Il primo impatto con San Paolo è stato devastante. Ok, una buona responsabilità ce l’ha l’Air France, che non solo non è riuscita a recuperare nulla dell’ora abbondante di ritardo con cui siamo partiti, ma è anzi pure peggiorata, atterrando con un’ora e mezza di ritardo senza nessuna ragione apparente, cosa mai vista per un volo intercontinentale; e, ciliegina, siamo pure stati fermi per quasi venti minuti sulla pista dell’aeroporto di Guarulhos, in attesa che si liberasse un gate a cui farci attraccare. Quando sono sceso dall’aereo l’ho guardato bene da fuori per controllare che ci fosse scritto “Air France”; a giudicare dalla puntualità , mi sarei aspettato di vederci scritto Trenitalia.
Naturalmente, dopo questi venti minuti di sequestro gratuito a cento metri dall’arrivo – che direi responsabilità dei brasiliani – è seguita la coda infinita alla dogana; nonostante non facciano praticamente alcun controllo, le dogane brasiliane avevano aperto per 250 persone ben due sportelli, di cui uno permanentemente occupato da membri dell’equipaggio, famiglie con bambini e altri passeggeri prioritari ma di complicato trattamento.
Recuperati i bagagli e usciti dall’aeroporto – ed erano già le nove e mezza, cioè mezzanotte e mezza nella mia testa – l’organizzazione brasiliana ha colpito ancora: contrariamente a quel che ci era stato detto e che avviene normalmente per i convegni internazionali, non c’era alcun tipo di accoglienza, neanche un cartello scritto a penna. Identificato a fatica il banco dei taxi dove avremmo dovuto trovare il passaggio prepagato, ho scoperto che delle quattro impiegate nullafacenti tre non parlavano una parola d’inglese, mentre la quarta conosceva quel tanto necessario a dare ordini; e a dirmi che, non importa se io stavo in un altro albergo, lei aveva l’ordine di farmi portare all’hotel del convegno. E così, sono stato caricato su un taxi che per quarantacinque minuti mi ha scarrozzato fino alla sede del meeting, dove sono sceso, entrato nella hall con tutti gli onori, fatto dietrofront e preso un altro taxi (stavolta a mie spese) fino al mio albergo, cinque chilometri più in là .
Ora, ecco la prima impressione di San Paolo: in pratica, sono trenta chilometri lineari di cemento addossati a una placida fogna. Difatti, usciti dall’aeroporto e percorsa (ovviamente ad alta velocità ) l’autostrada Ayrton Senna, ci si ritrova improvvisamente su di un lungofiume superstradale a tre corsie, tutte in un senso, mentre le tre corsie per il senso opposto sono dall’altra parte del fiume. Il fiume, però, è un rigagnolo putrido e piatto, dalle anse troppo regolari per essere naturali, che piano piano s’allarga.
Tutto questo va avanti per trenta chilometri buoni, in cui da un lato non si lascia mai l’acqua, mentre dall’altro scorrono via, in modo piuttosto lasco, casette, favelas, cementifici, megachurrascherie illuminatissime, concessionari di SUV, grattacieli con alberghi, centri commerciali, e soprattutto un sacco di grandi tabelloni pubblicitari, principalmente concentrati su telefonini, motociclette e schermi al plasma. Il paesaggio non è nè brullo nè piatto, ci sono continuamente collinette e avvallamenti, con alberi un po’ dappertutto; ma perplime un po’ questa sequenza di edifici (rigorosamente in cemento, al massimo con un po’ di ferro se sono vecchi, o un po’ di vetro se sono nuovi) in cui peraltro spuntano marchi noti di mezzo mondo: a un certo punto, con il Carrefour da una parte e Leroy Merlin dall’altra, mi sembrava di stare a Moncalieri.
La cosa che colpisce, però, non è solo il traffico spericolato (non si capisce da che parte si guidi, visto che in teoria si guida a destra ma il mio taxi, fisso sulla corsia di sinistra a 90 all’ora, era costantemente superato a destra da giganteschi camion di rumenta industriale). Si nota il fatto che le auto sono più grosse del dovuto, con tanti pickup e SUV che paiono adusi a fare a sportellate in fuga, e soprattutto che buoni due terzi di esse, senza esagerare, hanno i vetri oscurati, in modo che i criminali in attesa non possano capire cosa c’è dentro. Appena partiti, in due taxi su due, l’autista ha chiuso la sicura delle porte, e non l’ha riaperta finchè non siamo stati sotto il portico dell’albergo…
L’effetto di questa immensa, infinita sequenza di curvette indistinguibili, edifici riccamente sberluccicanti ed edifici poverissimi in cancrena, tutti mescolati, è totalmente alienante, disumano: non è un posto in cui un essere umano possa vivere. C’è solo un altro luogo al mondo che mi ha offerto le stesse prospettive e le stesse sensazioni: Los Angeles. Vi assicuro che non è un complimento.
San Paolo vista dalla finestra della mia stanza d’albergo.