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giovedì 1 Febbraio 2007, 12:58

Cronache della Foire

Ieri, come vi avevo anticipato, sono andato per la prima volta alla Fiera di Sant’Orso (anzi, la Foire de Saint-Ours), la millenaria festa cittadina di Aosta, che rappresenta il principale evento dell’anno per la Vallèe. Dopo aver lavorato per la mattinata, mi sono avviato giù per i tornanti da casa mia, per poi arrivare ad Aosta e cercare un parcheggio.

L’operazione non è stata facile, perchè c’era davvero tantissima gente: il primo parcheggio era esaurito e il secondo pieno di centinaia di auto (ovviamente bisogna parcheggiare fuori e prendere la navetta, visto che il centro città è opportunamente sbarrato). La giornata era bellissima, non c’era una nuvola e faceva caldo, per cui in parecchi sono venuti per la fiera; il pubblico era abbastanza equamente diviso tra tre gruppi linguistici: un terzo francese, un terzo italiano e un terzo piemontese. Ovviamente l’età media era altina, visto il giorno infrasettimanale, anche se non mancavano le famigliole un po’ incoscienti coi bambini piccoli, che cercavano di farsi strada nel muro di folla spingendo le facce dei pargoli sulle ginocchia dei passanti.

Parlo di muro di folla perchè la gente era davvero tantissima, e le vie del centro di Aosta sono strettine, tanto è vero che nella maggior parte del percorso era istituito il senso unico pedonale, con tanto di vigili che deviavano la gente agli imbocchi. Lungo le vie si trovano minuscoli banchetti di centinaia di artigiani professionisti e non, ognuno con una manciata di materiale in legno da vendere; chi ha assi e posate di legno, chi ha zuccheriere e grolle, chi vere e proprie sculture (l’attrazione principale era una scultura in legno di una vacca in scala 1:1). Io non ho comprato nulla del genere, avendo già acquistato grolle e zuccheriere dal simpatico intagliatore che ha un microscopico negozio sulla via principale di Saint Vincent, ed essendo che queste magnifiche opere hanno prezzi proibitivi (da cinquanta euro in su un tagliere con bordi intagliati…); mi sono però commosso nello scoprire che esistano ancora artigiani di mestieri antichissimi che parevano perduti, dal bottaio all’intrecciatore di cestini; e ho comunque comprato il dono tipico della fiera, un ramo di fiori di legno, che nel mio caso ho scelto colorati d’arancione.

In realtà, come potete immaginare, oltre alla bella giornata e al bel circondario – Aosta è una città davvero bella, con resti romani e medioevali di grande rilievo, in mezzo allo spettacolo delle montagne – io ero interessato soprattutto all’aspetto gastronomico. In piazza Plouves c’era un “padiglione enogastronomico” dove, contrariamente alle aspettative, non davano da mangiare, ma una serie di piccoli produttori vendevano prodotti tipici, essenzialmente formaggi, salumi, vino, liquori, miele, pane e dolci vari. In compenso, in giro per la fiera c’erano dei tendoni organizzati dalle Pro Loco, dove davano effettivamente da mangiare. Non era necessario andare lì, visto che tutti i ristoranti avevano il menu di Sant’Orso, i bar avevano le offerte di Sant’Orso, e persino il kebabbaro della via principale aveva il kebab di Sant’Orso; ma io volevo mangiare in giro, alla buona, bissando le esperienze delle varie fiere gastronomiche che sono sempre più di moda.

Ora, mentre i villici si accalcavano a frotte nello stand della Pro Loco di Brissogne che distribuiva polenta e salsiccia, io li ho snobbati entrando nello stand accanto a farmi dare la seuppe di Quart (già Porta Pretoria, per gli amanti dell’italianizzazione forzata). Con tre euro, mi sono fatto dare una gavetta profonda in plastica azzurra a pallini, che mi ha ricordato tanto le cene da bambino; me l’hanno riempita con una alluvione di zuppa. Apparentemente, la seuppe è un minestrone denso di verdure e pezzi di pane, dal colore tipicamente marrone; in realtà, è una centrale termonucleare, che accumula e riemette calore come una supernova sul punto di esplodere. Mi accampo sul marciapiede e cerco di assumerla piano piano; ciò nonostante, la mia lingua e il mio palato vengono carbonizzati all’istante. Ma non è finita: perchè la seuppe è caratterizzata dal fatto che, man mano che si scava, emergono delle bolle di fontina liquida. Viene buttata dentro a cubetti solidi, ma si liquefa immediatamente nel calore e quasi evapora, diventando iperfluida; quando la tiri fuori, riassume quel tanto di consistenza necessaria per aggregarsi vagamente in un filo.

Insomma, se prima avevo parecchia fame (erano quasi le due), la zuppa mi è magicamente bastata; non ho più avuto un briciolo di fame. Peccato che non abbia più avuto nemmeno un briciolo di papilla gustativa; anzi, per un po’ mi è stato impossibile persino fare assaggini. E’ che io prendevo il cubetto di fontina da assaggiare, ma quando me lo mettevo in bocca esso, come succedeva a Homer Simpson dopo aver mangiato il chili, cominciava a liquefarsi ed evaporare già a qualche millimetro dalla superficie della lingua!

Ho finito il giro con gli acquisti gastronomici: focaccia e pane nero al finocchio; il raro prosciutto di Saint-Oyen, anche se purtroppo il crudo (soli 36 euro al chilo, ma dicono li valga tutti) era finito; lardo di Arnad; e una fontina stagionata di La Salle, di quelle con le venature rosa e rosse e gli incavi marroni, sfarinati e salatissimi, da confrontare con la mia fontina stagionata di Brusson da cui sono ormai dipendente. Metterò le foto in linea quanto prima; nel frattempo vi lascio con la dichiarazione della madre del piccolo Ivan, otto anni e un po’ di mucche intagliate a qualificarlo come più giovane espositore della Fiera: “Meglio vederlo con un pezzo di legno che davanti al computer o alla televisione”.

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Un commento a “Cronache della Foire”

  1. BlindWolf:

    3 annotazioni:
    1) Ciombia, della gente. Peggio delle “Notti bianche” olimpiche.
    2) C’è da sperare comunque che i prodotti di artigianato non li importino da Taiwan per rivenderli ad Aosta ;-)
    3) Per una madre-del-piccolo-Ivan ce ne sono 50 che preferiscono che il proprio pargolo si rincoglionisca precocemente davanti alla televisione piuttosto che rischi di affettarsi un dito o prendersi una scheggia (vedi il mitico documento “Se eri un bambino negli anni 50,60 e 70… La grande domanda è: come hai fatto a sopravvivere?”)

 
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