Altri posti nel mondo
Ieri sera, prima di uscire per andare al concerto, ero tranquillo sul divano, col portatile, a leggermi la posta; quando mi si è aperta la finestra di Gaim, e un contatto sconosciuto mi ha detto “Ciao, come stai?”.
Ora, non si trattava di una eventualità strana; in realtà , in queste ultime settimane, mi succede anche più di una volta al giorno di venire contattato su ICQ da gentili donzelle di varie parti del mondo – tipicamente, Russia, altri paesi ex sovietici, Turchia o Serbia – attratte dal mio status di maschio italiano trentenne single. Non tutte hanno lo stesso approccio; ci sono quelle che entro il terzo scambio di battute chiedono “Marital status?”, e sono interessate soltanto a trovare un matrimonio con una persona qualsiasi purchè comprenda un visto per l’Unione Europea; altre sono semplicemente interessate a conoscersi, e poi si vedrà . (Su queste ultime faccio regolarmente colpo, visto che la chat aiuta a vincere la timidezza e mette in mostra soprattutto le qualità intellettuali; peccato che siano tutte così lontane…)
Comunque, ho controllato senza grande convinzione il profilo, e sono sobbalzato: difatti la provenienza non era la solita Mosca, ma Tuzla, in Bosnia-Erzegovina.
La Bosnia, si sa, è la cattiva coscienza delle nostre Fallaci furiose. Un’estate fa, in Lussemburgo per un meeting di ICANN, ci fecero mettere sull’attenti a mezzogiorno, due volte (una in ora locale, una in ora britannica), per onorare i cinquantasei morti della metropolitana di Londra; e per quanto l’onore fosse dovuto e sentito, a nessuno tranne a me venne in mente che era anche esattamente il decimo anniversario del massacro di Srebrenica, in cui i morti (musulmani, uccisi dai cristiani serbi sotto l’indifferenza della NATO e gli sguardi impotenti dei militari olandesi) furono oltre ottomila. (Questo è giusto per darvi un’idea.)
Tuzla, invece, è ricordata per il relativo massacro, dove i morti (sempre musulmani bosniaci) furono soltanto 71, quasi tutti ragazzi o giovani di vent’anni. Avere l’opportunità di parlare con una persona di quelle parti non è tanto facile, e così l’ho sfruttata al volo.
Il dialogo è stato inizialmente normale, ma, aiutato dall’italiano ancora imperfetto della mia interlocutrice, è scivolato presto nel surreale. Ad esempio, ho scoperto che lei non abita veramente a Tuzla, ma in un villaggio denominato Crno Blato; che “crno” volesse dire “nero” l’ho capito da solo, ma “blato”? Alla fine ho scoperto che il villaggio si chiama Fango Nero, e, stando alla sua risposta alla mia domanda, “Adesso ha solo quattro persone che vivono.” (adesso, non prima).
Del resto, ad una delle prime domande – “Si vive bene adesso?” – la risposta, folgorante nella sua incomprensione, è stata “Sì sì sono viva”.
Ora, non vorrei sembrare troppo drammatico; la guerra è finita, e anche da quelle parti, faticosamente, l’economia cerca di sollevarsi. La mia corrispondente lavora in una concessionaria Volkswagen (“Molte Volkswagen, non molte Fiat”) e studia italiano grazie ad amici cooperanti. E così, prima di andarmene dopo aver scambiato gli indirizzi di mail, ho chiesto anche cosa fa la gente a Tuzla di lavoro: il dialogo è stato più o meno il seguente.
“Che lavoro fa la gente?”
“Ci sono gente a Tuzla, ma non lavorano”
“Perchè?”
“Perchè industria non lavoro”
“Nessuna?”
“No, ci sono poche lavorano: fabbrica di scarpe, e fabbrica di sale.”
E io, senza offesa per nessuno, mi son chiesto se gli operai della fabbrica di sale bosniaca (a non più di quattrocento chilometri dal Bel Paese) si sarebbero lamentati del posto di direttore di filiale alla Lidl.