Roby
Al numero quarantadue di via Challant, nel mezzo di una landa dimenticata da Dio e dagli uomini in cui nessuno a parte .mau. potrebbe riuscire a sopravvivere, sta il carrozziere affiliato all’azienda che mi noleggia la macchina.
Proprio di fronte a lui, sta Roby.
Roby è un palazzo basso e largo, come fosse una grossa officina, di mattoncini giallini anni sessanta. A un certo punto, sulla facciata dell’unico piano (il terreno), si apre una doppia porta, protetta dalla pioggia e dal sole da un aggetto di tende.
Lì sopra, sul muro, è attaccata una insegna orizzontale di neon azzurri e rosa, che occhieggia la strada e dice: ROBY.
Sulle tende verdine che proteggono la porta, c’è scritto in un bel corsivo dorato: Roby Roby Roby.
E accanto alla porta, che è di legno ed elegante come quella di un albergo londinese, c’è una targa di ottone lucido con su scritto: Roby.
Davanti a Roby, c’è parcheggiato un furgone – un vecchio Fiat rosso – con le porte posteriori coperte da due grandi scritte ROBY. Ma sotto la prima c’è scritto anche “cena con”.
Non c’è assolutamente null’altro, sull’esterno di Roby. Nessuna indicazione di cosa sia e cosa ci si faccia, ad eccezione di una targa di plastica sbiaditissima, con sopra, a malapena leggibile, scritto “International Police Association – Delegazione Regionale Piemonte”.
Il che non aiuta a capire, anzi infittisce il mistero, su cosa diavolo sia veramente Roby.
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