Stasera ero solo, erano le otto e mezza, ero fuori – avevo accompagnato Simone nella spesa preparatoria per la cena di domani – e non avevo proprio voglia di mangiare a casa. Così, nel buio appena sceso sul centro commerciale di corso Romania, mi sono infilato in macchina e sono andato a cena in birreria.
Oggi, a Torino, c’era un traffico assassino; non solo per la mezz’ora abbondante di coda in via Reiss Romoli, dovuta a due macchine dei vigili urbani infilatesi dentro una utilitaria che aveva tagliato loro la strada (roba da scena finale di Blues Brothers). Il problema peggiore per il traffico odierno è stata l’insolita abbondanza di guidatori piantati ai quaranta all’ora in mezzo ai corsi; presumo si tratti di gente che di norma non prende mai l’automobile e che a malapena distingue l’acceleratore dal freno. Oggi c’era sciopero degli autobus – ma anche degli edili, dei giornalisti, e dei precari comunali – e quindi sono usciti tutti dalle catacombe.
Tuttavia, il buio semplifica le cose, e rende tutto più immediato e sincero; ivi compresa la circolazione automobilistica, su cui il peso della massa indistinta e inscatolata che esce dal lavoro si allenta d’improvviso, e permette finalmente un po’ di sano movimento.
Il senso della serata, comunque, è il piacere della casa estesa che è la tua città , di quell’insieme limitato di posti che hai visto crescere con te, oppure restare immutato mentre tu crescevi, e che comunque conosci a menadito anche se non ci passi da mesi. Il Manhattan, ad esempio, è una birreria che ha visto passare tutte le stagioni; per ciascun tavolo potrei citare un episodio nell’arco di quindici anni, i festeggiamenti dopo Toro-Real di Coppa Uefa, l’attesa del concerto degli amici, la cena offerta prima del concerto tuo, le uscite con diversi gruppi, quelle con la fidanzata dove siete stati bene, e quelle con la fidanzata dove poi avete litigato.
E quelle da solo, una pizza e una birra, ad ascoltare con piacere del jazz strepitoso venire da una cassetta attraverso gli altoparlanti del locale, un jazz destrutturato eppure pieno di trama, caotico e coerente come la vita. Subito dopo, a tradimento sotto il salamino piccante, pezzi a cui sei legato per motivi diversi, With My Own Two Hands di Ben Harper, Are You Gonna Go My Way di Lenny Kravitz, persino l’eccezionale quanto rimossa Get On The Snake dei Soundgarden primo periodo, quelli che qui a Torino da perfetti sconosciuti vennero spediti sul palco del Delle Alpi, attaccati a un Marshall che sparava sì e no fino alla quinta fila, ad aprire i Faith No More che aprivano i Guns’n’Roses. E’ la giornata della musica che tesse e trama alle tue spalle e ti stabilizza e ti scuote insieme; avrei dovuto capirlo quando stamattina Radio Flash ha mandato Grace di Jeff Buckley.
Il Manhattan, peraltro, è un posto sozzo come non si può immaginare, dotato di musica eccellente che sul tardi diventa anche dal vivo, di un cesso che incoraggia il vomito, e di una cucina tanto semplice quanto eccezionale, con porzioni da rinsaldare l’amicizia. All’ora di cena è quasi vuoto, c’è solo qualche coppia giovane e un paio di famigliole, e sembra una cripta da vampiri, per quanto abbiano appena aperto una espansione in cortile. Come luogo letterario è perfetto, anche quando l’esperienza letteraria è uscire dal mio corpo, spostare la telecamera col joystick e guardarmi solo e pensieroso al tavolo numero tre.
C’è ancora spazio per un gelato dall’altro lato della città : un inseguimento giocoso con un’altra 147 sulle nuove rotonde di via Livorno, le precedenze annurche di piazza Statuto, i centoventi sfiorati ma non raggiunti sui binari del tram in via Borsellino, e la fila di doppie file e quattro frecce davanti alla gelateria in via Monginevro, che da quando il 15 non è più un tram si lascia la macchina anche lì. Al ritorno, la radio spara un po’ di tutto, The baby di Morgan, persino J’aime l’amour a trois di Stereo Total (una chicca). E’ la serata delle luci di città , la serata della loro musica; che ci volete fare.