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mercoledì 21 Ottobre 2009, 14:17

Crisi e formaggio

Il formaggio è un cibo che necessita di cura, amore e investimento a medio termine: invece di consumare il latte normalmente, bisogna prenderne una grande quantità e lavorarla fino a farla diventare un piccolo grumo quasi solido, che poi va messo a riposare per mesi, talvolta anni, prima di essere consumato. Per quanto il latte ormai costi meno dell’acqua in bottiglia, la produzione di formaggio – tanto più quanto più il formaggio è duro e invecchiato – è dunque una delle meno remunerative in funzione del tempo impiegato, e in ottica industriale è una di quelle che richiedono un bel po’ di capitale circolante.

Ora è arrivata la crisi, e anche nella vita quotidiana lo si vede da tanti segnali: per esempio il fatto che sul banco macelleria dell’LD siano comparsi i “nervetti di bovino cotti Montana”, ossia non solo si siano ricominciati a vendere pezzi di bestia che ormai sopravvivevano più soltanto nei piatti storici o nel trito per cani, ma che addirittura li si sia “brandizzati” con un marchio di fama, i cui marchettari un tempo si sarebbero ben guardati dall’arrischiare una associazione con un taglio di scarto.

E così, anche il formaggio mostra segni di crisi. Infatti si è costretti ad abbassare il prezzo, e per abbassare il prezzo che si fa? Tagliare su costo e quantità del latte è difficile, visto che il prezzo è già minimo e che “gonfiare” il formaggio non è facile (per quanto si vociferasse di caseifici che buttavano nel calderone della mozzarella un po’ di plastica fusa, tanto se non è troppa non si sente); dunque si taglia sul capitale circolante, ovvero sull’invecchiamento. Invecchiare il formaggio infatti vuol dire spendere in cemento per avere lo spazio per tenerlo, ma soprattutto vuol dire ritardare l’incasso, dato che la spesa per latte e personale effettuata oggi produrrà una vendita tra sei o dodici mesi.

E dunque, ecco il profluvio di formaggi freschi freschi, che paiono appena coagulati, dal colore pallido pallido e – come riportano le confezioni cercando di vendertelo come un plus – dal “gusto delicato” (traduzione: non sa di niente). I banchi dei discount sono pieni di formaggi che guardati in faccia si vergognano da soli; di imitazioni misteriose (oggi all’LD c’era “lo svizzero”, impacchettato in modo da sembrare Emmental ma chissà cos’era) e sottoversioni sprotette (sempre per l’Emmental, va forte l’“Emmental bavarese”); ogni tanto arrischio un acquisto, ma me ne pento sempre regolarmente.

Più preoccupante è però il fatto che la stessa tendenza sia seguita anche da chi il formaggio lo fa sul serio: la stessa formaggeria cooperativa della Val d’Ayas ha smesso da un paio d’anni di fare la fontina stagionata, vendendo soltanto più le forme invecchiate al minimo di legge o quasi; formaggio che ovviamente è sempre di un altro pianeta rispetto a quello della grande distribuzione, ma che ha un gusto timido e dolce, adatto forse ai cerbiatti ma non certo ai rudi montanari. D’altra parte, perché tenere la fontina a invecchiare per mesi in più, quando la differenza finale sul prezzo è del 10% al massimo, e quando comunque i turisti milanesi si ingoiano con convinzione qualsiasi cosa purché ci sia il marchietto sopra?

E così, per trovare la fontina termonucleare – quella tenuta lì per anni, di colore tra il marrone scuro e il rosso acceso, con un etto della quale sarebbe possibile alimentare per un anno la centrale di Trino – bisogna battere le fiere e le cascine… oppure andare a Cheese, l’altra faccia del pianeta formaggio: roba buonissima per gente che può pagare 16 euro una forma da pochi etti di pecorino di Pinzani.

Chissà: temo che questa sia l’inevitabile conseguenza di un mondo che considera il cibo soltanto più una merce come tutte le altre, dimenticando il patrimonio di cultura, storia, emozione e piacere che il cibo dovrebbe portare con sé, per rendere le nostre vite un po’ più ricche. Speriamo che si riesca ad invertire la corrente.

[tags]formaggio, latte, discount, industria alimentare, crisi[/tags]

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martedì 20 Ottobre 2009, 21:40

S’inkazza

Stasera sono incazzato, ma tanto.

Mi sono incazzato per tutto il pomeriggio e poi sono rimasto incazzato per tutto il viaggio in treno verso Milano, di una di quelle incazzature pervasive e profonde che attraversano mente e corpo per delle ore. Ero talmente incazzato che sul treno del passante ho messo su un po’ degli ultimi dischi dell’esimio M° F. Battiato, e le aquile non volano a stormi e tutto quanto; nonostante l’aura illuminata e metafisica della musica ciò non è servito a niente e anzi a un certo punto mi son rotto, ho stoppato e ho messo su El Diablo dei Litfiba, e sono uscito dalla stazione di Dateo sotto la pioggia senza manco sentirla, senza tirar fuori l’ombrello, attraversando la notte a passo di carica sul ritmo di Pro-pro-proibito e sui memorabili assoli di Ghigo Renzulli. Probabilmente mi fumavano tanto le orecchie che la pioggia vaporizzava prima di toccare la mia testa!

Ma in questi casi, cosa si fa per farsi passare l’incazzatura?

[tags]incazzatura, treno, battiato, litfiba, pioggia[/tags]

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martedì 20 Ottobre 2009, 11:16

Tagliarsi da soli

Che l’Università sia luogo di sprechi, favoritismi, raccomandazioni e imboscamenti è noto a tutti; che negli ultimi vent’anni, grazie a una pioggia di fondi pubblici nazionali e locali, siano fioriti ovunque corsi di laurea bizzarri e atenei improbabili, creati soprattutto per dare lustro ai politici locali e per moltiplicare cattedre e stipendi, è altrettanto chiaro. Ben vengano dunque una razionalizzazione e un sano taglio a spese insostenibili e soprattutto inutili.

Questo, tuttavia, non può giustificare il fare di ogni erba un fascio; per questo lascia davvero perplessi l’idea (forse rientrata, non si sa per quanto) del Politecnico di Torino di chiudere tutte le sue sedi decentrate, comprese le due – ormai storiche e molto frequentate – di Mondovì e Vercelli. Ammetto di esserci affezionato – quando a metà anni Novanta ero rappresentante degli studenti nel Consiglio d’Amministrazione del Poli erano aperte da poco, e noi di Torino facevamo la spola per far nascere anche lì un po’ di animazione studentesca – ma davvero non riesco a capire i motivi razionali di una scelta del genere.

Intanto, non si capisce come mai i tagli più pesanti tocchino a una delle migliori università italiane, una di quelle che risultano tra le prime in tutte le classifiche nazionali e che ancora possiedono un po’ di prestigio internazionale. Poi, non si capisce bene il senso di un taglio che porterà con sé inevitabilmente anche un taglio degli studenti – dubito che quelli di Novara o di Savona verranno fino a Torino, più facile che vadano a Milano e Genova – e dunque delle entrate; anche perché chiudere le sedi vuol dire forse risparmiare qualche affitto (spesso peraltro pagato dagli enti locali) e un po’ di docenti a contratto, ma certo non permette di licenziare il personale regolarmente assunto. Insomma, anche in termini strettamente “aziendali” è una scelta strategica e finanziaria che equivale più che altro a un taglio dei propri attributi.

Queste scelte accademiche risultano solitamente da lotte di potere e accordi sottobanco tra le baronie interne; in questo caso non sono addentro e non so quale sia la posta in gioco, anche se alcuni giornali hanno scritto che l’obiettivo del rettore Profumo è “tagliare i costi della didattica per poter investire sulla ricerca”, che temo nella realtà rappresenti il desiderio di smettere di avere sul groppone quei rompiscatole di studenti e quelle noiose ore di lavoro fisso derivanti dall’insegnamento, e di potersi invece fare i fatti propri in ufficio, possibilmente con più soldi per farsi finanziare viaggi all’estero per convegni e qualche portatile nuovo. (Non tutti i docenti sono così, specie al Poli ce ne sono molti che danno l’anima per il proprio lavoro compresa la didattica, ma se voi foste un insigne accademico preferireste sperimentare nuove teorie che vi diano la fama o insegnare per l’ennesima volta le nozioni di base a un manipolo di ventenni, magari rumorosi e svogliati?)

Tuttavia, il vero problema dell’Università è un altro: come nella scuola, è l’ennesimo patto al ribasso di questa Italia. Qui il patto è: ti do pochi soldi (gli stanziamenti italiani per l’Università sono generalmente la metà che nel resto d’Europa) ma puoi farne quel che vuoi, nessuno ti verrà a rompere le scatole se assumi tuo figlio o se il tuo ultimo lavoro scientifico risale al secolo scorso. Il risultato è il profluvio di scandali e sprechi dei nostri atenei, che a sua volta giustifica agli occhi dell’opinione pubblica ulteriori tagli, che finiscono per ridurre ancora lo spazio per fare istruzione e ricerca di alto livello, il che fa scappare all’estero le persone capaci e lascia gli atenei nelle mani di mediocri e raccomandati, che causano altri scandali e sprechi e così via, in una spirale di degrado senza fine.

E’ lì che bisogna intervenire: aumentando i fondi in modo che l’Università non torni ad essere un privilegio per pochi, ma nel contempo introducendo una meritocrazia feroce e un controllo spietato su come questi fondi vengono usati.

[tags]università, politecnico, torino, tagli, gelmini, mondovì, vercelli[/tags]

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domenica 18 Ottobre 2009, 19:05

Potere tamarro

Quando avevo vent’anni e andavo ai miei primi raduni internettari – quelli di appassionati dei cartoni animati – veniva anche un tizio di Arezzo, il quale una volta stese l’amico che mi accompagnava (che non era del giro, e che si preoccupava del ritorno serale post-cena da Lucca a Torino) dicendo “puoi venire dietro ammè, ma occhio che c’ho la macchina truccata, dopo tre minuti vedi solo i miei gas di scarico”.

La tamarraggine che impera in Italia non poteva dunque che sposarsi bene con il genere tamarro per definizione: l’hip hop. E badate bene che, sebbene io sia abbastanza vecchio da appartenere ancora all’ultima generazione cresciuta col rock, non ho nulla da dire a chi fa musica di quel genere: internazionalmente l’hip hop è una forma d’arte più che degna di nota, che racchiude certamente in sé più creatività e “cose da dire” delle stanche e infinite riproposizioni del rock anni ’80 o ’70 che circolano periodicamente (e in proposito ricordo l’immortale episodio di Mike Patton, talento infinito, che a metà intervista sente che sul palco i Wolfmother attaccano Woman e dà fuori di testa). E infatti, il meglio della musica italiana dell’ultimo decennio è quasi certamente Caparezza.

Dunque l’hip hop per me va benissimo; è certa imitazione all’italiana che, purtroppo… ecco, ieri su Radio Flash mi hanno passato a tradimento una lunga intervista più singolo con tali Club Dogo, e da allora credo che il mio concetto di “tamarro” abbia raggiunto nuovi livelli. Per spiegarmi, intanto allego il video:

e poi elenco le caratteristiche portanti di questo gruppo:
1) tenere rigorosamente le mutande fuori dai pantaloni;
2) scrivere un testo senza alcun filo logico e con errori di ortografia da quinta elementare (tipo “io sò”);
3) metterci sopra immagini tamarre e pure qualche frase in inglese altrettanto zoppicante;
4) fare i fighi parlando a caso di roba firmata di qualsiasi genere (e comunque ribadisco che l’“husqvarna” è un tosaerba);
5) vantarsi di dominare le donne e di entrare “a scrocco nel prive'” (rigorosamente, come appare nel video, scritto con vocale più apostrofo);
6) pensare che sia fico avere un titolo del disco scritto in cirillico, e però il cirillico per loro è ribaltare le lettere orizzontalmente e aggiungere delle umlaut (le famose umlaut del russo);
e così via.

Come per i presidenti del Consiglio, anche per ciò che riguarda i riferimenti culturali ognuno ha il diritto di scegliersi i propri e di sostenerli con orgoglio; del resto Wikipedia ha sdoganato il concetto che qualsiasi ignorante ben determinato può autonomamente assegnare a qualsiasi cosa gli stia a cuore un valore culturale assoluto (vedasi appunto la voce “crew”, il cui testo farebbe fatica ad essere passabile come tema di terza media). Ma non è un male, dato che è proprio grazie a Wikipedia che Grande Capo Estiqaatsi segnala che “Il gruppo collabora con artisti del calibro di Solo Zippo, Chief, Dj Enzo, Dj Skizo e Dj Zak”: Estiqaatsi
pensa che sono tutti artisti estremamente importanti per la storia della musica italiana.

Infatti, la cosa che io trovo deprimente non è solo il fatto che venga presentata come dominante una cultura di bullismo, gang, italiano zoppicante e obiettivi di vita circoscritti tra televisione e discoteca e foraggiati coi soldi; ma anche il fatto che ciò venga messo in atto in maniera calcolata, per puri fini commerciali, sapendo che coi ragazzini la provocazione paga alla cassa. Dunque, meglio chiuderla qui; sperando prima o poi di vivere in un Paese dove si smetta di pensare che qualsiasi cosa può essere cultura, e dove gli “artisti” si preoccupino di invitare i propri fan a studiare e farsi furbi.

[tags]musica, tamarri, hip hop, club dogo, estiqaatsi, cultura[/tags]

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sabato 17 Ottobre 2009, 11:15

Stormi d’uccelli neri

Ieri sera, dal balcone di casa mia.

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[tags]uccelli, migrazione, inverno, panorama, torino, carducci[/tags]

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venerdì 16 Ottobre 2009, 09:10

La strage dei fatti

Di questi tempi, l’Italia è spesso sulle prime pagine dei giornali internazionali – raramente in senso positivo. Quella di ieri, comunque, è una notizia davvero clamorosa: secondo il Times (non proprio l’ultimo dei giornaletti), la strage afgana di Sarobi – in cui dieci soldati francesi furono massacrati – sarebbe stata causata indirettamente dalle furberie degli italiani. Infatti, secondo il Times, gli italiani – a cui inizialmente era assegnato il controllo dell’area – avrebbero mantenuto la pace grazie a un accordo sottobanco: i nostri servizi segreti avrebbero pagato decine di migliaia di euro ai locali capi tribali perché essi non scatenassero attacchi o violenze oltre l’ordinario. Quando per un normale avvicendamento l’area passò ai francesi, ignari di tutto, il flusso di denaro cessò: e come prevedibile il risultato fu un’improvvisa ondata di violenza, scatenata dai locali per convincere i nuovi arrivati a proseguire le “buone pratiche” degli italiani.

Nella nostra mentalità, ci sarà pure qualcuno che dirà “e beh? i nostri son stati bravi ad arrangiarsi”; del resto, questo è il periodo in cui compaiono indizi di un probabile accordo tra lo Stato italiano e la mafia per porre termine all’ondata di stragi dei primi anni ’90, accordo per via del quale sarebbe stato eliminato Paolo Borsellino, che avrebbe rischiato di mandare a monte la cosa. Se siamo scesi a patti con la mafia, cosa volete che sia un accordino con quattro integralisti barbuti? Peccato che all’estero non la pensino così; che una cosa del genere, per uno Stato facente parte di una alleanza militare in un paese straniero e di fatto belligerante, sia molto vicina all’alto tradimento.

Potevano i nostri media non parlare della cosa? Ignorarla del tutto proprio non potevano. E allora come hanno reagito? Ieri sera ho visto per caso il TG2: ha mandato un servizio che parlava brevemente della cosa, riferendo poi soprattutto delle veementi smentite del governo. E poi, ha mandato subito dopo un altro servizio, che cominciava più o meno con “I giornali inglesi sono normalmente considerati un esempio di autorevolezza, ma in realtà sono molti i casi in cui hanno preso clamorose bufale”: e via con tre minuti tre di racconto di tutte le volte in cui il Times e la BBC hanno preso cantonate, peraltro citando per prima l’intervista a David Kelly seguita dal suo “suicidio”, cioè un caso che probabilmente era tutt’altro che una cantonata, anzi forse era un caso di giornalismo investigativo giunto troppo vicino alla verità. Un servizio che d’altri tempi si sarebbe visto forse su un libello di partito, certamente non in un telegiornale pubblico.

Insomma, ormai i nostri media sono oltre il limite della decenza, pronti a dar contro a chiunque a comando e a rendersi ridicoli all’estero pur di soddisfare i padroni locali. Ed è vero che ormai, tra l’Italia che guarda la televisione e quella che usa Internet, lo spazio per dialogare si fa sempre più ristretto: perché non è soltanto più l’interpretazione della realtà a essere diversa, ma lo è la realtà stessa, fabbricata differentemente e dunque destinata a non fornire più alcun punto di incontro tra le parti.

[tags]afghanistan, sarobi, italia, francia, corruzione, mafia, giornalismo, informazione, david kelly, tg2, times, bbc, incomunicabilità[/tags]

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giovedì 15 Ottobre 2009, 11:59

Abba vive

Stamattina, a Vercelli, è salito sul treno un signore anziano e distinto, sui settant’anni, in giacca e cravatta. Si è distintamente accomodato sulla poltrona davanti a me e ha distintamente estratto una copia de Il Giornale (ormai sui treni Torino-Milano è almeno altrettanto letto di Repubblica).

Io ero lì che ascoltavo i classici degli anni ’90 (tipo, Your Woman di White Town) e non ho potuto fare a meno di ridacchiare amaramente leggendo l’inizio dell’editoriale di Feltri, che sotto il titoletto “Il clima d’odio” sparava a tutta pagina “VOGLIONO UCCIDERE BERLUSCONI” e iniziava parlando di “questa Italia in cui i fanatici e i buzzurri hanno avuto il sopravvento sui cittadini impegnati a produrre e a superare la crisi” (cacchio, sembrano proprio i miei post). Feltri che si lamenta del clima d’odio è un po’ come la Juve che si lamenta degli errori arbitrali, dunque sono passato appropriatamente all’ascolto di Shpalman, e la cosa sarebbe potuta finire lì.

Tuttavia, due minuti dopo è arrivato il controllore, e il signore anziano ha distintamente estratto un biglietto non obliterato. Il controllore non ha detto una parola, nemmeno “non si fa”: ha preso una penna, ha scritto la data sul biglietto e gliel’ha restituito come se fosse la cosa più normale del mondo.

E avendo visto sì torme di controllori ignorare bellamente i gruppi di neri sul treno senza biglietto, ma anche torme di controllori aggrapparsi a qualsiasi stupidaggine se si trovano in maggioranza numerica davanti a una persona in fallo non italiana, ho pensato che in quel momento – su di treno diurno, pieno di italiani, in cui il personale non avrebbe subito alcun pericolo di ritorsioni – se il controllore avesse avuto davanti un immigrato sarebbe finita molto diversamente.

In realtà, quel signore mi sembrava un anziano fragile, di quelli che cercano in Vittorio Feltri le certezze di un tempo che fu, quando i treni arrivavano in orario e non li si doveva condividere con tutte le puttane della Nigeria.

Ma magari era solo uno stronzo.

[tags]vercelli, giornale, feltri, berlusconi, shpalman, treni, controllori, biglietti, razzismo, immigrazione[/tags]

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giovedì 15 Ottobre 2009, 11:50

Abba stanza

Cari centrosocialisti milanesi, ho capito che “Abba vive” e “Fornace resiste”, ma dovete proprio scriverlo su ogni centimetro quadrato dei finestrini del mio treno?

[tags]milano, treni, passante, razzismo, vandalismo, abba, fornace, rispetto per il bene pubblico[/tags]

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mercoledì 14 Ottobre 2009, 17:51

Città di un certo livello

Quelle in cui chiedete alle segretarie di far portare dal bar sotto l’ufficio “un panino qualsiasi”, uno semplice semplice, e il suddetto panino qualsiasi è “bresaola e caprino”.

[tags]milano, panini, livello, bresaola[/tags]

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martedì 13 Ottobre 2009, 21:29

Transforma urbana

“PIOLTELLO Ferma in tutte le stazioni vietato fumare” dice la scritta luminosa, e lo ridice. Lo ripete avanti e avanti all’infinito, e non è possibile ignorarlo; da qualsiasi posizione è un gioco perverso di riflessi, forse pianificato da un geometra ferroviario che sapeva di non essere destinato a subire la sua tortura di un’ora, su un treno serale, a farsi sparare un “PIOLTELLO Ferma in tutte le stazioni vietato fumare” rosso e luminoso negli occhi.

Questi treni sono progettati per urtare; nel mio i freni fanno un rumore come fossero mille unghie di Satana sulla lavagna dopo un compito in classe di latino particolarmente difficile, e le porte ti avvertono di ogni fermata cominciando ad emettere un forte ronzio almeno due minuti prima. Saranno sponsorizzati dalla Fiat; infatti sono l’unico italiano, tra un gruppetto di cinesi d’Occidente e un africano alto nella sua eleganza.

Uscire dal passante e trovarsi all’aria aperta è un trasporto immediato; già salendo le scale a riveder le stelle, la S verde di Dateo sembra una cometa, piantata dal basso in alto dentro alla galassia. Il cielo è visibile, cosa insolita per Milano; dev’essere dovuta al vento, che stasera respira maestoso e si porta via le foglie e le luci delle macchine.

Decido allora per la trasformazione; uso gli U2, musica urbana, per accompagnare la passeggiata nella notte. La città col sonoro muto è un altro pianeta; si può far finta che le automobili non stiano litigando per le briciole di un giallo, che il furgone non stia bloccando lo scivolo del marciapiede e che dai ristoranti esca sì profumo di risotto, ma non accompagnato dalla sigla del TG1. La notte copre e ricopre e stilizza la città, lasciando l’ammasso nel buio e facendone emergere soltanto le linee, una palizzata di insegne, una scacchiera di finestre. Un altro video e un altro audio, e Milano è sospesa; sradicata la lingua, da forma a transforma, da vero a possibile, da noto ad alieno.

[tags]milano, pioltello, città, musica, trasformazione, treni, luci, visioni[/tags]

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