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Archivio per il mese di Febbraio 2007


lunedì 5 Febbraio 2007, 16:39

Isteria d’Italia

Sono tornato a casa da mezz’ora, prendo per caso il giornale mentre arrivo, lo apro e che scopro? Che nei tre giorni che sono stato via l’Italia è entrata in crisi isterica per la violenza nel calcio.

Come al solito, in Italia non si riesce a trattare nessun argomento con un po’ di equilibrio e raziocinio; e quindi, in un quarto d’ora ho già letto assurdità e ipocrisie di ogni genere, come la proposta di giocare il campionato a porte chiuse o di vietare le trasferte. Di punto in bianco, sembra che chiunque vada allo stadio sia diventato un criminale assetato di sangue, alla faccia del fatto che la responsabilità penale è personale.

Un problema è proprio la mancanza del coraggio di capire e di cercare le responsabilità individuali dei singoli, preferendo parlare di “ultras” e “sbirri” e riducendo tutto a un conflitto di parti. E allora, non si fa niente per anni e poi d’improvviso si colpisce nel mucchio, magari diffidando tutti i millecento tifosi che sono andati in una trasferta, comprese donne e vecchietti (successe a Samp-Toro anni fa), per non andare a colpire quei dieci di cui tutti, Digos compresa, sanno perfettamente nome cognome e indirizzo; quei dieci che non vanno allo stadio per tifare, ma solo perchè è una zona franca di canne e di violenza dove fare i bulli… e stanno sulle scatole innanzi tutto alle migliaia di tifosi veri, quelli che fanno le notti a montar bandierine e preparare i cori e magari devono pure subirne i soprusi in curva.

E però, se è ora di reprimere i violenti – ma quelli veri, non colpendo a caso -, non si può pensare di uccidere il calcio eliminando i colori, gli sfottò, le rivalità di campanile, le coreografie, gli striscioni (quelli ironici, non quelli beceri). Su questo, io concordo persino con il doroteo Matarrese: il calcio è un patrimonio culturale, prima ancora che industriale, dell’Italia, e solo l’altra estate abbiamo ricevuto gli omaggi di tutto il mondo. Un calcio senza colori e senza calori morirebbe presto; per cui basta ai violenti, basta ai maltrattamenti – vale anche per i carri bestiame in cui i tifosi in viaggio vengono stipati e le manganellate gratuite che gli arrivano, però, visto che è noto che trattando un uomo da bestia lo si riduce a bestia -, ma basta anche alle generalizzazioni.

Nello specifico, come frequentatore dell’unico stadio italiano a norma con il decreto Pisanu, mi limito ad aggiungere che da quando c’è tale decreto lo stadio è enormemente più insicuro proprio per i tifosi normali, visto che i poliziotti se ne fregano e non perquisiscono in alcun modo la tifoseria ospite, che entra nello stadio con pietre, razzi e bombe carta che poi riversa contro i tifosi di casa, perdipiù nella curva “tranquilla” e non in quella degli ultras. Quest’anno c’è stato già un tifoso morto di infarto in curva Primavera allo scoppio di una bomba carta (peccato che sia passato sotto silenzio), mentre i famosi steward sono dei ragazzotti in pettorina gialla che non hanno nè la voglia nè i mezzi di fare alcunchè se non starsene a guardare gratis la partita. Non oso pensare cosa può succedere se d’improvviso davvero applicassero il decreto Pisanu dappertutto, perdipiù in modo raccogliticcio, all’italiana.

Questo detto, non è che i giornali potrebbero ricominciare a occuparsi del fatto che abbiamo un governo che non ha una maggioranza e si rende ridicolo ogni due giorni, invece di ammannirci il solito diversivo?

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domenica 4 Febbraio 2007, 00:25

Standard aperti

Il mio discorso è stato ben ricevuto, anche se la platea era più interessata a sentire lo scambio tra il rappresentante del governo cinese – che sostiene che è necessario eliminare i diritti di proprietà intellettuale sugli standard internazionali e renderli aperti, altrimenti loro non possono utilizzarli nel libero commercio – e quello del governo americano – che sostiene che naturalmente loro sono a favore del libero mercato, specialmente quando si tratta di esportare, ma “le preoccupazioni dei nostri cittadini per lo spostamento di posti di lavoro tecnologici in India e Cina non possono essere prese alla leggera”.

In generale, il simposio è molto interessante, seguito da una cinquantina di persone ma tutte di altissimo livello, e con discussioni piuttosto avanzate: ho conosciuto una simpatica signora di Sun che mi ha ribadito come loro siano molto avanti sul liberare la loro proprietà intellettuale, a differenza del signore di Microsoft (il responsabile di tutte le politiche aziendali sulla proprietà intellettuale e sugli standard) che ha ribadito che tutto va bene, e non c’è bisogno di direttive in materia perchè il mercato decide da solo se gli standard devono essere aperti o chiusi. L’ambiente gotico e l’abbondanza di cibo gratis poi fanno il resto… Comunque, se volete sapere cosa sono andato a raccontare, trovate qui il testo del position paper, e qui le slide.

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sabato 3 Febbraio 2007, 17:09

A Nightmare on Elm Street

Salto per il momento il racconto di tutte le procedure di sicurezza che ho dovuto subire per entrare in America, e che meritano un discorso serio, per raccontarvi del mio primo approccio con un pianeta sconosciuto: la provincia del New England.

Mi ritrovo difatti in un’ala semidimenticata del megaaeroporto di Filadelfia, scaricato lì da una navetta svogliata della US Airways: è l’ala più vecchia e lontana, e viene usata per i voli locali, quelli dei pendolari. Il punto è che in America hanno un concetto di pendolare aereo che noi non abbiamo: e difatti, percorrendo i vari gate scopro voli in partenza per i buchi più minuscoli degli Stati Uniti orientali. Passi il volo per Knoxville, che è già abbastanza nota; passino anche quelli per Ithaca o per Syracuse, che a voi non diranno niente ma sono centri dell’intellighenzia bene che si è spostata nell’upstate New York per sfuggire alla vita vuota di Manhattan. Ma il volo per Massena? Quello per Newport News? Elmira? Altoona? Harrisburg/York? Utica? Hartford/Springfield? Ogdenville? Shenandoah Valley? Tutti questi posti non solo esistono veramente, ma dispongono di un aeroporto e di collegamenti diretti con Filadelfia (neanche New York).

Peccato che questi collegamenti siano più o meno dello stesso livello dei nostri treni interregionali. Già il gate scrostato con i tubi in evidenza e la moquette strappata mi avrebbe dovuto far intuire qualcosa; ma l’orrida verità si materializza quando salgo sull’aereo. Che si rivela essere un vecchissimo bimotore ad elica, risalente almeno agli anni Sessanta, più probabilmente ai Cinquanta: ha due sedili per lato e nove file, di cui l’ultima è contro una paratia e ha pure il sedile in mezzo, proprio come nei pullman. Ecco, questo aereo ha battuto il record dell’aereo più vecchio e scassato su cui abbia mai viaggiato, surclassando persino il temibile volo Aerolineas Argentinas da Buenos Aires a Montevideo che ho preso nel 2001 (ed era il periodo in cui Aerolineas era in fallimento). (Devo però dire che non sto contando il volo su Cessna che ho fatto in Nuova Zelanda, decollando da una striscia di terra battuta e atterrando in un prato zuppo d’acqua: quello è hors categorie.)

Comunque, il volo sembrava un po’ come quello nel finale di Ti presento i miei: difatti c’era la hostess di mezza età e tuttofare, che al gate chiama i passeggeri delle file posteriori (quattro) e poi, dopo avergli strappato le carte d’imbarco, annuncia al microfono con estrema professionalità che “ora imbarchiamo i passeggeri delle file anteriori” (altri sei). Abbiamo ballato come dei dannati, visto che fuori pioveva a dirotto ed era buio, ma soprattutto che l’aereo era uno sputacchio nel risucchio del vento. La suddetta hostess ha pure annunciato al microfono che “a causa delle turbolenze, vi preghiamo di tenere strette le bevande che vi saranno versate” (il verbo al passivo naturalmente copre la verità, cioè che a bordo c’era solo lei). Ma è la prima volta che vedo un aereo dove sui sedili, al posto di “Life vest under your seat”, c’è scritto “Use bottom cushion for flotation”.

La situazione è divenuta ancora più ridicola dopo l’atterraggio all'”aeroporto” di New Haven, che si è rivelato essere una specie di autogrill prefabbricato in mezzo a un piazzale. In pratica, si scende dall’aereo, si cammina per il piazzale, si svolta dietro una parete di cartongesso e lì c’è il recupero bagagli. Umano: non c’è un nastro trasportatore, c’è un omino che tira su a mano una serranda che dà sull’esterno, poi fa il giro, e attraverso la serranda prende i bagagli dal camioncino e li butta per terra davanti ai viaggiatori. Fuori, oltre al parcheggetto per le macchine dei pendolari, c’è lo stand dei taxi, con un taxi solo. Chiuso e vuoto. Vado in giro, chiedo all’unico impiegato dell’aeroporto (che fa check in, gate di ingresso, gate d’uscita e distribuzione bagagli) dove trovo un taxi, mi dice: ma hai visto dentro? Torno là, mi avvicino al taxi sotto il diluvio. Dentro, a ben guardare, ci sono avanzi di McDonald’s per tutti i sedili, e un nero che dorme sdraiato. Busso, lo sveglio, e mi butto dentro.

Il percorso per arrivare in città prevede l’attraversamento di una zona di ville: ecco, al buio e sotto la pioggia, sembra un film di Nightmare, con le casette di legno con le verande e i tetti a punta in cima alle collinette, circondate da alberi spettrali. Non a caso la strada principale di New Haven si chiama Elm Street.

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sabato 3 Febbraio 2007, 15:09

Americani

Il mio volo da Parigi a Filadelfia era occupato quasi esclusivamente da americani; d’altra parte, chi mai vorrebbe andare a Filadelfia da turista? E così, mi sono beccato un paio di americanate fantastiche.

La prima è la ragazza – nè alta nè grassa, semplicemente grossa – che tornava con le amiche da una vacanza a Parigi (ne hanno chiacchierato per tutto il viaggio). Ora, supponi di essere americana, e di essere cresciuta nella prateria con le vacche oppure nella infinita periferia di una megalopoli tutta uguale. Per una volta nella vita, ti concedi una vacanza e vai a Parigi: ebbene, qual è il monumento simbolo, quello che anche se ci stai pochi giorni non puoi mancare, quello di cui ti compri la maglietta e la sfoggi sul volo di ritorno? La torre Eiffel? Montmartre? Il Louvre? Notre Dame? No, ovviamente è un altro: Eurodisney.

La seconda è il tizio che per tutto il santo viaggio, seduto davanti a me, ha lavorato sul portatile a powerpoint aziendali scaricandoli via Bluetooth dal palmare aziendale e parlando con il collega aziendale di nuovi fantastici piani aziendali, intervallati da esibizionismo tecnologico relativo al nuovo portatile aziendale e soprattutto al nuovo palmare aziendale, che sembrava fare di tutto di più. Stavamo già scendendo quando la hostess, pure dovendo insistere, è riuscita a ottenere che spegnesse tutto e si mettesse buono. Ebbene, manca non più di un minuto all’atterraggio, vediamo le case, l’altimetro segna cinquecento metri scarsi, stiamo anche un po’ ballando causa maltempo, e nel silenzio totale della cabina in tensione d’improvviso si sente fortissimo: “PIII-PIII!! PIII-PIII!!!”. Ottanta occhi guardano il malcapitato con il palmare in mano, mentre la hostess gli grida “MA NON L’AVEVA SPENTO?”. No: difatti, a cinquecento metri d’altezza, gli era appena arrivato il primo SMS aziendale per una urgentissima faccenda aziendale. Per poco non veniva (giustamente) linciato.

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venerdì 2 Febbraio 2007, 08:25

Tortillas

Il Messico è sul piede di guerra; migliaia di persone hanno marciato l’altra sera per le strade di Città del Messico, urlando slogan contro il governo e la globalizzazione. Già, ma qual è stata la causa? La guerra in Iraq? Il prezzo del petrolio? La repressione dei diritti umani?

Niente di tutto questo, perchè il motivo della prima grande crisi politica della presidenza Calderon è un altro: il rincaro del prezzo delle tortillas, che in pochi mesi è più che raddoppiato, c’è chi dice triplicato.

Se vi sembra strano, ancora più strano è il motivo: un vero fenomeno di globalizzazione dove un battito di ali in Cina genera un uragano in Africa. Difatti, il Messico è un grande consumatore di tortillas e di mais in genere, tanto che, pur producendone molto, ne deve importare quasi la metà del proprio fabbisogno, in buona misura dagli Stati Uniti. Purtroppo, il prezzo del mais sui mercati internazionali è in crescita verticale, e quindi, di conseguenza, lo è il prezzo dei cereali in Messico, e presumibilmente lo sarà presto in altri grandi paesi del secondo e terzo mondo che devono importare cereali per dar da mangiare ai propri cittadini, come l’Indonesia o la Nigeria.

Ma ancora più sorprendente è il motivo per cui il prezzo dei cereali è in aumento: lo è perchè i paesi sviluppati hanno cominciato la svolta ecologista sul mercato dei carburanti. In altre parole, alla ricerca di una alternativa al petrolio, i paesi sviluppati hanno cominciato ad incentivare la produzione e l’uso di biocarburante, ovvero di carburante derivante da vegetali come il mais o le barbabietole. Di conseguenza, anche grazie agli incentivi promossi dalle anime belle dell’ambientalismo nostrano, è diventato più conveniente usare il mais per alimentare lo stile di vita iperconsumistico del mondo sviluppato, invece che per sfamare i poveri del terzo mondo.

Fin qui, il racconto serio – qui, se volete, trovate anche un minimo di approfondimento. Mi sembrava una storia interessante da segnalare, perchè mostra come il sistema globalizzato e interconnesso sia molto difficile da governare, persino nel modo blando che ci è concesso dalla debolezza delle attuali istituzioni internazionali; è difficile anche solo capire quali saranno le conseguenze delle scelte politiche in certe parti del mondo, figuriamoci discuterle a livello globale.

Se volete, invece, ci si può divertire a buttarla sul faceto: già, perchè, manco a farlo apposta, questa settimana Lidl lancia la grande offerta di prodotti messicani: gli spot televisivi propagandano tortillas e fagioli a prezzo di lancio. Possiamo quindi divertirci ad immaginare scenari alternativi: ad esempio, non potremmo trasportare i messicani presso il Lidl più vicino? Oppure, non sarà che tutto questo è un complotto dei tedeschi contro il Messico? Magari per vendicarsi di quella finale dei mondiali di calcio perduta allo stadio Azteca nel 1986? E’ proprio vero che le vie del commercio mondiale sono infinite…

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giovedì 1 Febbraio 2007, 22:23

Di nuovo in partenza

Ebbene sì, questa è stata una settimana a singhiozzo: sono di nuovo in partenza, più o meno per battere un record di traversata transatlantica. Difatti, sabato devo essere a New Haven, Connecticut, tra i relatori di un simposio sugli standard aperti organizzato dalla facoltà di legge della Università di Yale.

Ora, sarebbe stato bello fermarsi, ma non ne avevo nè il tempo nè la voglia, visto anche che le temperature in zona sono a meno tre di massima; e quindi, il mio piano di volo prevede la partenza domani mattina da Torino, con un volo per Parigi, quindi per Philadelphia, quindi per New Haven, con arrivo domani sera alle sette ora locale; sabato convegno; domenica mattina si riparte, con cinque ore di buco a Philadelphia, volo della notte, arrivo lunedì mattina a Parigi e lunedì a pranzo a Torino, in tempo per il kebab settimanale (se sopravvivo).

Inutile dire che sono le dieci e mezza di sera e non ho ancora fatto nè la presentazione – che speravo di fare in volo, se non che ce l’hanno chiesta all’ultimo con un giorno d’anticipo per caricarla sul computer – nè la valigia; ho fatto appena in tempo a procurarmi le informazioni di base, tipo l’indirizzo dell’albergo in cui dormo e una mappa di Philadelphia stampata da Google Maps, se no come la giro?

Eppure, renitente al dovere, ho ancora intenzione di passare la prossima mezz’oretta a scrivere un post da lasciarvi per domani mattina, in modo che abbiate qualcosa da leggere; non ho idea se sabato al convegno ci sarà connettività… come si dice in questi casi, lo scopriremo solo vivendo.

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giovedì 1 Febbraio 2007, 12:58

Cronache della Foire

Ieri, come vi avevo anticipato, sono andato per la prima volta alla Fiera di Sant’Orso (anzi, la Foire de Saint-Ours), la millenaria festa cittadina di Aosta, che rappresenta il principale evento dell’anno per la Vallèe. Dopo aver lavorato per la mattinata, mi sono avviato giù per i tornanti da casa mia, per poi arrivare ad Aosta e cercare un parcheggio.

L’operazione non è stata facile, perchè c’era davvero tantissima gente: il primo parcheggio era esaurito e il secondo pieno di centinaia di auto (ovviamente bisogna parcheggiare fuori e prendere la navetta, visto che il centro città è opportunamente sbarrato). La giornata era bellissima, non c’era una nuvola e faceva caldo, per cui in parecchi sono venuti per la fiera; il pubblico era abbastanza equamente diviso tra tre gruppi linguistici: un terzo francese, un terzo italiano e un terzo piemontese. Ovviamente l’età media era altina, visto il giorno infrasettimanale, anche se non mancavano le famigliole un po’ incoscienti coi bambini piccoli, che cercavano di farsi strada nel muro di folla spingendo le facce dei pargoli sulle ginocchia dei passanti.

Parlo di muro di folla perchè la gente era davvero tantissima, e le vie del centro di Aosta sono strettine, tanto è vero che nella maggior parte del percorso era istituito il senso unico pedonale, con tanto di vigili che deviavano la gente agli imbocchi. Lungo le vie si trovano minuscoli banchetti di centinaia di artigiani professionisti e non, ognuno con una manciata di materiale in legno da vendere; chi ha assi e posate di legno, chi ha zuccheriere e grolle, chi vere e proprie sculture (l’attrazione principale era una scultura in legno di una vacca in scala 1:1). Io non ho comprato nulla del genere, avendo già acquistato grolle e zuccheriere dal simpatico intagliatore che ha un microscopico negozio sulla via principale di Saint Vincent, ed essendo che queste magnifiche opere hanno prezzi proibitivi (da cinquanta euro in su un tagliere con bordi intagliati…); mi sono però commosso nello scoprire che esistano ancora artigiani di mestieri antichissimi che parevano perduti, dal bottaio all’intrecciatore di cestini; e ho comunque comprato il dono tipico della fiera, un ramo di fiori di legno, che nel mio caso ho scelto colorati d’arancione.

In realtà, come potete immaginare, oltre alla bella giornata e al bel circondario – Aosta è una città davvero bella, con resti romani e medioevali di grande rilievo, in mezzo allo spettacolo delle montagne – io ero interessato soprattutto all’aspetto gastronomico. In piazza Plouves c’era un “padiglione enogastronomico” dove, contrariamente alle aspettative, non davano da mangiare, ma una serie di piccoli produttori vendevano prodotti tipici, essenzialmente formaggi, salumi, vino, liquori, miele, pane e dolci vari. In compenso, in giro per la fiera c’erano dei tendoni organizzati dalle Pro Loco, dove davano effettivamente da mangiare. Non era necessario andare lì, visto che tutti i ristoranti avevano il menu di Sant’Orso, i bar avevano le offerte di Sant’Orso, e persino il kebabbaro della via principale aveva il kebab di Sant’Orso; ma io volevo mangiare in giro, alla buona, bissando le esperienze delle varie fiere gastronomiche che sono sempre più di moda.

Ora, mentre i villici si accalcavano a frotte nello stand della Pro Loco di Brissogne che distribuiva polenta e salsiccia, io li ho snobbati entrando nello stand accanto a farmi dare la seuppe di Quart (già Porta Pretoria, per gli amanti dell’italianizzazione forzata). Con tre euro, mi sono fatto dare una gavetta profonda in plastica azzurra a pallini, che mi ha ricordato tanto le cene da bambino; me l’hanno riempita con una alluvione di zuppa. Apparentemente, la seuppe è un minestrone denso di verdure e pezzi di pane, dal colore tipicamente marrone; in realtà, è una centrale termonucleare, che accumula e riemette calore come una supernova sul punto di esplodere. Mi accampo sul marciapiede e cerco di assumerla piano piano; ciò nonostante, la mia lingua e il mio palato vengono carbonizzati all’istante. Ma non è finita: perchè la seuppe è caratterizzata dal fatto che, man mano che si scava, emergono delle bolle di fontina liquida. Viene buttata dentro a cubetti solidi, ma si liquefa immediatamente nel calore e quasi evapora, diventando iperfluida; quando la tiri fuori, riassume quel tanto di consistenza necessaria per aggregarsi vagamente in un filo.

Insomma, se prima avevo parecchia fame (erano quasi le due), la zuppa mi è magicamente bastata; non ho più avuto un briciolo di fame. Peccato che non abbia più avuto nemmeno un briciolo di papilla gustativa; anzi, per un po’ mi è stato impossibile persino fare assaggini. E’ che io prendevo il cubetto di fontina da assaggiare, ma quando me lo mettevo in bocca esso, come succedeva a Homer Simpson dopo aver mangiato il chili, cominciava a liquefarsi ed evaporare già a qualche millimetro dalla superficie della lingua!

Ho finito il giro con gli acquisti gastronomici: focaccia e pane nero al finocchio; il raro prosciutto di Saint-Oyen, anche se purtroppo il crudo (soli 36 euro al chilo, ma dicono li valga tutti) era finito; lardo di Arnad; e una fontina stagionata di La Salle, di quelle con le venature rosa e rosse e gli incavi marroni, sfarinati e salatissimi, da confrontare con la mia fontina stagionata di Brusson da cui sono ormai dipendente. Metterò le foto in linea quanto prima; nel frattempo vi lascio con la dichiarazione della madre del piccolo Ivan, otto anni e un po’ di mucche intagliate a qualificarlo come più giovane espositore della Fiera: “Meglio vederlo con un pezzo di legno che davanti al computer o alla televisione”.

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