto.

La caduta del muro è in realtà la fine della seconda guerra mondiale: la seconda parte del Novecento è davvero una appendice quarantennale di guerra gelida progressivamente disciolta, vinta non con le armi ma parte per fame e parte per darwinismo: nulla batte il mercato come sistema per promuovere l’innovazione, dunque a lungo andare i sistemi ad economia centralizzata sono rimasti sempre più indietro, tecnologicamente e socialmente, fino a crollare.

Qualcosa della seconda guerra mondiale, è vero, tuttora resta, partendo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ma vedrete che più prima che poi cambierà pure quello, anche se sarà l’ultimo mattone. Il resto sono frattaglie, talvolta con effetti che, non fossero seri, tendono all’esilarante: per esempio a tutt’oggi il Liechtenstein si rifiuta di riconoscere la Slovacchia come stato sovrano e viceversa, per via delle proprietà liechtensteinesi in Cecoslovacchia confiscate dal regime comunista subito dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Se gli anni ’70 (su cui magari torneremo nei prossimi giorni) sono stati il periodo della lotta impegnata, gli anni ’80 sono stati quelli del “rush finale” verso il traguardo ormai vicino. Le ideologie, apparentemente più forti che mai, già stavano morendo in mezzo alle “metropoli da bere” e al gigantismo plasticato. Ed è per questo che per capire il clima che portò alla caduta del muro ho ripescato una chicca che apparentemente c’entra poco.

Era il 1985 e per capire che anno fosse vi dico solo due date: marzo 1985, We Are The World; luglio 1985, Live Aid. Dopo due cose così, era chiaro come la musica fosse la nuova propaganda dell’Occidente, e gli artisti friggevano per essere generosi. E dunque, a fine anno, uscì questo:

Artists United Against Apartheid era il progetto di Little Steven – storico chitarrista di Bruce Springsteen – contro il casinò-villaggio vacanze sudafricano di Sun City, una roba che oggi considereremmo mostruosa per l’impatto ambientale, ma che vent’anni fa era mostruosa perché riservata ai vizi dei ricchi bianchi, tra i quali figurava in modo prominente l’ascoltare concerti di Cher.

Godetevi questo video, con Bruce vestito da Fonzie che cammina per la strada, Lou Reed in mezzo a due camionisti che passavano di lì per caso, Bono col pizzetto e una pettinatura improbabile (ma che voce!), Ringo Starr che suona la batteria col figlio ragazzino, i primi rapper di una tristezza indicibile… A tratti sembra una imbarazzante demo di un sistema di videomontaggio, di quelle dove ogni effetto disponibile deve essere sfruttato almeno tre volte per dimostrare la straordinaria potenza della macchina (all’epoca l’impatto doveva essere mozzafiato). Ma tutto faceva brodo, in una ondata di buonismo sincero, in cui il credere di poter cambiare il mondo finì, una volta tanto, per cambiarlo davvero.

Ecco, questo era il clima che portò il muro a cadere. Gli amanti del comunismo si lamentano spesso che quel clima fosse falso, che sotto sotto ci fossero i soldi e gli interessi industriali. E’ vero, ma relativo; perché non c’è alcun dubbio che, con tutti gli enormi limiti dell’attuale situazione politica globale, rispetto a vent’anni fa il nostro sia oggi davvero “un altro pianeta”, dove le guerre sono affari locali anziché planetari, e dove tutti gli uomini di buona volontà possono conoscere e apprezzare tutti gli altri. Dunque, come in tutte le cose umane, ci tocca tollerare il fatto che esse incorporino necessariamente delle belle contraddizioni.

I Queen, per esempio, nel 1985 andarono a Wembley per il Live Aid e, contro la fame nel mondo, diedero quella che è generalmente considerata la più grande performance live di tutti i tempi. Un anno prima, erano andati a suonare a Sun City.

[tags]muro, berlino, novecento, storia, comunismo, musica, concerti benefici, sun city, apartheid, sud africa, little steven, bruce springsteen, lou reed, bono, queen, live aid[/tags]

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domenica 8 Novembre 2009, 21:45

Se non vado io

Insomma, oggi avevo la febbre e dunque sono stato impossibilitato a compiere il mio giro alla fiera del tartufo di Montechiaro d’Asti; e siccome non potevo andare io, non sono andate neanche le altre persone che dovevano venire con me. Alla fine, tutti si son chiesti che senso avesse fare la festa se non c’ero io: per questo ha cercato di dare pacco pure la madrina Belen Rodriguez, nonostante la folla assiepata sotto la pioggia per ammirare le sue grazie e la sua abilità nel maneggiamento del tartufo. All’ora prevista per la cerimonia, ha chiamato da chissà dove millantando un incidente in autostrada – “tutto bloccato, un casino” – nonostante sui siti appositi non ve ne fosse traccia; è poi arrivata con due ore di ritardo.

Di fronte a tutte le autorità inferocite, era soltanto il minimo che scattasse la tipica azione che compiono i carabinieri quando vogliono fartela pagare: il controllo minuzioso dei documenti dell’auto. Infatti, si è scoperto che il Fabrizio Corona era sì alla guida della Lamborghini d’ordinanza, ma soltanto con la fotocopia di un foglio rosa, dopo che mesi fa gli avevano ritirato la patente. E così, giù multe e sequestri. In seguito, il sindaco ha comunicato ai giornali, con preghiera di massima diffusione, che non pagherà l’ingaggio alla coppia di VIP.

Già che ci sono, colgo l’occasione per un suggerimento: anche visto che si tratta di soldi pubblici, la prossima volta potrebbe essere il caso di evitare di buttarli per la scosciatona di turno e investirli in qualcosa di più utile per la comunità. A inaugurare la festa può venire, che so, un professore universitario o un volontario della Croce Rossa: sono sicuro che, oltre a non volere una lira, sapranno portare un contributo migliore di quello dei signori Corona.
[tags]tartufo, montechiaro, belen, corona, ma che genere di gente invitano i comuni italiani[/tags]

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sabato 7 Novembre 2009, 17:08

Sforzi

Oggi niente post: dopo aver passato la notte a tossire e la mattinata a trasportare e scaricare le macerie del muretto interno della mia cantina, mi sono ritrovato con la febbre a 38,5.

Sarà la quinta o sesta volta che mi viene la febbre negli ultimi 18 mesi – l’ultima meno di tre mesi fa – e generalmente la cosa si trascina per giorni, con picchi di temperatura tra il 40 e il 41. Vedremo stavolta; certo che sto cominciando a farmi delle domande sulla mia resistenza fisica. Forse dovrei essere un po’ più selettivo negli impegni che mi prendo; vengo da un giovedì sera con prima riunione politica in pizzeria più seconda post-cena, poi venerdì riunione politica in pizzeria a Chivasso via bus + auto + treno + metro, poi stamattina skype call (per fortuna cancellata); poi, oggi pomeriggio avevamo una riunione con i collegnesi alle 16, seguita dall’incontro con Sonia Alfano alle 17, seguita dalla terza pizza di fila e poi manifestazione No Tav a Bussoleno in serata, per poi chiudere domani con riunione regionale tutto il giorno a Vercelli (a cui comunque non sarei andato prima del primo pomeriggio, per ritagliarmi almeno una domenica mattina privata).

I risultati di tutto questo sbattimento – a cui va aggiunto tutto il resto: lavoro, nuovi progetti, viaggi per conferenze, partite del Toro e vita privata – sono ancora tutti da verificare; ho scoperto che in politica, persino al di fuori delle mafie dei grandi partiti, la maggior parte dello sforzo va a gestire piccole beghe di grandi persone o grandi beghe di piccole persone, e comunque capacità e impegno non necessariamente pagano, anzi alle volte hai la sensazione che disturbino o che alcuni (non tutti per fortuna) siano intenzionati per prima cosa a neutralizzare loro e te. In fondo, a partire da me, siamo tutti italiani e come tali ragioniamo; sarebbe stato ingenuo aspettarsi che le cose potessero essere diverse.

[tags]sforzi, influenza, febbre, scelte di vita, politica, 5 stelle, sonia alfano[/tags]

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venerdì 6 Novembre 2009, 15:20

Uniti nelle differenze, naturalmente ideologiche

Seguo per ovvi motivi l’evoluzione dei preparativi per le elezioni regionali 2010 in Piemonte, e devo dire che raramente ci si è divertiti come in questi giorni.

Già, perché in entrambi gli schieramenti sono in corso le grandi manovre per essere il candidato alla presidenza; e se nel centrodestra almeno sono pudichi e se le fanno a porte chiuse – pare certo Cota in quanto il Piemonte toccherebbe alla Lega, se non che il candidato dal migliore risultato sarebbe Ghigo – nel centrosinistra come al solito si tirano cannonate in piazza.

Infatti, il centrosinistra è preso in mezzo dalla competizione tra Bresso e Chiamparino. La prima è il governatore uscente, i sondaggi la danno come più popolare dei partiti che la sostengono, e la regola generale è che chi ha vinto la scorsa volta e non è in crisi di popolarità va ricandidato. D’altra parte, però, Chiamparino è ancora più popolare di lei, e soprattutto – essendo in scadenza e non riconfermabile tra un anno – ha l’esigenza di piazzarsi su una nuova poltrona per i prossimi anni, dato che è rimasto fuori dai giochi per la segreteria del PD (ma non l’ha mica presa male: ha solo fatto sapere a tutto il mondo che lui alle primarie avrebbe votato scheda bianca), e che a livello nazionale per il centrosinistra butta malissimo.

Da mesi ormai dunque si assiste a una triste pantomima, in cui ad ogni riunione ufficiale il PD riconferma la fiducia nella Bresso, ma poi appena lei si gira partono le manovre dei sostenitori di Chiamparino. Tali manovre si sono infine concentrate sull’UDC, che sta cercando di piazzare i suoi voti al migliore offerente e che, come già l’anno scorso per la Provincia, potrebbe rivelarsi decisivo. Dunque da tempo, a ogni occasione, l’UDC dice che “non accettiamo diktat sui nomi dei candidati” e di fatto, sottobanco, aggiunge “noi facciamo l’accordo con voi ma solo se il candidato è Chiampa”. Per gli stessi motivi, i nanopartiti di sinistra sostengono invece la Bresso, temendo di essere marginalizzati o addirittura cacciati dalla coalizione se sostituiti con un partito più consistente come l’UDC.

Ufficialmente queste posizioni sono dovute al fatto che la Bresso è di origini radicali e anticlericali, mentre Chiamparino è ecumenico; ma non si sa se la posizione dell’UDC sia anche promossa sottobanco dal Chiampa stesso, che ha bisogno di piazzarsi ma non può certo fare la figura di quello che fa le scarpe alla Bresso. Dunque il sindaco ha dovuto dare il suo assenso alla decisione ufficiale del suo partito, ossia “il candidato del PD è Bresso”, per poi magari sperare di rientrare nei giochi con la scusa di “Ma se io sono l’unico che può fare l’accordo che ci farà vincere, a malincuore mi metto a disposizione del partito. Non son mica io che lo voglio, sono gli altri che ce lo impongono!”.

La Bresso, che non è fessa, ha cercato di giocare d’anticipo incassando l’investitura dal partito e poi mettendola subito in piazza, ovvero partendo con una campagna di cartelloni con la sua faccia e la scritta “presidente candidata” per rendere mediaticamente impossibile il cambio del candidato.

L’UDC (cioè Chiamparino) ha reagito scompostamente dicendo qualcosa che assomiglia molto a “vaffanculo; ha risposto il PDCI (cioè Bresso) dicendo qualcosa che assomiglia molto a “chi cazzo credete di essere, vaffanculo voi”. Evidentemente però l’offensiva del Chiampa, passando per le segreterie romane, è significativa, perché oggi la Bresso esce addirittura con l’idea di candidarsi comunque con una sua lista, in polemica col partito, se non venisse ricandidata: l’opzione bomba atomica o anche “muoia Mercedes con tutti i Filistei”. Infatti ciò, in una elezione a turno singolo come le regionali, avrebbe l’esito di far certamente perdere il centrosinistra, ma a fronte delle profonde ragioni ideologiche del dissidio tra Bresso e Chiamparino ne può valere la pena… anche se onestamente tali ragioni sul momento mi sfuggono. Ma non è certo questione di poltrone!

P.S. Naturalmente l’esito di questa serie di legnate per la poltrona determinerà altre scelte a cascata, tra cui quella del prossimo sindaco di Torino, probabilmente offerto a Vietti in cambio del sostegno al Chiampa in Regione. Siete avvisati!

[tags]politica, elezioni regionali, piemonte, bresso, chiamparino, pd, centrosinistra[/tags]

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giovedì 5 Novembre 2009, 11:16

Non

Sarà capitato anche a voi, se come me siete trentenni o giù di lì, di andare a cena con gli amici di una vita. Noi siamo andati alla Trattoria Moderna di Banchette, che è in realtà un posto nuovo ed elegante dove la cucina è elaborata ma anche ottima. Abbiamo mangiato e abbiamo bevuto tutto ciò di cui ci veniva voglia – primo, secondo, formaggio e dolce, una magnum di ottimo Barolo a soli 35 euro e pure la bottiglia di passito per il finale – e abbiamo chiacchierato di ogni cosa: viaggi di qui e di là, amici e conoscenti di mezzo mondo, macchine fotografiche digitali, settimane di surf in Egitto, storie di Richi wasabi, vecchi episodi universitari, difficoltà del digitale terrestre. L’importante però non è quello di cui abbiamo parlato, ma quello di cui non abbiamo parlato.

O magari ci si arrivava col discorso, e se ne parlava anche, per pochi, rabbiosi minuti, ma per poi girare da un’altra parte e ritornare verso il surf e le macchine fotografiche; come girando per una bella città (ma finta) per poi trovarsi immancabilmente davanti al bassofondo, e svoltare subito da un’altra parte per allontanarsene, e però ritrovarcisi ancora nonostante tutti gli sforzi.

Dunque ecco di cosa non abbiamo parlato: non abbiamo parlato di quanto faccia schifo l’Italia, né di quanto ci vergogniamo ogni volta che mettiamo piede all’estero e ci troviamo in un paese civile. Non abbiamo parlato del fatto che, nonostante fossimo tutti tra i migliori laureati della più selettiva facoltà di Torino, ci troviamo qui a non sapere bene cosa fare delle nostre vite professionali, mentre gli ultimi deficienti figli di papà finiscono di distruggere la nostra economia per tremila euro al mese o vanno direttamente in televisione a fare i buffoni. Non abbiamo parlato di quanto ci sarebbe convenuto imbucarci al caldo di una scrivania qualunque, invece di cercare di costruire aziende e posti di lavoro, per essere poi inseguiti dalle pretese e dai disservizi del nostro Stato. Non abbiamo parlato delle nostre storie personali complicate da tutto, del nervosismo che ti fa litigare per un niente e dell’impossibilità di progettarsi un futuro stabile e credibile.

E soprattutto, non abbiamo parlato del nostro convivere con la sensazione di un prossimo giorno del giudizio, indefinito ma incombente, che prima o poi verrà come un’alluvione e come un’alluvione ci porterà via; e si porterà via tutto, la civiltà e l’inciviltà, il surf e le macchine fotografiche digitali, Berlusconi e le sue puttane, Marrazzo e i suoi trans, il crocefisso imposto nelle scuole tra gli applausi del maggior partito teoricamente laico di questo Paese, l’ignoranza che avanza e la razionalità che arretra, la parte di noi che è moderna e disgustata e anche quella che è italiana e lascia regolamente l’auto e la vita parcheggiate in doppia fila.

Si dice che non si fanno più aziende, non si fanno più invenzioni, non si fanno più famiglie e non si fanno più figli perché c’è la crisi economica, ma questo è inesatto: da che mondo e mondo, anche nelle condizioni di estrema povertà, le invenzioni ed i figli sono venuti fuori. Il motivo per cui non si fa più niente è che non si crede più che possa esistere un futuro, o che, se verrà, sarà migliore o almeno non troppo peggio del presente.

Io sono un pazzo e soffio contro i mulini a vento, sputo incontro alla tempesta e preparo l’arpione per una balena che forse non ci sarà mai, nel cammino solitario che conduce a cambiare il mondo, o più probabilmente alla follia. Scommetto sul futuro e non mi guardo mai le spalle, sperando che quando lo farò ci troveremo in tanti, a non esserci arresi nella battaglia della vita.

[tags]italia, trentenni, crisi, precariato, lavoro, impresa, generazione boh, famiglia, società, futuro[/tags]

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mercoledì 4 Novembre 2009, 13:11

Licenziati per interposta azienda

Si sta finalmente diffondendo sui media la scandalosa vicenda dei lavoratori dei call center del gruppo Omega, ossia di aziende dai brillanti e moderni nomi di Agile e Phonemedia.

I call center sono una forma moderna di schiavitù, non tanto nel lavoro in sé – che come ogni lavoro può piacere o non piacere – ma nelle forme contrattuali. Sono il tipico luogo dove i giovani italiani vengono imbarcati in modo rigorosamente precario, sottopagati e spremuti il più possibile e poi, quando in teoria dovrebbero essere pronti per una assunzione come previsto anche dalla legge, cacciati per sostituirli con nuovi giovani, in una catena di montaggio dello sfruttamento.

Si tratta di un lavoro massificato per definizione: tot lavoratori fanno tot telefonate, tot telefonate fanno tot incassi per l’azienda. Finito lì. Ci vuole spesso molta professionalità per essere in grado di aiutare qualcuno a distanza via telefono, ma non è questo il punto; ciò che interessa è soltanto il ritmo e il numero delle telefonate svolte, e al massimo – per quelli che “fanno outbound”, cioè rompono le scatole alla gente a casa cercando di vendere qualcosa – la capacità piazzistica di vendere qualcosa a qualunque costo.

La crescita italiana nell’ICT degli scorsi anni non è mai stata basata sulla ricerca o sull’innovazione, ma sui call center (che in Italia sono considerati un servizio ICT, perché per funzionare “usano il compiuter”): per definizione dunque è di basso livello, non crea progresso duraturo ed è funzionale solo all’arricchimento degli sfruttatori. Però, persino in un paese di chiacchiere come il nostro, non si può telefonare all’infinito: dunque arriva la crisi e di conseguenza ci sono meno telefonate, dunque servono meno lavoratori. E cosa si fa?

Beh, le aziende che prima hanno lucrato – a partire da Eutelia, e per chi ha la memoria corta ricordo che qui si parla giustamente male di Eutelia da un lustro abbondante; Eutelia che peraltro aveva acquistato lavoratori da Getronics, che li aveva acquistati da Olivetti, in una catena di commercio umano senza fine – ora scaricano al più presto l’intera baracca, secondo il modello della “bad company”; perché in Italia licenziare è impossibile persino quando sarebbe giusto, ma sbolognare migliaia di lavoratori a una scatola vuota in modo che possa poi fallire e lasciarli in mezzo alla strada è una soluzione assolutamente permessa. Dunque, Omega – azienda di proprietà di fiduciarie di fiduciarie di chissà chi e con chissà quali fondi, con un sito web di una pagina sola – compra Agile promettendo investimenti e rilanci, e poi dopo un mese sparisce e smette di pagare gli stipendi.

E poi, oltre a fotterti, ti prendono anche per il culo: già, perché una azienda dal nome Omega che altro scopo può avere?

[tags]agile, phonemedia, omega, call center, licenziamenti, crisi, precariato, schiavitù[/tags]

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martedì 3 Novembre 2009, 18:18

Disastro a Caselle

Mentre scrivevo ieri da Milano il post sul mio viaggio low cost, ancora non avevo idea di quel che stava succedendo all’aeroporto di Caselle. So però che quando sono sceso dal bus a Bergamo ho trovato i miei bagagli già sul nastro che giravano, e ho pensato: diavolo, mi fosse mai successo una volta in decine e decine di sbarchi a Caselle.

Per chi se l’è perso, da ieri mattina l’aeroporto di Torino è bloccato dallo sciopero a oltranza degli operatori dell’handling – in parole povere, quelli che caricano e scaricano le valigie dagli aerei. A Caselle questo lavoro è svolto da due società, che in regime di (molto teorica) concorrenza si dividono gli appalti delle varie compagnie aeree; una è Aviapartner, belga e leader di mercato; l’altra è Sagat Handling, ossia l’aeroporto stesso, che come certamente saprete (almeno se leggete questo blog) è di proprietà a maggioranza degli enti locali con una consistente minoranza di Benetton, che di fatto ne detta le politiche di gestione.

Lo sciopero deriva dalla decisione di Aviapartner di licenziare 24 lavoratori, a fronte del continuo calo del traffico aereo e del fatto prossimo venturo, non ufficiale ma evidente, che, dopo la recente entrata di Air France in Alitalia, alla prima occasione l’appalto dei francesi verrà riunificato con quello degli italiani e passato dunque da Aviapartner a Sagat Handling. La decisione è stata annunciata ad agosto con decorrenza 2 novembre; da allora nessuno ha trovato una soluzione per ricollocare i lavoratori – anzi, a dire il vero, nessuno ci ha nemmeno provato; hanno tutti messo la testa sotto la sabbia – e così, all’ultimo giorno, è partito lo sciopero selvaggio, che ha coinvolto anche i colleghi dell’altra società (prima tutti, poi una parte); sciopero che continua tuttora.

Lo sciopero è davvero selvaggio: senza nessun preavviso (anche se tutti conoscevano benissimo la situazione) e senza nessun riguardo per i viaggiatori; sono bloccati anche i voli di continuità territoriale per la Sardegna, in teoria garantiti per legge in ogni caso. Gli unici che sono stati fatti partire senza problemi, solo con un paio d’ore di ritardo, sono i miliardari calciatori della Juve, in un vero episodio di lotta di classe a rovescio: gli scioperanti evidentemente non hanno retto al fascino di Del Piero e compagni e sono stati straziati dall’idea che essi dovessero dirigere le proprie Porsche alla volta di Malpensa – una prospettiva disumana che li ha convinti a interrompere lo sciopero solo per loro – ma non si sono fatti problemi a lasciare a terra a tempo indeterminato famiglie con bimbi piccoli, anziani, disabili, malati, persone con gravi esigenze familiari e così via, oltre naturalmente a migliaia e migliaia di lavoratori e turisti di ogni tipo.

Le compagnie aeree si sono arrangiate; qualcuno ha cercato invano di convincerle che, come da eleganti brochure, la Regione Piemonte dispone di un “sistema aeroportuale integrato” che permette di redirigere i voli sul modernissimo aeroporto di Cuneo-Levaldigi, dato che chiunque l’abbia mai visto sa che basterebbe un medio volo per Roma con un centinaio di passeggeri a bordo a mettere in crisi le risorse dello scalo per un paio d’ore. Dunque, tutti a Malpensa: una prospettiva che ormai per i torinesi in cerca d’aereo è diventata la normalità.

Sarebbe facile prendersela con questi lavoratori, ma anche ingeneroso – vorrei vedere voi, con la prospettiva di finire in mezzo a una strada. Tuttavia, anche se sono uno strenuo difensore della libertà di manifestare – in Italia sempre più minacciata – non posso che dire che un modo di fare del genere è inqualificabile, e certo non contribuisce né a migliorare la situazione – dopo due giorni del genere, quanta gente la prossima volta volerà da Malpensa o prenderà l’alta velocità per Roma? – né a costruire simpatia per la causa degli scioperanti; simpatia già indebolita da confronti come quello capitato a me, inconsapevolmente, prendendo il mio bagaglio a Bergamo.

Tuttavia, è tutto il sistema che ha fallito. Il nostro aeroporto è alla frutta, dopo anni di gestione incompetente, sonnolenta, viziata da logiche che non c’entrano nulla con lo sviluppo dell’infrastruttura e del territorio. Siamo in teoria la quarta città d’Italia, ma il nostro aeroporto a settembre è stato solo il quindicesimo per traffico; scali come Bologna, Pisa e Catania fanno quasi il doppio del traffico di Caselle. Chi non gira non è abituato, pensa che sia normale dover andare in un’altra regione per prendere un aereo se non si va a Roma o nelle maggiori capitali europee; e invece ormai le low cost sono ovunque e fanno crescere il traffico internazionale da e per le varie città, sia per turismo che per affari, promuovendo pesantemente l’economia del territorio e risparmiando a chi ci abita ore di trasferimento su e giù per le autostrade italiane.

Ovunque, tranne che a Torino. Solo quest’anno Ryanair ha aperto nuove basi in Italia a Bari, Brindisi, Pescara, Trapani… basi che significano personale di stanza sul posto e una copertura significativa di rotte verso il mondo. A Caselle gli irlandesi ci stanno provando da anni, ma sono i nostri luminosi dirigenti e politici cittadini a non volerli, limitandosi ogni tanto a qualche conferenza stampa e poi millantando la necessità di un “bando di gara” per una base low cost, che però giace in perpetua preparazione da anni. In compenso, in poche settimane sono riusciti a far avere sei milioni di euro di fondi regionali ad Alitalia (guarda caso, di Benetton e simili) per aprire 4-rotte-4 di quelle che si pagano da sole, e neanche tutti i giorni.

E’ chiaro che se le scelte e le capacità sono queste, se lo stile di gestione è all’italiana – nessun investimento per crescere, “fin che la barca va”, l’importante è il posto sicuro e lo stipendio di giada, soddisfiamo innanzi tutto gli amici e gli amici degli amici, eccetera -, il risultato è un progressivo calo di passeggeri, che vuol dire posti di lavoro in meno e opportunità in meno per tutta la città; e così, alla fine, quando proprio non se ne può più fare a meno, i nodi vengono al pettine; e scatta la lotta al coltello per le poche risorse rimaste.

In attesa che almeno il prefetto si svegli e faccia qualcosa, anche solo un po’ di precettazione, c’è da mettersi le mani nei capelli: e la cosa peggiore è l’assenza di prospettive di cambiamento.

[tags]torino, aeroporto, caselle, licenziamenti, aviapartner, sciopero, trasporti, aerei, crisi, sagat[/tags]

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lunedì 2 Novembre 2009, 23:54

Low cost

È vero che siamo riusciti a risparmiare circa cinquanta euro a testa scegliendo di tornare con il volo Girona-Bergamo di Ryanair invece che con un Barcellona-Malpensa di Easyjet o di Lufthansa Italia.

Ma non sono sicuro che il risparmio valga lo sbattimento di viaggiare per ore in vecchi e frusti pullman per passare da aeroporti secondari, scassati e male organizzati…

Oltretutto Ryanair ora ti obbliga a fare il check-in via web (per poi stare lo stesso in coda per consegnare il bagaglio) e ha ridotto il peso consentito a quindici chili per bagaglio imbarcato (ovviamente a pagamento) con una sovrattassa di venti euro per ogni chilo in più: a Girona era una litania di italiani con borse infinite che pietivano lo sconto…

[tags]ryanair, trasporti, low cost, girona, bergamo[/tags]

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domenica 1 Novembre 2009, 23:26

Barri de puta

Stasera si è concluso il Free Culture Forum, anzi non proprio, nel senso che sta andando avanti in queste ore su un wiki il lavoro di stesura della dichiarazione finale; naturalmente tutte le persone di normale approccio alla vita, dopo tre giorni passati a discutere di politica e società per circa 14 ore al giorno, sono già uscite e andate a cena o ripartite per tornare a casa, dunque a scrivere il testo sono rimasti solo quelli che fremono dal desiderio di fare la rivoluzione, stampando parole di fuoco sulle loro tastiere a favore del reddito di cittadinanza e dell’idea che gli artisti debbano essere retribuiti dallo Stato esattamente come i dottori dell’ospedale; confido però che nella fase di discussione online dei prossimi giorni gli entusiasmi ideologici verranno un pelino temperati.

In parte credo che ciò derivi anche dal posto in cui ci troviamo, in pieno Barrio Chino: la parte tradizionalmente più degradata e pericolosa della città. Negli ultimi vent’anni – quelli della rinascita cittadina post-olimpica – la strategia delle autorità per gestirla è stata radicale: in una zona di vicoletti e bassifondi, costituita da palazzi di parecchi piani di metà e fine Ottocento separati solo da un paio di metri scarsi di stradina, sono stati abbattuti interi isolati per trasformarli in enormi piazze, o per sostituirli con un viale o con enormi edifici moderni, che vanno da un parcheggio rotondo foderato d’acciaio al grande complesso del museo d’arte contemporanea.

Il risultato è straniante: un San Salvario all’ennesima potenza, dove ristoranti nuovi ed elegantissimi convivono fianco a fianco con vecchi portoni graffitati e occupati da call center per immigrati, e dove le finestre degli antichi bassifondi non danno più sul vicoletto e sul palazzo di fronte, ma su larghe strade e poi su nuovi edifici di vetro e muratura perfettamente à la page.

Peccato che il collegamento tra il nostro albergo – una residenza universitaria pessimamente gestita – e l’ex negozio di alimentari dove ha sede l’organizzazione, in cui ci troviamo per pasti e riunioni, sia dato dal Carrer d’En Robador, la via del ladro, occupata giorno e notte da una densità abnorme di puttane, con il relativo magnaccia che le osserva appoggiato al muro a qualche metro di distanza. Tra ieri e oggi l’abbiamo percorsa tutta, avanti e indietro, parecchie volte: la prima parte ancora vicoletto buio pieno di piscio, la seconda più larga, moderna e pavimentata di fresco. Questa seconda parte è rimasta accanto a una gigantesca devastazione comunale in futura ricostruzione, per ora costituita solo da un solitario condominio, al cui piano terreno si trova un finto fried chicken che nonostante gli sforzi proprio non riesce a sembrare americano. Bene, ogni volta i nostri tre minuti di passeggiata sono stati uno spettacolo di donne urlanti, borsette che volavano e clienti riluttanti aggrediti al grido di “¡maricón de mierda!”. Ma non preoccupatevi, basta tirare dritto per la propria strada, salvo quando è occupata da persona che corre in direzione opposta senza guardare dove va – in tal caso meglio scansarsi.

[tags]barcellona, free culture forum, barrio chino, degrado, prostituzione[/tags]

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sabato 31 Ottobre 2009, 21:02

Discorsi sulla cultura libera

Il mio lavoro di oggi al Free Culture Forum è stato quello di rapporteur del sottogruppo numero 2 del gruppo di lavoro sulle “logiche organizzative e politiche della cultura libera”. Il gruppo di lavoro comprendeva oltre a me una quindicina di altri invitati di vario tipo e provenienza, come Jamie King, David Bollier, Hilary Wainwright, Marco Berlinguer e tanti altri; a un certo punto ci siamo divisi in sottogruppi e a me e Hilary è toccata la riflessione sulla seguente domanda: “ma esiste veramente un movimento per la cultura libera”? Ossia: c’è un insieme di forze sociali coordinate che promuove l’adozione del software libero, dei Creative Commons, di altre risorse libere e condivise a livello mondiale – oppure ci sono solo tante attività diverse e indipendenti?

Questo è il testo del rapporto che ho scritto, riassumendo la nostra discussione di un’ora: vediamo se vi interessa.

The second sub-working group was tasked with discussing the question: “is there really a Free Culture Movement?â€.

First of all it was noted that the answer to this question also depends on what you mean by the term “movementâ€. To this purpose, the approach that we followed was to examine a number of specific cases and to try and find commonalities among them, to determine whether there could be any universal features that could be used to define a single “movementâ€.

In the end, it became pretty clear that while all participants to the supposed “movement†adopt similar practices in terms of ways to license and distribute content, not all of them do it with the same purpose and for the same reasons. Roughly, two big groups can be identified: people and environments that see the free culture distribution models as a tool, even for professional and business activities, and adopt them in a utilitarian manner – because they work better than others – without questioning the structure of society and without adopting a political agenda, and people and environments that see the free culture distribution models as an end in themselves, and as a way to promote a political agenda and foster a change in society and economy.

This difference can be also traced back to historical reasons, considering for example the cultural differences between the U.S. hacker culture where free software was born, and the European and Southern social centres where free software was embraced and promoted inside a set of broader political actions.

There was some discussion on whether free culture distribution models embody certain values in themselves, so that even the utilitarian adopters might be unwillingly helping to promote the political agenda of the ideological adopters, and on whether an economic co-existence of free culture models and traditional intellectual property-based models is sustainable in the long term, making the utilitarian approach sustainable in the long term as well. While there certainly are values embedded in the models, it is also likely that if the political agenda of the ideological adopters were to be pushed too far, the utilitarian adopters would disassociate themselves from the “movement†– this was evident in recollection of the distance existing between, for example, Creative Commons and the peer-to-peer file sharing movement.

In the end, we made an attempt to identify some commonalities among the several cases of adoption of free culture models that we examined, and among their adopters:

  • they see value in the act of sharing, though the type of value (political, social, economical or all of these) varies case by case;

  • they draw on the horizontal, networked, distributed organization typical of the Internet model, and on the lack of hierarchies and centralized validation and authorization processes;

  • they struggle for acceptance of the new distribution models in their own environments, though acceptance by whom and for which reasons varies case by case;

  • they tend to become self-aware as a reaction to the threats by established players who want to resist such acceptance, though again the type and motivations of these players varies case by case.

Rather than a “movementâ€, free culture looks like a big square which people are entering and leaving in different directions. The fact that we meet in the square and share a part of our path together may give the illusion that we all move in the same way, but it is not enough to define all of us as being part of a single “free culture movementâ€.

[tags]free culture forum, cultura libera, software libero, politica, società, innovazione, movimenti[/tags]

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