Chiudo le cronache dell’Internet Governance Forum di Atene con un piccolo resoconto serio di quello che è successo.
La formula dell’IGF, in ambito di Nazioni Unite, è totalmente innovativa: prevede di trattare tutti alla pari e in quanto individui, indipendentemente dal fatto che rappresentino un governo, una azienda, una associazione o semplicemente se stessi. Si è partiti con il grande dubbio che non potesse funzionare, e invece è stato un buon successo: la partecipazione è stata elevata, e la maggior parte dei presenti ha capito lo spirito, dando luogo ad alcune scene piuttosto inconsuete – ad esempio il rappresentante del governo tedesco che arriva a un workshop, non trova posto e si siede per terra.
Certo, ci sono stati governi che hanno insistito per arrivare lì col discorso precotto da leggere a tutti i costi; soprattutto, si ha la sensazione che i rappresentanti di molti governi siano venuti a vedere cosa succedeva, ma senza sbilanciarsi troppo, contribuendo quindi piuttosto poco al dibattito. Il problema è che i governi non possono assumere posizioni ufficiali come faremmo noi, rispondendo agli input in maniera immediata. Trovare un modo che permetta a loro di partecipare senza sbilanciarsi in modo ufficiale – e senza nascondersi dietro a questo problema per rifiutare il dialogo – è una delle prime questioni da affrontare.
I quattro giorni del forum sono volati, organizzati in due filoni paralleli: da una parte sessioni plenarie sui temi principali e sulle questioni generali, e dall’altra una stringa di workshop (tre per volta) per approfondire i singoli temi.
Le sessioni plenarie sono state organizzate come dei panel, con un infinito elenco di relatori (scelti col bilancino per rappresentare tutti) e con possibilità di prendere la parola dalla platea importanti ma limitate, e soprattutto “spettacolarizzate”. In altre parole, i moderatori (degli ottimi giornalisti di testate come Economist e BBC) ricevevano foglietti con nome, qualifica e argomento dell’intervento, e poi sceglievano quelli che gli parevano più in linea.
Il risultato, ad esempio, è stato che il giornalista della BBC che moderava la sessione sulle libertà in rete ha concentrato la discussione, per due ore e mezza delle tre a disposizione, sulle violazioni dei diritti civili in Cina, relegando in dieci minuti tutti i temi relativi alla proprietà intellettuale, e in altri dieci la vicenda del blogger greco arrestato pochi giorni prima del Forum. Ora, è sicuramente interessante insistere sulle responsablità di Cisco e di Google (in realtà era Yahoo!, ma quel che conta è lo spettacolo) e sulla cattiveria dei cinesi, ed è certamente “di rottura” vedere un giornalista battere ancora e ancora su questo tema in un forum delle Nazioni Unite, ma allo stesso tempo nulla mi toglierà la sensazione che la seduta sia stata orientata su un comodo capro espiatorio proprio per evitare di toccare temi come il Patriot Act o i DRM.
Tuttavia, in questa sessione è emersa con chiarezza una delle grandi tensioni del prossimo futuro: dove si colloca il confine giusto tra libertà d’espressione e licenza inaccettabile? Tutti concordano che esistono contenuti che è corretto censurare, dalla pedopornografia agli inni al nazismo, ma come ci si accorda su cosa sia corretto censurare? E se è corretto censurare la pedopornografia, perchè non è corretto censurare le vignette danesi, che per una parte del miliardo di musulmani sono altrettanto rivoltanti?
I workshop sono stati piuttosto interessanti, anche se il primo problema era scegliere quali vedere: io ho visto quello sullo spam (pienissimo), quelli sui diritti umani, pezzi di altri qua e là . In generale, ho trovato eccessivo il tempo allocato alle presentazioni: il workshop medio, di durata prefissata a 90 minuti, era fatto da 85 minuti di presentazioni (spesso sbrodolate e noiose, oppure autocelebrative) dopo le quali si chiedeva, “Chi vuole intervenire in sala?”, si alzavano 25 mani, e c’era tempo per un solo intervento. Per il futuro, dovrebbe essere garantito spazio sufficiente per il dibattito.
Inoltre, molti workshop erano multistakeholder solo in teoria – ad esempio si sono viste parecchie presentazioni, da parte delle associazioni del business e dei governi dei paesi anglosassoni, di quanto sia importante la “partnership pubblico-privata” nello sviluppo dell’ICT nei paesi in via di sviluppo, dove la “partnership pubblico-privata” vuol dire naturalmente che il governo locale deve lasciare mano libera alle multinazionali americane nel fare ciò che vogliono, e magari sussidiarle pure. Forse sarebbe il caso di assicurare la presenza di tutti i punti di vista in tutti i workshop…
Veniamo ora alla partecipazione italiana: degli aspetti personali ho già parlato, per cui mi limiterò a una valutazione oggettiva. Io sono molto soddisfatto di essere riuscito a coinvolgere un po’ di più alcuni circoli nazionali in queste discussioni; allo stesso tempo, trovo significativo il fatto che, di ventiquattro italiani che in tutto o in parte hanno seguito l’IGF, io fossi l’unico che girava per le riunioni con un portatile. (Però c’era anche Arturo con la sua inseparabile videocamera digitale…) Ma il tempo risolverà anche questo, insieme all’annoso problema della scarsa familiarità con l’inglese dell’italiano medio.
E’ molto positivo il fatto che sia venuto da Roma il sottosegretario Magnolfi, e abbia diligentemente seguito e ascoltato i primi due giorni del Forum; siamo anche riusciti a farla intervenire nella prima sessione plenaria (dovrò pagare delle cene per questo…). Il nostro workshop, da me moderato, è stato molto ben seguito: la stanza era piena, e abbiamo fatto secondo me la scelta giusta nell’orientarlo più come una discussione che come una presentazione. I quattro panelist (Rodotà , Cortiana, Robin Gross di IP Justice, e Jose Murilo Junior in rappresentanza del governo brasiliano) hanno lasciato spazio agli interventi già dopo i primi 40 minuti; e abbiamo riscosso molti consensi. Quando io, nella plenaria conclusiva di giovedì mattina, ho ribadito l’idea e le motivazioni invero nobili che ci spingono a portarla avanti, sono arrivati persino degli applausi.
Il termine “Internet Bill of Rights“, insomma, è diventato già di uso comune nell’ambito del Forum, e il nostro annuncio sul lancio di una “coalizione dinamica” che ci lavorerà sopra, così come dell’impegno del governo italiano (che ora va rispettato…) nell’ospitare una conferenza internazionale sul tema in primavera, è stato ben ricevuto. Allo stesso tempo, ho visto anche qualche diffidenza da parte di chi si occupa di diritti della comunicazione da anni, sia per la paura che, di questi tempi, il bilanciamento tra libertà e sicurezza in un nuovo documento si sposti troppo dal lato della sicurezza, sia per la naturale diffidenza nei confronti dei “nuovi arrivati”. Ci sarà molto da lavorare, e non sarà facile.
Dei problemi pratici e organizzativi ho già accennato nei giorni scorsi; nulla che non si possa risolvere. La grande sfida per il futuro, invece, è stata sollevata da molti – me compreso – nell’ultima riunione: come evitiamo che l’IGF sia soltanto un bell’incontro di chiacchiere, e arriviamo a soddisfare anche quelle parti del mandato che prevedono che esso debba proporre soluzioni concrete, per quanto non vincolanti, ai problemi della rete?
La nostra risposta iniziale, come società civile, è stato il lancio delle “coalizioni dinamiche”, termine che indica un gruppo di persone e entità che vogliono lavorare insieme su un determinato tema; oltre alla nostra, ne è nata una sulla privacy, una sugli standard aperti, una sulla “convenzione quadro” (concetto non troppo diverso dal nostro), una sui problemi di genere, una per il finanziamento della partecipazione dei paesi in via di sviluppo. Le prime due sono serie (nella prima c’è il jet set del settore, nella seconda c’è Sun), le altre per ora sono solo sulla carta.
Ammesso però che in questi gruppi si riesca a lavorare e ad arrivare veramente a, che so, una proposta largamente condivisa di policy globale per l’adozione di standard aperti, il problema è: che se ne fa? Detto che su Internet una proposta di policy ha peso se è intelligente e non se è imposta dall’alto, chi la riconosce, la approva, le dà uno status formale che la sollevi all’attenzione di tutti?
Esiste un nocciolo duro di entità che vogliono evitare che l’IGF possa fare altro che chiacchierare: il governo americano, la “comunità tecnica di Internet” (ICANN, ISOC “centrale”…), le grandi corporation dell’ICT. Sono quelli che già ora, di fatto, controllano Internet, fanno il bello e il cattivo tempo, e non hanno certo voglia di doversi mettere a discutere con qualcun altro. Eppure, spero che prima o poi capiranno che un accordo generale conviene anche a loro: meglio condizioni ambientali certe e condivise, supportate da tutti, che la logorante guerra di posizione a cui assistiamo da anni ad esempio sulla proprietà intellettuale. Meglio una crescita condivisa e rispettosa di tutti, che il rischio della frammentazione incontrollata o degli sforzi concorrenti.
Certo, è difficile immaginare come un forum a “porta aperta” – in cui chiunque può iscriversi ed entrare – possa prendere decisioni formali. Eppure, qualcosa possiamo immaginare. Mi ha fatto piacere sentire Nitin Desai – l’ex vicesegretario dell’ONU che presiede l’IGF – proporre nel discorso conclusivo il modello dell’IETF, che è quello secondo cui io e altri della società civile abbiamo sviluppato negli anni l’idea del Forum. Ovviamente è tutto da inventare, e qualsiasi meccanismo, giudicato secondo i paludati e formalissimi meccanismi del ventesimo secolo, risulterà illegittimo e attaccabile.
Eppure, la IETF, con i suoi gruppi di lavoro aperti e basati sul consenso di massima, e con il suo Board che verifica e approva formalmente, funziona; riuscire a portare un modello del genere dentro le Nazioni Unite vorrebbe dire non solo renderle compatibili ad avere un ruolo nel futuro di Internet, ma anche porre un seme per trasformare la maggiore istituzione politica mondiale in qualcosa di veramente moderno e partecipato.
Non sono l’unico a pensarla così: molti di noi sono consci che quello che stiamo facendo in questo esperimento potrebbe gettare le basi di nuovi modelli per la governance del mondo globalizzato. Forse è una ambizione eccessiva, ma è anche una delle ragioni che ci spinge a provare.