La legge a casaccio
Da tempo, spinto anche dai salaci commenti di vari amici (“ma come, leggi ancora quella roba?”), sono tentato di smettere di leggere La Stampa; peraltro l’abbonato è mia mamma, e io recupero il giornale da casa sua solo un giorno ogni tanto. Solo negli ultimi giorni si è visto di tutto, da una intervista totalmente sdraiata di Minzolini a Berlusconi a un mitico articolo di cinque colonne in cronaca sul processo agli ultras arrestati per il derby, che raccontava la rava e la fava riuscendo a non dire mai a quale squadra appartenessero i suddetti.
Tuttavia, la pagina di oggi di Maria Corbi è di quelle che ti riconciliano col giornalismo: il lungo racconto dell’abbattimento di uno dei campi nomadi di Tor di Quinto, visto da uno dei bambini del campo. Certo, l’approccio era un pelino patetico, da libro Cuore, con tanto di lettera al Presidente della Repubblica; eppure è servito a svegliare le coscienze – o perlomeno l’ufficio stampa di Veltroni – su come le forze dell’ordine stiano affrontando la “emergenza rom”.
Che è poi lo stesso con cui stanno affrontando la “emergenza ultras”: generalizzando, e reprimendo a caso.
Succede così che, senza preavviso, le ruspe si presentino in una favela di romeni in cui non è nemmeno detto che i rom ci siano, e tirino giù la baracca di Sorin, undici anni, in Italia da due, studente di prima media con ottimi voti. Non vive lì perché vuol fare l’alternativo o perché deve nascondere la refurtiva di scippi e furti con scasso; vive lì perché la mamma fa le pulizie a 500 euro al mese, e il padre fa il muratore quando trova. A Roma, le case costano dal mezzo miliardo in su, anche in estrema periferia; tre romeni, con meno di mille euro al mese e nessun vecchio ipergarantito a sovvenzionare, dove possono vivere?
Eppure, lo Stato italiano spedisce le ruspe a tirargli giù la baracca, con quel poco che hanno chiuso dentro, perché nemmeno gli danno il tempo di portarlo via. La scena di un ragazzo che rovista tra le macerie per cercare il libro di storia, che domani ha il compito, è raccapricciante. Sarà anche enfatizzata apposta, ma è raccapricciante lo stesso, per un paese che ha il problema di promuovere l’integrazione per non esplodere.
Come sempre, da noi si aspetta fino a quando proprio la situazione non è più tollerabile, e poi, sull’ondata di sdegno, si manganella a casaccio, cercando il rimedio raffazzonato dell’ultimo minuto per superare l’esame dell’opinione pubblica. Si colpiscono cento per educarne uno, insomma. L’ovvio risultato è quello di spingere i novantanove nella stessa casella dell’uno, e di far loro riflettere sul come il rigare diritto, il distinguersi dai ladri o dai violenti, in Italia non serva a nulla.
E di far pensare a noi come l’incompetenza e la protervia regnino sovrane tra chi dovrebbe mantenere l’ordine e la legge – gli elementi base di una comunità civile – e invece lo fa selettivamente, di solito contro i deboli, e comunque solo quando serve a raccogliere l’applauso dell’audience elettorale.
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