Castelloni di San Marco
Oggi a colazione abbiamo rifatto i pancake, solo di più, perchè secondo alcuni ieri erano pochi; e così, verso mezzogiorno, mi sono alzato da tavola piegato sotto qualche chilo di nutella e marmellata. Stante che nessuno aveva programmi per la giornata a parte leggere e giocare con i videogiochi, ho deciso di fare la mia seconda escursione; ho preso la macchina e mi sono nuovamente infilato su per le valli e attraverso lo sterrato dell’altra volta, per parcheggiare qualche chilometro prima, nella conca a quota 1560 detta Tiffgruba, e dirigermi verso i Castelloni di San Marco, di cui la guida ai sentieri parlava bene.
Il percorso è marcato abbastanza chiaramente con segni bianco-rossi numero 845, e sale secco in mezzo al bosco per i primi venti minuti, fino a sfociare nella conca di una malga (dove, ho scoperto, arrivava anche la strada; mi sarei potuto risparmiare un po’ di fatica). Da lì, scendendo e salendo, si arriva dopo tre quarti d’ora alla base della montagna; certo che mi chiedo perchè lo chiamino altipiano, visto che qualsiasi percorso che vada dal punto A al punto B di pari quota sul livello del mare prevede comunque un 50-100 metri di dislivello a chilometro…
Io ho deciso di prendere la montagna dal lato ovest, in verso contrario a quello normalmente consigliato, perché poi pianificavo una deviazione dall’altra parte una volta disceso. Ho capito tardi che consigliavano l’altro verso perché da quella parte la salita è quasi verticale, una mezz’ora scarsa di arrampicata da capre nella parte alta del bosco. Evitando in qualche modo le residue trincee, si sbuca poi proprio sulla cima, poco sopra i 1800 metri, dove una piccola lapide ricorda un altro gruppo di caduti del ’15-’18.
Di lì, si entra nel labirinto dei Castelloni, che si è rivelato un eccezionale insieme di formazioni geologiche naturali: sono dei canaloni alti una decina di metri e larghi mezzo a dir tanto, scavati dall’acqua e rifiniti dall’uomo come costruzione difensiva, aggiungendo anche gallerie, scalinate e collegamenti vari. Spesso, qualche gigantesco masso si è staccato dalle parti alte ed è finito incastrato sopra i passaggi, alle volte facendo da tetto, altre scendendo fin sul sentiero e costringendo il passante ad abbassare la testa.
Insomma, è una specie di dungeon a cielo aperto, in cui è facilissimo perdersi: per questo hanno segnalato il percorso di attraversamento con delle frecce numerate da 1 a 48. Sfortunatamente, l’hanno segnalato in un verso solo, quello opposto al mio: per cui ho dovuto ripercorrere il labirinto cercando ogni volta la freccia precedente, intuendo ai vari incroci la direzione da come era orientata la freccia, ma sbagliando strada lo stesso parecchie volte. Ogni tanto si sbuca su qualche balconata, normalmente attrezzata come postazione da mitragliere o da artiglieria pesante, che dà o sull’interno dell’altopiano, visibile per chilometri, o sullo strapiombo della Valsugana, circa 1500 metri in verticale a un passo dal sentiero. Il tutto, percorso in solitaria e nel silenzio più assoluto, è stato davvero molto divertente, spesso con il brivido di non capire come uscire dal punto in cui ero finito.
Scendendo dall’altro lato, ho deciso di fare la deviazione verso i cippi: difatti, proprio ad est della montagna comincia una parte di altipiano che, incredibilmente, fa parte del Trentino, ed appartiene a Grigno, paese della Valsugana, da cui i locali usavano arrampicarsi sulla parete grazie a un sentiero impossibile, per usufruire dei boschi e dei pascoli. Dopo una serie secolare di scontri con gli abitanti dell’altipiano, nel 1752 la disputa territoriale su quale fosse la parte di bosco che spettava alla Valsugana fu risolta da un convegno a Rovereto; furono quindi installati dei cippi di pietra per marcare la linea di confine tuttora vigente tra Veneto e Trentino, anche se allora era ovviamente il confine tra Repubblica di Venezia e Impero Austro-Ungarico.
Il cippo numero 2 sta praticamente sulla strada forestale che scende dai Castelloni verso Enego; è indicato chiaramente dalle tabelle commemorative, ma anche dal cartello che tuttora segnala il cambiamento di Regione, principalmente per ricordare che chi è abilitato a raccogliere funghi di là potrebbe non esserlo di qua. Lungo il confine si snoda un breve sentiero nel bosco che porta al cippo numero 1, quello commemorativo; difatti, duecentocinquanta anni fa presero un roccione che sporgeva sullo strapiombo della Valsugana, in un posto da brivido, e ci incisero sopra a scalpello la linea di confine, i simboli dei due stati (ora perduti) e l’anno. Ho dovuto controllare le vertigini per fare le foto…
Esaltato dalla scoperta topo-storica, ho deciso di allungare ancora il giro e di arrivare ancora al cippo numero 3; in teoria un percorso facile, scendendo in Trentino sulla strada forestale e poi prendendo un sentiero che diparte dal tornante. Peccato che del sentiero non vi fosse traccia; così ho cominciato a percorrere il bosco a mezza via, ritrovando poi il confine, e scendendo lungo di esso fino al terzo cippo.
Fin qui, tutto bene; però poi dovevo risalire lungo il sentiero che, stando alla cartina, passava dal cippo e intersecava poi il successivo percorso marcato numero 869. Sfortunatamente anche questo sentiero si è rivelato essere un insieme di tracce devastate da alberi caduti o abbattuti, e in generale poco riconoscibili. A un certo punto, in sostanza, mi sono messo a vagare nel bosco cercando di mantenere la quota e sperando di incrociare prima o poi un sentiero marcato, dovendo nel contempo aprirmi un varco tra ostacoli di vario genere. Da una parte stavo disperando, visto che ero ormai in marcia da quattro ore; dall’altra è stato davvero affascinante, vista la totale assenza di tracce umane.
Alla fine, spinto in salita dal terreno, sono sbucato in una radura assolutamente magica; mi sono rilassato un attimo, godendomi il sole che sbucava in mezzo al buio degli alberi. Probabilmente proprio per questo, dopo cinque minuti che ero fermo lì, sono apparsi i marcatori del sentiero di attraversamento, che a prima vista non sembravano esserci. Tutto contento per aver ritrovato la via, mi son messo a scendere, pur se con qualche esitazione perché quest’altro sentiero era poco battuto e marcato al risparmio, con segni di via veramente radi.
Comunque, sono sbucato duecento metri più in basso, all’inizio di una strada forestale digradante nel bosco. In teoria avrei dovuto tagliare verso ovest dopo un po’, ma erano ormai le cinque e mezza, stava venendo buio, e l’idea di ritrovarmi di nuovo in mezzo a chilometri di bosco non pulito, senza punti di riferimento e col tramonto incombente, non mi sembrava particolarmente furba. Così, ho deciso di fare il percorso più lungo seguendo la strada, un oggetto che ha l’interessante proprietà – specialmente se preso dal suo capo a monte – di portare sicuramente da qualche parte.
Ho comunque rischiato di nuovo, perchè ho lasciato la strada per andare a fotografare il cippo numero 5, che sta a poche decine di metri da essa, nella accogliente conca della Busa Scura (nomen omen – sembrava il bosco maledetto dei videogiochi). Esso è interessante per i ruderi della casermetta della Guardia di Finanza che fungeva da posto di confine, finché, dopo il 1918, il confine non ci fu più e l’edificio fu abbandonato e crollò. Da qui si doveva tornare sulla strada mediante un breve tratto a mezza costa; se non che, la strada che ho incrociato pareva stranamente peggio messa di quella che avevo lasciato pochi minuti prima, e soprattutto faceva un vertiginoso curvone in discesa che mi lasciava col sole alle spalle. Per fortuna, sapendo di dover andare a ovest, mi son detto che il sole era nel posto sbagliato e sono tornato su, per scoprire che nel tratto di massimo duecento metri che avevo saltato c’era un bivio non segnalato, e che la mia strada era rimasta più su…
A questo punto, ho deciso che ero stanco e che non avrei abbandonato la strada per alcun motivo; sono disceso fino a quota 1400, e poi ho preso una strada laterale che, per una serie di tornanti, doveva riportarmi all’auto. Sono venuto meno alla mia promessa tagliando un paio di tornanti, rischiando di venire avviluppato nel buio tra abeti e arbusti: ben mi sta. Comunque, la salita su una strada forestale è sempre graduale e quindi ampiamente tollerabile anche dopo sei ore di cammino, e i 160 metri da risalire non mi sono pesati. Alla fine, però, cominciava a far freddo, erano le sei e mezza, non mangiavo nè bevevo da quando ero partito, e sono stato contento di arrivare all’auto.
Quando ho avviato la macchina, l’autoradio ripartita automaticamente a bassissimo volume mi è sembrata un rimbombo intollerabile. Ma la sorpresa maggiore è stata incrociare un fuoristrada mentre ripercorrevo in macchina lo sterrato per tornare giù: il primo essere umano da quando, cinque ore e mezza prima, avevo lasciato la malga. Di sicuro un’esperienza.